In questi giorni è entrato in vigore il contestato decreto “Appropriatezza”. Un provvedimento che durante il suo travagliato iter legislativo tanto ha fatto discutere il mondo politico, i sanitari e i cittadini e sul quale anche Slow Medicine aveva già espresso molte riserve. Un altro decreto è in corso di approvazione ed è legato ad un altro termine: responsabilità. Su questo tema è in diverse sedi intervenuta l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane. In un “dialogo aperto” Antonio Bonaldi e Sandra Vernero di Slow Medicine e Luca De Fiore dell’Associazione Alessandro Liberati – NIC esprimono le loro perplessità.
 Antonio Bonaldi |
 Sandra Vernero |
 Luca De Fiore |
Due dei temi di cui ha discusso la sanità italiana negli ultimi mesi riguardano altrettante parole chiave: appropriatezza e responsabilità. In teoria, sarebbe una buona cosa: ben venga, infatti un confronto su due termini così complessi e ricchi di implicazioni. La nostra associazione è stata particolarmente impegnata, negli ultimi anni, nel lavoro di comprensione e approfondimento di questi due concetti. Soprattutto perché il principale obiettivo del nostro lavoro è quello di tenere desta l’attenzione per un approccio alla clinica e alla politica sanitaria che sia orientato alla evidence-based medicine e consideriamo l’appropriatezza un naturale esito di una pratica che sia una sintesi di prove, esperienza e preferenze della persona malata. Anche a livello internazionale, Cochrane ha da tempo associato le valutazioni della effectiveness/efficacy dei trattamenti con quelle della appropriateness. Tornando al confronto odierno, italiano, la prima parola – appropriatezza – è legata ad un decreto legislativo il cui obiettivo è quello di limitare la prescrizione di prestazioni, prevedendo delle “condizioni di erogabilità”. La seconda è oggetto di un altro decreto che ha come principale finalità quella di arginare i contenziosi legali per possibili danni ricevuti dai pazienti durante le cure. La posizione di Slow Medicine sul cosiddetto “decreto Appropriatezza” è molto chiara e, credo, condivisibile. Lascerei a voi il compito di illustrarla.
Ancora una volta il governo, attraverso un provvedimento calato dall’alto e senza il preventivo contributo dei professionisti che sono chiamati ad applicarlo, è riuscito a scontentare tutti. I presidenti di alcune Regioni, prima fra tutte la Toscana, hanno invitato i direttori generali a soprassedere all’applicazione; i sindacati denunciano l’ennesimo trasferimento di un pacchetto di prestazioni sanitarie dal pubblico al privato; i medici, in particolare quelli di medicina generale, ne contestano la farraginosità, le incongruenze e le oggettive difficoltà interpretative e applicative; i cittadini e i pazienti sono convinti di essere stati bersaglio di nuovi pericolosi tagli che minacciano la tutela della salute e i loro diritti. Davvero un bel pasticcio!
“Il provvedimento calato dall’alto e senza il preventivo contributo dei professionisti che sono chiamati ad applicarlo, è riuscito a scontentare tutti.”
Credo sia giusto e opportuno sottolineare l’irritualità di un metodo che inevitabilmente compromette il risultato di qualsiasi azione politica. Se questa è – come diceva Cavour – “sottile arte della mediazione e della tessitura”, direi proprio che non ci siamo. Sono sinceramente stupito dalla mancanza di una comunicazione efficace, per cui qualsiasi provvedimento appare – come avete scritto – “calato dall’alto”: la presentazione di questi decreti non è mai accompagnata da una spiegazione adeguata del lavoro che è stato svolto per prepararli. Nel caso specifico, la Direzione generale della Programmazione sanitaria ha indicato nella “Nota per il Ministro” i principali passaggi che hanno preceduto la formulazione del decreto: dall’analisi delle proposte delle società scientifiche all’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza, fino all’approvazione da parte del Consiglio Superiore di Sanità (CSS). Aggiungerei che, nel guardare alle date – le radici del decreto affondano, per così dire, nel 2003 e la discussione al CSS è dell’agosto 2015 – si resta perplessi di fronte alla compatibilità di tempi così lunghi con la produzione di conoscenze sempre nuove.
Oltre al metodo, c’è però un problema di contenuti. In primo luogo, si fa una gran confusione tra razionamento e appropriatezza.
Sì, anche perché – sempre nella nota introduttiva del decreto – c’è un riferimento esplicito al fatto che il “recupero della appropriatezza prescrittiva” è previsto nella “manovra per il contenimento della spesa sanitaria per il 2015”: come se le decisioni cliniche e di politica sanitaria dovessero essere “appropriate” solo in presenza di una carenza di risorse: in altre parole, se il denaro ci fosse saremmo autorizzati a sprecarlo.
Secondo Slow Medicine, è del tutto evidente che quando si parla di condizioni di erogabilità siamo di fronte a provvedimenti che si propongono di razionare le risorse. Si tratta, infatti, di norme sulla base delle quali si decidono quali sono le prestazioni assicurate dal servizio sanitario nazionale e quali sono le categorie di persone che ne hanno titolo. Non si tratta quindi di una questione di appropriatezza, e questo va detto in modo chiaro ed esplicito, anche per evitare deleterie confusioni rispetto ad un termine che in medicina ha un significato ben preciso: effettuare la prestazione giusta, in modo giusto, al momento giusto, al paziente giusto. Sarebbe molto meglio, quindi, ricomprendere tutte le norme che riguardano il razionamento dei servizi negli appositi elenchi che definiscono i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), cioè le prestazioni e i servizi garantititi a tutti i cittadini da parte dello Stato e delle Regioni. Anche per quanto riguarda l’appropriatezza clinica permangono forti perplessità. A parte la presenza nel decreto di alcuni bizzarri svarioni, siamo convinti che, soprattutto in campo diagnostico, sia davvero difficile stabilire a priori, e con valore di legge, cosa sia utile fare o non fare nelle diverse circostanze che caratterizzano la pratica clinica. È evidente che a questo scopo il medico si debba avvalere di linee guida, percorsi diagnostici e terapeutici e delle migliori conoscenze scientifiche, ma sulle sue decisioni influiscono molte altre variabili, quali la credibilità del professionista, le richieste, i valori, la fiducia del paziente, i margini d’incertezza dei risultati, l’evoluzione delle conoscenze, il contesto fisico e soprattutto culturale di erogazione delle cure. Tutti questi elementi che contraddistinguono l’atto medico e che si basano, oltre che sulle conoscenze scientifiche, sull’instaurarsi di un’effettiva reciprocità nella relazione di cura, ben difficilmente possono trarre vantaggio da provvedimenti impositivi, di tipo burocratico, validi per tutti.
Questa osservazione ci avvicina all’altra questione oggi in primo piano: quella che mette in relazione la responsabilità del medico e disponibilità a seguire le linee-guida. Ci abbiamo messo parecchi anni, ma dalla rivalutazione dei risultati della “buona ricerca clinica” siamo arrivati a mettere la persona malata al centro non solo dell’attenzione del sistema sanitario ma anche del processo decisionale riguardante il percorso di prevenzione e di cura: mai come oggi siamo convinti che la “responsabilità del medico” dovrebbe piuttosto essere valutata – e se possibile misurata – come capacità di sintesi tra evidenze della ricerca e aspettative espresse dal paziente e, in certe circostanze, dei suoi familiari. Purtroppo, invece, viviamo la paradossale situazione di una medicina e di una sanità sempre più complesse e a questa complessità si pretende di rispondere con la definizione ininterrotta di nuove categorie, classificazioni e percorsi. Da una parte enfatizziamo il valore dell’autonomia decisionale della persona – sana o malata – finalmente consapevole e dall’altra si richiede che il clinico segua itinerari quanto più rigidi possibile.
“Viviamo la paradossale situazione di una medicina e di una sanità sempre più complesse.”
Esatto. Molti pensano che la soluzione dei problemi della sanità vada ricercata in un sistema perfetto di regole, misurazioni e controlli, ma non è così. Siamo pieni di dati inutili, che nessuno usa e che impegnano il tempo dei professionisti per compiti che nulla centrano con la cura. Pur riconoscendo che la medicina è pervasa da prestazioni inappropriate verso cui in qualche modo occorre intervenire, e che in linea di principio alcune indicazioni regolatorie e di controllo sui comportamenti prescrittivi possano essere utili a tutela del paziente, prima ancora che per ragioni economiche, siamo convinti che a questo fine la via legislativa sia uno strumento poco efficace o addirittura tossico. Paradossalmente, in ambito sanitario il problema dei costi non va affrontato attraverso manovre di tipo economico.
“Molti pensano che la soluzione dei problemi della sanità vada ricercata in un sistema perfetto di regole, misurazioni e controlli, ma non è così.”
Slow Medicine, che fin dalla sua fondazione ha affrontato la questione dell’appropriatezza clinica, indica un percorso completamente diverso per ridurre l’eccessivo utilizzo di esami diagnostici e di trattamenti, ben delineato nei suoi diversi progetti: Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy, che è parte di Choosing Wisely International, Scegliamo con cura, e Ospedali e Territori Slow. In questi tre progetti le prestazioni a rischio d’inappropriatezza non sono imposte dall’alto, ma si basano sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura. Al centro dell’interesse permangono la relazione e il dialogo con i pazienti e i cittadini che sono informati sui benefici e i possibili danni di esami e trattamenti, per giungere ad una decisione condivisa. Le 145 pratiche a rischio d’inappropriatezza finora individuate da 29 società scientifiche e associazioni professionali italiane non sono, quindi, da intendere come liste di esclusione bensì come pratiche da utilizzare dopo un’attenta valutazione del professionista, supportata dal dialogo con il paziente. Riteniamo, infatti, che l’appropriatezza clinica si possa migliorare solo se pazienti e cittadini prendono coscienza che esami e trattamenti inappropriati non solo sono uno spreco ma possono rappresentare una minaccia per la loro salute: basti pensare ai danni da radiazioni ionizzanti, agli effetti collaterali dei farmaci, alle complicanze di procedure invasive, ai falsi positivi e alle sovradiagnosi. L’appropriatezza clinica non comprende poi solo il sovra-utilizzo, cioè le pratiche erogate in eccesso, senza un favorevole rapporto tra benefici e rischi, ma anche il sotto-utilizzo, cioè le pratiche che secondo le prove scientifiche apportano benefici, ma che non vengono erogate a sufficienza, come ad esempio le cure domiciliari per malati cronici, malati terminali e disabili: la riduzione del sovra-utilizzo può permettere un impiego più appropriato delle risorse e una medicina più equa.
L’iniziativa Choosing Wisely è molto interessante anche perché fonda il suo successo sul coinvolgimento dei professionisti e delle organizzazioni che li rappresentano. In questa adesione collettiva vedo una delle sue qualità principali perché raramente la responsabilità riguarda il singolo professionista: il più delle volte è la struttura, l’unità operativa, l’ente a essere in difetto.
“Quella della responsabilità del professionista è una questione di sistema e le risposte dovrebbero essere ugualmente di sistema.”
C’è ancora un altro aspetto che meriterebbe di essere considerato. Da parte delle nostre istituzioni sanitarie c’è la volontà di collegare la responsabilità all’applicazione di linee-guida ma questo dovrebbe presupporre che l’operatore sanitario fosse messo nelle condizioni di poter accedere facilmente e tempestivamente alle fonti di informazione qualificate. Così non è: le istituzioni sanitarie italiane hanno abbandonato le attività informative che avevano avviato e condotto ormai diversi anni fa. Penso al Bollettino di Informazione sui Farmaci o a Clinical Evidence. Anche gli investimenti a livello regionale per l’acquisizione di letteratura sono condizionati da finanziamenti sempre più modesti e il gap tra nord, centro e sud si sta progressivamente aggravando. Concludendo, quella della responsabilità del professionista è una questione di sistema e le risposte dovrebbero essere ugualmente di sistema. L’impressione è che manchi un “governo” complessivo della sanità nel nostro Paese. Se ci fosse, le istituzioni terrebbero in gran conto una delle principali verità di cui ogni professionista sanitario è consapevole e di cui ha parlato Siddhartha Mukherjee nel suo ultimo, prezioso e piccolo libro, The laws of medicine: “Medicine asks you to make perfect decisions with imperfect information”.
In primo piano
Appropriatezza? Non per decreto ma per scelta
In questi giorni è entrato in vigore il contestato decreto “Appropriatezza”. Un provvedimento che durante il suo travagliato iter legislativo tanto ha fatto discutere il mondo politico, i sanitari e i cittadini e sul quale anche Slow Medicine aveva già espresso molte riserve. Un altro decreto è in corso di approvazione ed è legato ad un altro termine: responsabilità. Su questo tema è in diverse sedi intervenuta l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane. In un “dialogo aperto” Antonio Bonaldi e Sandra Vernero di Slow Medicine e Luca De Fiore dell’Associazione Alessandro Liberati – NIC esprimono le loro perplessità.
Antonio Bonaldi
Sandra Vernero
Luca De Fiore
Slow Medicine, che fin dalla sua fondazione ha affrontato la questione dell’appropriatezza clinica, indica un percorso completamente diverso per ridurre l’eccessivo utilizzo di esami diagnostici e di trattamenti, ben delineato nei suoi diversi progetti: Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy, che è parte di Choosing Wisely International, Scegliamo con cura, e Ospedali e Territori Slow. In questi tre progetti le prestazioni a rischio d’inappropriatezza non sono imposte dall’alto, ma si basano sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura. Al centro dell’interesse permangono la relazione e il dialogo con i pazienti e i cittadini che sono informati sui benefici e i possibili danni di esami e trattamenti, per giungere ad una decisione condivisa. Le 145 pratiche a rischio d’inappropriatezza finora individuate da 29 società scientifiche e associazioni professionali italiane non sono, quindi, da intendere come liste di esclusione bensì come pratiche da utilizzare dopo un’attenta valutazione del professionista, supportata dal dialogo con il paziente. Riteniamo, infatti, che l’appropriatezza clinica si possa migliorare solo se pazienti e cittadini prendono coscienza che esami e trattamenti inappropriati non solo sono uno spreco ma possono rappresentare una minaccia per la loro salute: basti pensare ai danni da radiazioni ionizzanti, agli effetti collaterali dei farmaci, alle complicanze di procedure invasive, ai falsi positivi e alle sovradiagnosi. L’appropriatezza clinica non comprende poi solo il sovra-utilizzo, cioè le pratiche erogate in eccesso, senza un favorevole rapporto tra benefici e rischi, ma anche il sotto-utilizzo, cioè le pratiche che secondo le prove scientifiche apportano benefici, ma che non vengono erogate a sufficienza, come ad esempio le cure domiciliari per malati cronici, malati terminali e disabili: la riduzione del sovra-utilizzo può permettere un impiego più appropriato delle risorse e una medicina più equa.
C’è ancora un altro aspetto che meriterebbe di essere considerato. Da parte delle nostre istituzioni sanitarie c’è la volontà di collegare la responsabilità all’applicazione di linee-guida ma questo dovrebbe presupporre che l’operatore sanitario fosse messo nelle condizioni di poter accedere facilmente e tempestivamente alle fonti di informazione qualificate. Così non è: le istituzioni sanitarie italiane hanno abbandonato le attività informative che avevano avviato e condotto ormai diversi anni fa. Penso al Bollettino di Informazione sui Farmaci o a Clinical Evidence. Anche gli investimenti a livello regionale per l’acquisizione di letteratura sono condizionati da finanziamenti sempre più modesti e il gap tra nord, centro e sud si sta progressivamente aggravando. Concludendo, quella della responsabilità del professionista è una questione di sistema e le risposte dovrebbero essere ugualmente di sistema. L’impressione è che manchi un “governo” complessivo della sanità nel nostro Paese. Se ci fosse, le istituzioni terrebbero in gran conto una delle principali verità di cui ogni professionista sanitario è consapevole e di cui ha parlato Siddhartha Mukherjee nel suo ultimo, prezioso e piccolo libro, The laws of medicine: “Medicine asks you to make perfect decisions with imperfect information”.