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Dati aperti o dati chiusi?

In ambito sanitario si ritiene che ogni intervento terapeutico, prima di essere utilizzato nella pratica clinica quotidiana, debba essere studiato in condizioni sperimentali, al fine di valutarne il profilo di tollerabilità ed efficacia. Questo è importante per non introdurre nella pratica clinica comportamenti terapeutici inefficaci o, addirittura, dannosi. Ad oggi, il più raffinato strumento che il mondo della ricerca ha a propria disposizione per misurare efficacia e tollerabilità degli interventi sanitari è lo studio clinico controllato, detto anche trial. Nei trial si seleziona un campione di soggetti che, potenzialmente, potrebbe trarre beneficio dal nuovo intervento e, attraverso un procedimento di assegnazione casuale, si suddivide il campione in due gruppi, il primo trattato mediante intervento standard, il secondo mediante intervento sperimentale. Al termine dello studio, eventuali differenze di esito vengono attribuite proprio ai trattamenti ricevuti, poiché questi ultimi rappresentano l’unico elemento di differenza tra i due gruppi di soggetti.

Naturalmente, in ogni ambito della medicina, per ogni specifico problema clinico, possono essere a disposizione nessuno, pochi o molti studi clinici. Questi studi costituiscono il bagaglio di conoscenze, dette anche evidenze o prove di efficacia, disponibili per ciascun argomento, da utilizzarsi come guida nella pratica clinica quotidiana. I trial contengono quindi informazioni preziose per tutelare la salute delle popolazioni, e questo pone la questione di come rendere i risultati e i dati dei trial accessibili a coloro che vogliono analizzare criticamente l’efficacia e la tollerabilità di un trattamento, un nuovo farmaco per esempio. Si è scoperto infatti che non tutti i trial che vengono portati a termine vengono pubblicati nella letteratura scientifica, e si è scoperto anche che i trial che non vengono pubblicati sono tendenzialmente quelli che non trovano un effetto positivo del nuovo farmaco, oppure quelli che evidenziano problemi di tollerabilità ed effetti collaterali. È chiaro quindi che se il giudizio sulla efficacia e tollerabilità di un nuovo farmaco viene espresso tenendo in considerazione solamente gli studi pubblicati, inevitabilmente si commette un errore di valutazione legato al non avere considerato tutti gli studi disponibili.

Al fine di tutelare la salute delle popolazioni abbiamo bisogno quindi di conoscere i risultati di tutti gli studi clinici. A questo fine sono nati gruppi di ricercatori che anziché condurre nuove sperimentazioni cliniche si sono dati come missione quella di raccogliere le sperimentazioni già condotte, cercando di individuarle tutte, quelle pubblicate e quelle non pubblicate, quelle in inglese e quelle in altre lingue, quelle condotte negli ultimi anni e quelle condotte negli anni ’60, insomma proprio tutte. È chiaro che si tratta di una impresa difficile, anche perché se uno studio non è stato pubblicato come è possibile sapere che esiste e come fare per accedere ai risultati? Oggi rispetto ad alcuni decenni fa è più semplice sapere che uno studio esiste perché tutti gli studi clinici controllati, nel momento in cui vengono progettati, devono essere registrati. È quindi possibile sapere, per esempio, che una sperimentazione è stata progettata e condotta, ma i suoi risultati non sono stati pubblicati. A questo punto parte la caccia ai risultati dello studio: è possibile contattare il responsabile della sperimentazione o la sua Istituzione, è possibile scandagliare il sito web delle ditte produttrici dei farmaci, è possibile chiedere all’Agenzia europea dei medicinali (EMA) se sia in possesso di informazioni, dati e risultati di studi clinici utilizzati nella fase di immissione in commercio di quel nuovo farmaco.

La caccia di solito non sortisce i risultati sperati: l’industria farmaceutica è resistente a rilasciare informazioni sugli studi clinici che ha condotto, i singoli sperimentatori spesso non sono i veri proprietari/depositari dei dati e sono quindi di poco aiuto in questa ricerca, e, inspiegabilmente, anche l’EMA non è di grande aiuto. L’EMA è una agenzia pubblica, ha come missione quella di tutelare la salute dei cittadini europei, e quindi non si capisce perché non renda disponibili i risultati delle sperimentazioni che sono state utilizzate per la registrazione dei nuovi farmaci. Questo è veramente incomprensibile. Uno degli ultimi numeri del British Medical Journal tratta di questo problema (BMJ 28 maggio 2011, vol. 342, n. 7808). L’EMA, di fronte alle critiche, ribatte sottolineando che sul proprio sito web viene pubblicato un riassunto di tutte le sperimentazioni analizzate per ciascun farmaco approvato. Questo naturalmente è importante, ma il problema è che tali riassunti presentano i risultati delle sperimentazioni in modo scarsamente fruibile, ossia mancano gli elementi essenziali per capire se il nuovo farmaco sia effettivamente efficace.

Cosa possiamo fare? Il percorso è tracciato, si tratta di rendere sempre più difficile (impossibile) il nascondere i risultati degli studi clinici. Per ottenere questo è necessario il concorso di tutti gli attori in gioco, i ricercatori che non dovrebbero accettare di condurre studi senza avere l’autonomia nella gestione dei risultati, l’industria farmaceutica che dovrebbe aprire i cassetti delle proprie sperimentazioni, oggi ancora enigmaticamente chiusi a chiave, l’EMA che dovrebbe progressivamente assumere una natura e un ruolo di interlocutore scientifico a tutela della salute dei cittadini europei e non solo di apparato burocratico-amministrativo, i pazienti e i cittadini noi tutti considerando che le sperimentazioni sono possibili grazie alla disponibilità di pazienti e persone che accettano di partecipare.

13 luglio 2011

A proposito di accessibilità dei dati…

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