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Camici bianchi e fumo

Luciano Rubini, lettore di Va’ Pensiero, ricorda che nel 2003 Garattini propose di licenziare i medici che fumano nell’esercizio della professione: sarebbero in conflitto d’interessi con il datore di lavoro, cioè il SSN. Seguì una discussione…

Inviato il: 12.02.2007@11.52
Da: Luciano Rubini

Recenti indagini confermano quanto altre in precedenza avevano già evidenziato. Tra i camici bianchi italiani il “vizio” del fumo è percentualmente più alto che non nella restante popolazione: più del 30% per i medici contro circa un 25% per gli altri; negli Usa solo il 2% dei medici fuma. Questo dato non varrebbe poi solo per il fumo. Secondo uno studio condotto dal Centro Albert Schweitzer di Torino tra i medici risulta più alto anche il tasso di separazioni e divorzi, nonch di suicidi o tentati suicidi. Il Centro di formazione di Torino voleva così dimostrare quanto sia rischiosa la professione del personale sanitario in genere e si prefiggeva di richiamare l’attenzione sulle più adeguate azioni per prevenire il fenomeno del “burn-out”.

Continua

Senza estenderci e rimanendo solo sull’aspetto della maggiore diffusione del fumo tra i camici bianchi, ci si imbatte subito in alcune considerazioni di “ovvio” buon senso.

“Meno male che anche i medici sono come tutti gli altri comuni mortali con le loro contraddizioni e debolezze” si sente spesso dire da chi pensa così di umanizzare agli occhi dei più una figura verso la quale si hanno spesso sentimenti contraddittori, tanto è vero che la discussione intorno alla relazione medico-paziente è sempre vivace.

I fumatori, per giustificare e/o minimizzare la loro dipendenza dal fumo adottano le motivazioni più varie che disegnano uno spettro ampio di comportamenti. Chi dice che fumare gli serve per concentrarsi meglio, chi per rilassarsi, chi fa appello alla libertà individuale e chi invece dice che fa molto peggio respirare l’aria inquinata dal traffico eccetera. Prima che arrivasse la benemerita legge che bandisce il fumo dai luoghi pubblici, non era raro trovare appesa in qualche ufficio la vignetta con un cimitero di croci di ex fumatori: in ogni lapide vi era riportata la giustificazione al fumo di ognuno di loro nel senso descritto qui sopra. Anche oggi che la legge è in vigore, può succedere che far rispettare questo divieto o pretenderlo per sé in ambienti di convivenza privati risulti alquanto difficile, perché il fumatore generalmente si vive come vittima (del divieto) e non come usurpatore di un diritto altrui: quello di non essere costretti a fumare il fumo altrui (fumo passivo). Perfino uno dei più amati Presidenti della Repubblica, Sandro Pertini, fumatore di pipa , era arrivato a dire: “I fumatori sono le persone più tolleranti: si è mai visto che noi impediamo di non fumare ai chi non fuma?”. Con buona pace dell’amato Presidente, il ribaltamento di logica mi pare del tutto evidente.

Un medico che fuma avrà anche lui trovato una sua giustificazione, ma quest’ultima può trovare una qualche evidenza scientifica? Certamente no e credo che nessun medico possa affermare “in scienza e coscienza” che il fumo non faccia male alla salute. Un medico fumatore è dunque in contraddizione palese con gli scopi della sua professione.

Guardando la cosa dal punto di vista del paziente, possiamo limitarci a dire (parafrasando un detto popolare): “Poco importa se il calzolaio cammina con le sue scarpe rotte: l’importante è che aggiusti le mie per bene”? Io non lo credo, ma non per una convinzione personale (ognuno si tiene la sua), quanto piuttosto in riferimento ai processi di qualità ed efficacia delle cure. In modo particolare penso al tema della comunicazione del rischio (evidenziato bene anche da molti interventi nella vostra newsletter) e delle metodologie più adatte per far cambiare i comportamenti alle persone sane (prevenzione) o ammalate.

In un mondo in cui sempre più conta l’immagine si è mutuato dal campo della politica il detto “Ma tu compreresti mai un’auto usata da quel politico con quella faccia?” per significare quanto importanti siano gli aspetti non “verbali” nell’approccio ad una comunicazione che permetta una relazione di fiducia.

Presentarsi per una cura dimagrante e trovare dall’altra parte della scrivania una persona vistosamente obesa, credo possa dirsi poco invitante. Così come risulterebbe poco credibile un macellaio che si dichiari vegetariano.

Senza voler discriminare o offendere nessuno, questi esempi “provocatori” mi servono solo per arrivare al medico fumatore e chiedere: quale fiducia può avere in lui un paziente (magari con patologie correlate al fumo) sapendolo un tabacco dipendente? Quale efficacia curativa potrà avere il suo messaggio dissuasivo per i comportamenti a rischio del paziente?
La questione, dunque, non va posta in termini morali, ma misurata sul terreno dell’efficacia della relazione curativa.
Senza scomodare le recenti deduzioni sul comportamento e l’apprendimento umano (evidenziato dagli studi sul ruolo dei nostri neuroni “specchio”) è comunemente risaputo il valore pedagogico dell’esempio pratico e, in riferimento alla nostra questione, un medico che fuma è indiscutibilmente un cattivo esempio.

Venendo invece alle campagne di educazione contro il fumo, andrebbe misurata la loro efficacia tenendo in considerazione la macroscopica contraddizione rappresentata nel nostro paese dai Monopoli di Stato sui prodotti del tabacco. Colui che scrive sui pacchetti di sigarette “il fumo uccide” è poi quello che fa aumentare i prezzi dei pacchetti non tanto in chiave di deterrenza (l’aumento dei prezzi non scoraggia i “tossicodipendenti”) quanto per ricavare fondi utili a risanare la nostra dissestata finanza pubblica. Alla luce di ciò penso che andrebbero ben rivisti i messaggi che si mandano ai dipendenti dalla nicotina e nella società della conoscenza e della comunicazione non dovrebbe essere difficile reperire le giuste competenze per farlo.

Mi sento anche di sottolineare il peso non irrilevante delle multinazionali del tabacco nel finanziamento degli studi sui danni da fumo e non solo. La loro influenza sulla ricerca scientifica biomedica è molto consistente e forse nel nostro Paese (vuoi a causa del monopolio statale sui tabacchi) poco avvertita, mentre in altri si presta molta attenzione a questo aspetto come dimostrano gli esempi seguenti.

Nel 1998 esce su JAMA un intervento intitolato: “Perché ci sono risultati differenti sul fumo passivo?” [2], in cui gli autori hanno analizzato oltre 100 revisioni apparse nei 15 anni precedenti in tema di fumo passivo suddividendole in base ad alcuni parametri obiettivi. Tra gli altri si valutava: il rapporto degli autori con l’industria del tabacco (se cioè avevano ricevuto fondi da un’azienda produttrice di sigarette); l’argomento (se si trattava solo di cancro o anche di malattie respiratorie); l’anno di pubblicazione. Ebbene, l’unica differenza tra gli articoli che affermavano che il fumo passivo non fa male e quelli che invece riconoscevano il fumo passivo come dannoso era data dagli autori. Chi affermava che il fumo passivo è nocivo nell’87% dei casi non era legato a un’azienda produttrice di sigarette, mentre chi diceva che il fumo passivo era innocuo aveva ricevuto fondi nel 94% dei casi dalle aziende.

Tra il 1998 e il 2004 l’Associates for Research Into the Science of Enjoyment (ARISE), diretta da David Warburton, psicofarmacologo all’Università di Reading, ebbe una certa “audience” a livello mediatico. L’ARISE si definiva come “un’associazione mondiale di scienziati che agiscono come commentatori indipendenti” il cui scopo era dimostrare che cioccolato, sigarette, , alcool o caffè migliorano la qualità della vita. Sosteneva che studi scientifici dimostravano che godere dei piccoli piaceri quotidiani, senza sentirsi per questo in colpa, riduce lo stress e fa aumentare la resistenza alle malattie. Il suo direttore così poteva rilasciare interviste in cui esaltava le proprietà calmanti della sigaretta e se la prendeva con i messaggi antifumo che le autorità sanitarie emettevano solo per ragioni politiche. A seguito dei processi contro le industrie del tabacco furono scoperti documenti che provavano essere l’ARISE finanziata quasi totalmente dalle multinazionali del tabacco. Warburton non è più presidente dell’ARISE dal 2003, ma continua a tenere lezioni a Reading come professore emerito.

Sempre nei documenti che le multinazionali del tabacco sono state costrette a rendere pubblici per le cause processuali cui sono state chiamate in giudizio, si sono scoperte altre situazioni scabrose.
In uno degli studi commissionati è addirittura contenuta un’affermazione delirante che suona più o meno: “(…) con l’allungamento della durata della vita media abbiamo bisogno di qualcosa per cui la gente muoia: nei suoi aspetti positivi e controllati, il cancro è un ingrediente essenziale della vita, senza il quale le cellule del corpo umano non sarebbero in grado di rinnovarsi”. (Campbell-Johnson Ltd. A public relations strategy for the Tobacco Advisory Council, 1978).

Si possono così ben capire le ragioni che portarono Richard Smith nel 2001 alle dimissioni dall’incarico di professore di giornalismo medico presso l’università di Nottingham perché l’ateneo aveva ricevuto un cospicuo “omaggio” (3,8 milioni di sterline) dall’industria del Tabacco. All’epoca Smith era anche direttore del BMJ e la decisione venne presa dopo un referendum che aprì sulle pagine web della rivista: ricevette 550 lettere a favore e 450 contrarie. Smith non è più professore a Nottingham.

Quanto sopra mi fa dire che innanzitutto la prevenzione dovrebbe essere rivolta verso i medici: da una parte per imparare a distinguere la qualità degli articoli scientifici sul fumo, dall’altra per far conoscere i sistemi per uscire dalla dipendenza dal fumo. Quest’ultimo aspetto andrebbe mirato attentamente ai medici fumatori perché, qualora riuscissero a diventare ex-fumatori, la loro esperienza concreta sarebbe di grande aiuto per trovare la giusta empatia con i pazienti cui consigliano di smettere di fumare.

Per concludere queste note, sono convinto che se vorrete aprire questo fronte di discussione tra i vostri lettori, non vi mancheranno certo i giusti contatti per analizzare questo problema. In modo particolare mi sento di suggerire gli aspetti psicologici (“dissonanza conoscitiva”?) che ruotano, secondo me, intorno alla domanda: “Perché un medico fumatore non smette di fumare?” che ha molto più a che fare con il saper essere che non con il saper fare della professione medica o sanitaria in genere.

Penso che, come sottolineato da diversi autori, oggi si ha a che fare con pazienti sempre meno pazienti che probabilmente misurano la bravura di un medico soprattutto per il suo saper essere e non solo per il suo saper fare. Non vi è dubbio che nelle Facoltà mediche si insegni il saper-fare, ma quanto al saperessere si può far affidamento solamente sulla propria esperienza o sulla fortuna di incontrare un buon maestro? Grazie per l’attenzione e cordiali saluti.

P.S.: Nel 2003 il professor Silvio Garattini aveva avanzato una proposta: licenziare i medici che fumano nell’esercizio della professione perché, a suo dire, il medico fumatore sarebbe in conflitto d’interessi con il suo datore di lavoro ovvero il Sistema Sanitario Nazionale. Facendo una semplice ricerca in rete con la stringa “fumo e camici bianchi” o “medici e fumo” si può rintracciare gran parte della discussione che seguì alla provocazione di Garattini. Potrebbe essere interessante cercare una sua intervista che facesse il punto retrospettivo sulla sua proposta di allora.

PP.SS.: Per dati statistici recenti sull’incidenza del fumo tra i camici bianchi ho fatto riferimento a quelli menzionati nella presentazione del “Progetto cessazione del fumo” avvenuta a fine ottobre u.s. (di cui si può trovare menzione on-line). In vero altri studi smentiscono in parte i dati citati in quella presentazione. Ad esempio l’indagine svolta tra gli operatori sanitari dei 4 poli ospedalieri del Friuli Venezia Giulia (vedi il seguente articolo). Un’indagine del 1999 molto particolareggiata sul fumo tra i medici di famiglia a cura della FIMMG la si può trovare on-line in formato power point .

La statistica rappresenta sempre un terreno scivoloso, ma al di là delle percentuali il problema mi pare resti immutato nella sua rilevanza.

Inviato il: 12.02.2007@11.52
Da: Maria Paola Ascenzi

Riguardo ai fumatori incalliti non penso più niente… Una considerazione: quante ore di lavoro occorrono in tutti gli ospedali d’Italia per rimuovere i mozziconi di sigaretta “lanciati” da fumatori clandestini dalle finestre, gettati in terra davanti agli ingressi, nelle strade interne , nei vasi di fiori ? e quanti anni impiegheranno questi mozziconi prima di distruggersi?
Si dovrebbe aumentare ulteriormente il costo delle sigarette in considerazione dei danni all’ambiente e “tassare” sullo stipendio i fumatori perché producono rifiuti che richiedono il lavoro di altri per lo smaltimento.
Lavoro con fumatori accaniti che richiedono frequenti soste per fumare, che non riescono a mantenere la concentrazione su un problema per più di 30-60 minuti senza avere il bisogno di interrompere per fumare, che rientrano dopo aver fumato puzzando come vecchi posaceneri stracolmi: che noia, che fastidio!!


Inviato il: 11.02.2007@14.50
Da: Elio F. Gagliano

Luciano Rubini, dice: “Anche oggi che la legge è in vigore, può succedere che far rispettare questo divieto o pretenderlo per s in ambienti di convivenza privati risulti alquanto difficile“.
Non capisco come non si renda conto quanto sia sfacciatamente presuntuoso l’esigere il divieto di fumo in ambienti privati. A quanto pare non gli basta che in ambienti privati chiamati pubblici, come bar e ristoranti, non si fumi…
Ed aggiunge: “perché il fumatore generalmente si vive come vittima (del divieto) e non come usurpatore di un diritto altrui: quello di non essere costretti a fumare il fumo altrui (fumo passivo).”
Usando la sua stessa espressione (“ribaltamento di logica“) si può dire che il non-fumatore non si rende conto di usurpare il diritto altrui (di fumare).

Continua
A parte queste quisquilie, sarebbe bene ricordare che nella Costituzione non c’è scritto che il cittadino abbia il diritto di non fumare il fumo altrui, né che il cittadino abbia il diritto di fumare. Si tratta semplicemente di buona creanza da una parte e/o dall’altra, non di diritti. Se a me non piace l’intenso odore di fritto di un ristorante, io me ne esco. Non vado dal ristoratore per reclamare il mio diritto a non respirare la sua aria satura di sostanze tossiche (1, 3)

Più in là nell’articolo si legge: “credo che nessun medico possa affermare, in scienza e coscienza, che il fumo non faccia male alla salute”. È vero. Così com’è vero per un’infinità d’altre cose come vino, bibite, carne, uova, burro, salumi, prosciutti, gelati, dolci. Roba senza la quale si può vivere, non essenziale per salvare la ghirba ma che, nelle giuste dosi, gratifica il corpo e lo spirito. Ogni persona è (dovrebbe essere) libera di decidere se vuole vivere o sopravvivere. Se vuole rendersi la vita più gradevole con il vino o con il dolce, con il caffè, con pan e salame, con la sigaretta o con la vodka (vivere). O se vuole soltanto campare sfamandosi unicamente con l’essenziale (sopravvivere). L’unico consiglio che il medico può dare ad ambedue, è “In medio stat virtus”. Perché non esiste cosa su cui si possa impunemente eccedere.

Ancora leggiamo: “Un medico fumatore è dunque in contraddizione palese con gli scopi della sua professione” più in là condito con la proposta di Garattini di “licenziare i medici che fumano nell’esercizio della professione perché, a suo dire, il medico fumatore sarebbe in conflitto d’interessi con il suo datore di lavoro ovvero il Sistema Sanitario” Nazionale. E io aggiungo che lo stesso “ragionamento” va fatto a proposito dei medici in soprappeso o obesi!…

Ancora: “quale fiducia può avere in lui un paziente (magari con patologie correlate al fumo) sapendolo un tabacco dipendente?” Mi sa che Luciano Rubini sia un medico, ed allora gli chiedo: Quali sono oggi le patologie non correlate al fumo? Eziologia, fisiopatologia, trattamento e prognosi sono da riscrivere, lasciando che i Padri della medicina si rivoltino nelle loro tombe!

In:Why Review Articles on the Health Effects of Passive Smoking Reach Different Conclusions. JAMA 1998; 279: 1566-70, citato dall’autore, viene fatto riferimento al “peso non irrilevante delle multinazionali del tabacco nel finanziamento degli studi sui danni da fumo e non solo. La loro influenza sulla ricerca scientifica biomedica è molto consistente”. OK. Ci credo. Ma, come mai in questo e in quasi tutti gli altri articoli medici, anche non correlati al fumo, non viene detto il peso rilevante delle Case Farmaceutiche? (2, 4) Non sono forse loro che hanno in mano la ricerca scientifica biomedica e le università e la stampa medica e gli aggiornamenti professionali e le borse di studio e i congressi?

Dette multinazionali incassano miliardi di dollari con i loro “prodotti di cessazione” i cui effetti, valutati fino a 12 mesi, vanno man mano calando sino ad arrivare intorno al 25%. Tali risultati sono molto vicini al placebo, con il vantaggio per quest’ultimo che non costa niente, non ha controindicazioni e non dà effetti collaterali.
La campagna antifumo, con le sue fanfaronate cifre è amorale ed immorale; infatti considera il fumare un costume antisociale, suicida e omicida, scatenando sentimenti di discriminazione, inesistenti prima della famigerata legge. I suoi attivisti diffondono cifre sempre più allarmanti e sempre meno fornite di basi scientifiche sui “morti da fumo”: numeri terrorizzanti, che vengono sparati a casaccio, sicuri che nessuno sarà mai in grado di controllarli.
Screditare gli oppositori, ridurli dispoticamente al silenzio, imporre il loro credo, è insito nella mentalità del fanatico. Con ciò non intendo targare chiunque combatte il fumo, perché molte persone, non rendendosi conto quanto le loro menti siano state purgate e impregnate con nuovi concetti subliminalmente instillati dal marketing farmaceutico, sono convinte che il fumo uccide.

In Italia ci sono 15 milioni di ultrasessantenni, un terzo dei quali, pressappoco, fumatori. Tutti sono stati fumatori passivi (il fumatore attivo respira passivamente anche il fumo degli altri). Se fosse vera la propagandata dannosità del fumo passivo, come si spiegano tutti questi “vecchi”? Se fosse vero che il fumo induce nel nascituro una riduzione dell’altezza, deficit mentali e comportamentali, come mai l’Italia non è popolata da un gran numero di nanerottoli e handicappati mentali? Come mai l’altezza degli italiani è aumentata (guardate le foto dei nostri genitori o dei nonni)? E come mai da decenni abbiamo il problema della fuga di cervelli? In Italia (ma non solo) vi è un’aumentata incidenza d’asma e altre affezioni broncopolmonari, particolarmente nei bambini (5, 6, 7). Come si spiega ciò con la scomparsa del fumo passivo nei luoghi pubblici? Perché non ammettere onestamente che l’incremento dei problemi respiratori va di pari passo con l’aumento dello smog: il vero fumo passivo che compromette l’insostituibile elemento essenziale per la vita animale e vegetale: l’ARIA?

Luciano Rubini si riferisce ai fumatori quali “dipendenti dalla nicotina” e “tabacco dipendenti”, ch’è come dire “tossicomani, drogati”. Questo è un aggettivo che piace tanto agli attivisti antifumo. Pensano, a ragione, che dire “fumatore” non sia molto efficace nella loro campagna di scredito del loro nemico. Io non metto in dubbio che alcuni fumatori siano dipendenti dalla nicotina, ma questi non sono la maggioranza. Sarebbe come dire che è alcool dipendente (alcolista) chi quotidianamente beve due o tre bicchieri di vino senza il quale considererebbe i pasti un semplice apporto di cibo per sussistere anziché, un nutrimento si, ma anche un piacere. Idem per chi, la mattina, ha bisogno della tazzina di caffè (“caffeinomane”) per svegliarsi, per funzionare. È “dipendente” chi mangia ogni giorno il cornetto, il pane, la pasta? I tossicomani sono poveri disgraziati che per vari motivi hanno preso quella china e non possono uscirne,. Per procurarsi la dose rubano, rapinano, uccidono. Mi sa dire Luciano Rubini e gli altri attivisti antitabacco se possono onestamente includere i fumatori, anche quelli “dipendenti”, in questo gruppo di gente?

La sigaretta, per la maggior parte dei fumatori, è un piacere, è rilassare la mente, è prolungare la soddisfazione di un pasto, potenziare l’aroma di un caffè, completare l’appagamento di un amplesso amoroso o lenirne il disappunto. Questo e tant’altro ancora, senza l’aiuto di psicofarmaci.
Che il non fumatore non capisca tali stati d’animo è comprensibile. Chi trova nella poltrona il massimo della goduria non può capire l’entusiasmo, l’ebbrezza di chi, con difficoltà varie e grande tensione psicofisica, ha scalato un’alta vetta. Né l’amante della sdraio sulla spiaggia può concepire l’appagamento fisico e mentale di chi ha sfidato e vinto la forza del vento ed il tumulto dei cavalloni a bordo del suo windsurf. E se lo scalatore, contemplando il panorama ai suoi piedi, o il surfista, ammirando la violenza delle grosse onde, si accende soddisfatto una sigaretta, mentre mentalmente rivede i momenti più belli (più pericolosi) della passata impresa, prolunga la sua estasi rispetto al compagno non-fumatore.

Questo è fumare per la stragrande maggioranza dei fumatori, altro che schiavitù!

Note

  1. Dubowsky SD, Wallace LA, Buckley TJ. The contribution of traffic to indoor concentrations of polycyclic aromatic hydrocarbons. Nature 1999; 9: 312-21.
  2. Gerlach KK and Larkin MA. To Improve Health and Health Care: The Robert Wood Johnson Foundation Anthology, VIII: 29-46, January 2005.
  3. Ogulei D, Hopke PK, Wallace LA. Analysis of indoor particle size distributions in an occupied townhouse using positive matrix factorization. Indoor air 2006; 16: 204.
  4. Chris Talbot. British scientist challenges pharmaceutical company over research paper, January 2006.
  5. Fisiopatologia dell’asma
  6. American Lung Association of California. Recent study shows smog may cause asthma
  7. Canada’s statistics

Inviato il: 10.02.2007@20.44
Da: esamicon100@********.it

Gentilissimo giornale, ti leggo molto volentieri anche perché sono sempre in casa , anche io penso che il fumo sia letale, in casa mia non fuma nessuno per mia fortuna, ho dei figli già grandi e forse per l’esempio che abbiamo dato io e mio marito non hanno preso questo vizio.


Inviato il: 9.02.2007@11.34
Da: Conti Arrigo

1) Delirio di onnipotenza?
2) Perch dovremmo essere un modello?
3) Ogni medico ha le sue motivazioni profonde uniche e non normabili.
4) Comprendere e non giudicare ed accettare l’alterità.


Inviato il: 8.02.2007@13.25
Da: Giuseppe Battistella

Luciano Rubini fa una serie di riflessioni e provocazioni che meritano di essere rilanciate.

Premetto che:

  • non sono fumatore
  • non sono un castigatore di costumi
  • sono un medico
  • m’interesso al “problema” fumo di tabacco da circa 20 anni
  • non ho mai ricevuto incentivi economici ed avuto progressioni di carriera grazie a “progetti fumo” più o meno palesemente “false risposte” ad un vero problema (quindi anestetici di coscienze più o meno pelose)
  • non ho mai ricevuto finanziamenti (purtroppo in senso generale … mi accontento della paga base di medico dell’ULSS che arrotondo facendo un secondo lavoro più quotato socialmente e soddisfacente, il muratore) sono un medico di sanità pubblica.
Continua

Luciano esordisce con alcuni dati:

“Il 30% dei medici fuma (delta con popolazione adulta generale ((.30-.25)/.25)*100=20%); USA 2% (lasciamo perdere il delta …). Maggiore tasso di separazione e divorzio. Maggiore tasso di suicidio e tentativo di suicidio.”

Dire, oggi, che la categoria di residenti in Italia con l’etichetta “medico” abbia mediamente attributi tipici di deprivazione sociale non mi sorprende. Ci sono molti determinanti di contesto e specifici che mi farebbero stupire, piuttosto, del contrario.
Avete mai analizzato quali sono le motivazioni che spingono le persone ad intraprendere un percorso sostanzialmente alienante qual è quello che porta alla laurea in medicina? Il percorso di laurea quale tipo di persone tende a selezionare? Quali tratti di personalità promuove?
Se uno ha memoria, si laurea in medicina. Gli esami erano e sono rappresentati da “blocchi” di nozioni da memorizzare. Le capacità critiche sono un orpello, un tratto che casomai può creare problemi (un tratto quindi con selezione negativa, che tendenzialmente sarà meno rappresentato rispetto alla popolazione generale).
Nell’immaginario collettivo ci si aspetta che il medico sia armato di una solida ETICA. Ma vi sono fattori che tendono a selezionare in questa categoria persone con maggior coscienza morale e ad incentivare questo tratto?
Se vi sono potremo aspettarci tratti etici più rappresentati rispetto alla popolazione generale, viceversa no. Nella mia esperienza la situazione si rappresenta addirittura in modo opposto: sono privilegiati nel “percorso evolutivo” caratteristiche tutt’altro che “etiche”. Il luogo comune del medico etico per non essere solo una banalizzazione dovrebbe avere dei riscontri concreti nei fattori di selezione e nei percorsi di formazione ed addestramento. Che non ci sono.
La deprivazione sociale è palese nel baratro compreso tra la rappresentazione collettiva del ruolo sociale del “Medico” ed il ruolo sociale concreto di soggetti che sono tenuti ad erogare tecnologie alla popolazione.
Che ne pensate di questa equazione?
d0 medico : farmaci = soldato : munizioni
d1 medico: industria farmaceutica = soldato : industria armi
d2 sommatoria economica medici : giro d’affari farmaceutico = somm. ec. soldati : giro affari industria armi
d3 …
Proseguireste la derivazione?

“La macroscopica contraddizione rappresentata nel nostro paese dai Monopoli di Stato sui prodotti del tabacco”, sottolinea Luciano Rubini.
Non accontentiamoci di così poco. Il Ministero del tesoro senza il fumo di tabacco dovrebbe pagare molti anni/vita di pensioni in più. Pensate ad una cifra per dimensionare l’impatto macroeconomico della cosa … molto probabilmente la cifra reale è superiore. L’idraulico o l’elettricista che vengono a casa vostra sono disposti a versare le tasse per pagarli? I sindacati sono disposti a ritardare il pensionamento di milioni d’iscritti?
Le funzioni sulla psiche della nicotina non sono banali, come non sono banali le implicazioni sociali del fumare. Tutto questo ha un impatto relazionale, politico ed economico. Che cosa proponete per riempire i “buchi” che verrebbero a crearsi?

“Il fumatore generalmente si vive come vittima (del divieto) e non come usurpatore di un diritto altrui.”
Anche il cinofilo si sente vittima quando deve utilizzare il guinzaglio per il suo buonissimo cane, sapendo benissimo che la colpa ce l’hanno i bambini che provocano i cani per farsi mordere. Il guidatore dell’auto è vittima dei vigili che lo multano, dei pedoni che gli intralciano la strada. Quando scende dall’auto è vittima delle auto che a tutti i costi vogliono correre ed inquinare anche se le strade sono sature.

“Un medico fumatore è dunque in contraddizione palese con gli scopi della sua professione.”
Quali sono gli scopi reali di questa professione? Quali sono i concreti risvolti economici e sociali della professione medica oggi?

“Presentarsi per una cura dimagrante e trovare dall’altra parte della scrivania una persona vistosamente obesa, credo possa dirsi poco invitante. Così come risulterebbe poco credibile un macellaio che si dichiari vegetariano”
Vista l’efficacia a medio-lungo termine delle cure dimagranti ben vengano dietiste in carne. La macellazione dal “macellaio” è sempre più rara. Il rivenditore di prodotti ottenuti con la macellazione di animali da reddito deve seguire delle strategie di marketing se non vuole fallire. Se dichiara di mangiare carne di cane otterrà risultati peggiori al dichiararsi vegetariano.

“È comunemente risaputo il valore pedagogico dell’esempio pratico e, in riferimento alla nostra questione, un medico che fuma è indiscutibilmente un cattivo esempio.”
Ben lo sanno gli strateghi del marketing delle multinazionali che, tra i vari interessi, hanno quelli del tabacco. Hanno fatto delle politiche intelligenti ed hanno ottenuto quanto volevano. Ve ne stupite? Hanno fatto lo stesso con insegnanti ed altre categorie in cui “l’esempio” ha un ruolo nei processi di marketing.

“Le proprietà calmanti della sigaretta…”
Tra le varie strategie di chi guadagna dalla vendita di sigarette c’è anche quella di diffondere la convinzione che il fumo abbia azioni farmacologiche molto limitate. Questo è uno dei tanti obiettivi raggiunti, ulteriore conferma che gli staff strategici di questi gruppi economici sanno fare il loro mestiere e meritano le loro (elevate) paghe.

“La prevenzione dovrebbe essere rivolta verso i medici: da una parte per imparare a distinguere la qualità degli articoli scientifici sul fumo, dall’altra per far conoscere i sistemi per uscire dalla dipendenza dal fumo. Quest’ultimo aspetto andrebbe mirato attentamente ai medici fumatori perché, qualora riuscissero a diventare ex-fumatori, la loro esperienza concreta sarebbe di grande aiuto per trovare la giusta empatia con i pazienti cui consigliano di smettere di fumare.”
Da soldato fumavo. Ora non fumo. La mia empatia non è mai servita a nulla anche se gli ex-fumatori sono particolarmente poco tolleranti verso il fumo. C’è anche un’ipotesi neurologica (la mitica insula…). Un ex-fumatore come si distingue da uno che ha smesso di fumare… e magari poi ricomincia? Probabilmente il senso di colpa fa in modo che le donne in gravidanza smettano… sembra che però la maggioranza ricominci. Sono pochi i fumatori che non smettono. Tra una sigaretta e l’altra possono passare dai pochi secondi a mesi o anni. Le dinamiche dell’interruzione della dipendenza sono complesse. Bisogna conoscere bene la cosa prima di fare ipotesi di sanità pubblica, potenzialmente fallimentari. Molti sono stati gli interventi di “educazione alla salute” e tutti con una ridotto impatto di sanità pubblica, se mai misurabile in modo credibile. I chiligrammi di sigarette vendute sono diminuiti per la prima volta con la legge Sirchia, unica politica che ha determinato un’inversione di tendenza della misura del fenomeno fumo (le sigarette vendute si misurano in chili… chi si sognerebbe di misurare il consumo di spaghetti con insulse rilevazioni psicometriche?). Risposte inefficaci al fumo fanno il gioco dei produttori di sigarette. Tipicamente i miei colleghi che portano avanti iniziative di contrasto al fumo inefficaci, infatti, ricevono finanziamenti e fanno carriera.

Ben ricordo la “provocazione” di Garattini.

Garattini propose di licenziare i medici che fumano nell’esercizio della professione.

Il ragionamento fila se si parla di “fumare durante il lavoro” dei professionisti della sanità. E non solo per i medici ma di tutti quelli che operano in un setting sanitario. Compresi i portinai della cooperativa che ha vinto al ribasso la gara d’esternalizzazione del servizio. In questo caso vanno contro gli interessi di chi li paga, diminuiscono il valore economico della struttura o dell’ufficio d’appartenenza. La questione non è morale, è estremamente concreta ed ha un impatto economico diretto ma soprattutto indiretto. Il willingness to pay varia se l’ambientazione del servizio è congrua alle aspettative del cliente. Una clinica privata che vuol fare buoni affari lo sa benissimo. I dipendenti ed i fornitori di servizi debbono stare alle regole d’immagine viceversa sono allontanati. Che credibilità ha una struttura sanitaria con corridoi pieni di cicche? Che diminuzione di “valore” determina nell’utenza? Importante. Come dimostrano le recenti inchieste. Una delle vittorie delle strategie contro il fumo consiste proprio nella modificazione della percezione collettiva nei confronti del fumatore. Vent’anni fa non era così. Mi ricordo che quando andavo a far pratica di colonscopie e gastroscopie in un’importante clinica privata il “professore” fumava in ambulatorio mentre operava. In quella stessa clinica oggi non ci sono neppure i posacenere. Mi auguro avvenga lo stesso nelle scuole medie e superiori, ove più del 50% dei nostri giovani diventa fumatore.

È facile colpevolizzare i singoli quando i determinanti sono strutturali e di sistema. In sanità pubblica non si dovrebbe ragionare per “colpe”. Quelle lasciamole alla religione.

Inviato il: 8.02.2007@12.49
Da: Paolo Scarpolini

Sono Medico di Famiglia e penso che il fumo, come d’altronde il bere (uso di bevande alcoliche), non sia un “vizio”, ma un comportamento, uno stile di vita, potenzialmente dannoso per la salute propria ma anche altrui (vedi ed es. fumo passivo,incidenti stradali ecc). Qualcuno tenta di salvarsi (o pararsi il “culo”) tirando in ballo la LIBERTA’: ma quanto è possibile parlare di libertà nei confronti dell’uso di sostanze che sono in gradi di creare dipendenza (nicotina, alcol, teobromona, caffeina…)? Il Medico di Medicina generale si trova in una posizione privilegiata di osservazione e monitoraggio dei comportamenti e degli stili di vita dei propri assistiti (che spesso segue per decenni o per tutta la vita) e quindi in grado di intervenire su di essi. I suoi comportamenti non sono sicuramenti ininfluenti in tale senso.

Saluti,
Paolo Scarpolini

PS: il licenziamentomi sembra un provvedimento di tipo proibizionistico. Piuttosto inviterei i Medici che fumano a partecipare a quei simpatici corsi intensivi per smettere di fumare.


Inviato il: 8.02.2007@10.22
Da: Vincenzo Guardabasso

Al professor Garattini bisogna dare il merito di un’estrema coerenza. Già nel 1983 a Milano fumare all’istituto Mario Negri era biasimato, se non proibito, con gioia e stupore di noi non fumatori. Il Mario Negri Sud aprì nel 1987 con la proibizione del fumo all’interno, ricordo il drappello dei fumatori all’esterno dell’entrata. Esattamente come era già negli ospedali americani dal 1985!
Licenziare i medici fumatori è ovviamente una provocazione, ma riprendere realmente quelli che fumano in servizio, ed in luoghi proibiti, si dovrebbe. Una svolta che potrebbe portare su su fino ai direttori generali…. Senza esagerare però: se no dovremmo poi preoccuparci dei dietologi grassi, degli psicologi che si mangiano le unghie, dei chirurghi plastici col naso storto, degli endocrinologi con l’aria ipotiroidea…

Vincenzo Guardabasso (medico)


Inviato il: 8.02.2007@9.09
Da: Maria Angela Vigotti

Secondo me un medico non deve fumare sul posto di lavoro. Se lo fa viene multato e alla fine licenziato se persevera
Esistono review di tutti gli studi sugli effetti del fumo fatti sui medici? Perch non ri-diffonderli?


Inviato il: 8.02.2007@8.28
Da: Maria Cerone

Benissimo! I medici che fumano sono di cattivissimo esempio! Magari il licenziamento è troppo, ma pesanti penalizzazioni sono opportune!


Inviato il: 7.02.2007@23.53
Da: Grazia Buia

Premessa. Non fumo e non ho particolare simpatia per chi fuma, soprattutto non stimo chi mi fuma nei denti, obbligandomi così anche al fumo passivo. Chi vuole fumare, finch la sigaretta è legale (ed è questo l’assurdo) è libero di farlo, ma rispettando gli altri, solo nei locali in cui è consentito. Utopia?! Spero proprio di no! Il medico che fuma sul posto di lavoro, dove cioè viene in contatto con i suoi pazienti, dimostra di non averne alcun rispetto (oltre a non averne evidentemente per se stesso) e quindi meriterebbe una multa, considerato che fuma in un luogo non adibito a tale scopo…un ambulatorio non può essere definita sala per fumatori! Licenziare il medico mi lascia perplessa: può, per il tempo di una visita, fare danno al paziente? Può questo danno essere paragonato al danno che potrebbe compiere il medico se anzich drogato da tabacco fosse dipendente da droga o da alcool? Direi che la risposta può essere solo negativa…pertanto mi sembra una soluzione esagerata. Come se potesse essere licenziato il medico obeso perché in questo modo non dà il buon esempio su una corretta alimentazione…sarebbe pazzesco.
La domanda invece che mi viene naturale: perché lo Stato vende sigarette??? Questo è molto più grave!


Inviato il: 7.02.2007@20.22
Da: Paola Federici

Ricordo, alcuni anni fa, mi ero rivolta a un allergologo del S. Matteo di Pavia. Avevo problemi di bronchiti asmatiche. Ebbene, il medico, nel corso della visita, mentre spiegavo i miei sintomi, imperterrito mi fumava davanti, come se nulla fosse! Ed io che cercavo di comunicargli i miei sintomi. Ovvio che io non fumassi. C’è bisogno di aggiungere altro?

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