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Disuguaglianze nella salute: "le medie sono vigliacche"

 
‘L’aspetto più stupefacente e intrigante delle disuguaglianze nella salute è la loro regolarità nella scala sociale. A qualsiasi livello della scala sociale ci si ponga, il livello inferiore presenta un profilo epidemiologico più sfavorevole di quello immediatamente superiore’. Si tratta solo di questioni di reddito o conta la posizione sociale?

Questo è uno dei temi più dibattuti tra gli studiosi. Se il reddito era stato inizialmente identificato come l’indicatore più significativo che potesse misurare queste disuguaglianze, per dirla con le parole di Amartya Sen, "non basta avere disponibilità economiche per poter esplicitare tutte le proprie potenzialità". Infatti molti, anche attraverso altri strumenti, sono in grado di avere un certo potere e livello di ascolto all’interno della propria società, pur non avendo grosse possibilità economiche.
Oggi il dibattito è tra i "materialisti" che ritengono siano le disponibilità materiali di beni e servizi a fare la differenza, e la "scuola psicosociale" che ritiene che sia invece la posizione occupata all’interno di un sistema sociale a condizionare la salute. Una posizione di inferiorità da luogo ad una reazione di perdita del controllo o di percezione di inferiorità che innesca il fattore psicologico dell’inadeguatezza sociale che a sua volta determina stress cronico.
Tra queste due posizioni estreme, entrambe importanti, è necessaria un’integrazione di prospettive.

Come si misura la posizione sociale?

Nel misurare la posizione sociale sono diversi gli indicatori che si possono utilizzare: il reddito, il livello di istruzione, il possesso di determinati beni. Giuseppe Costa di Torino, ad esempio, ha fatto degli studi interessanti sul rapporto tra dimensione e proprietà della casa e rischio di salute, dimostrando che più grande è l’appartamento maggiore è l’aspettativa di vita; e ovviamente chi è proprietario ha una prospettiva di vita migliore di chi è in affitto.

Per livelli di ricchezza molto bassi l’aspettativa di vita aumenta in modo molto evidente con l’aumentare della ricchezza media. Oltre una certa soglia tale associazione non è più così evidente. Cos’è che fa la differenza?

Bisogna distinguere due dimensioni delle disuguaglianze, quella interpersonale – disuguaglianze tra individui all’interno di un paese, secondo cui più si è ricchi o alti nella scala sociale, più è alta la speranza di vita – e quella delle disuguaglianze tra paese e paese –disuguaglianze in termini di speranza di vita, di mortalità infantile, etc. È in questa seconda dimensione che, nella curva che mette in relazione la speranza di vita con il reddito medio del paese, si vede che per redditi medi molto bassi la speranza di vita è molto bassa. Però basta un aumento di reddito medio, anche relativamente piccolo, per vedere aumentata di molto la speranza di vita media della popolazione.
Oltre una certa soglia di reddito medio del paese (circa 5-10.000 dollari di reddito medio pro capite) la differenza tra speranza di vita e reddito medio si riduce. Ciò che si vede all’interno di paesi molto ricchi è che pur aumentando il reddito medio pro capite non aumenta la speranza di vita; inoltre al loro interno maggiore è la disuguaglianza tra ricchi e poveri e minore è la speranza di vita.
Tra paesi con lo stesso reddito, ciò che fa la differenza in termini di aspettativa di vita è il livello delle disuguaglianze: i paesi più disuguali hanno una speranza di vita media inferiore a quelli più egalitari.

Esistono, tuttavia, diversi paesi poveri che hanno raggiunto livelli alti di salute pur partendo da bassi livelli di reddito pro capite, prima parlavamo di Cuba. Quali sono le ragioni del "successo in salute"?

È l’altra faccia della medaglia. Un fatto molto interessante è che in alcuni paesi molto poveri dove ci si aspetterebbe una speranza di vita molto bassa, si riscontra una speranza di vita paragonabile a quella dei paesi ricchi. Il più critico e controverso è l’esempio di Cuba, ma ce ne sono altri come Costa Rica, Armenia, Sri Lanka, Cina fino a poco tempo fa.
È stato visto che esistono delle variabili direttamente associate a questa eccezione, e sono il livello di distribuzione delle risorse interne – il livello di disuguaglianze –, ma soprattutto il tipo di assistenza sanitaria. Per esempio, in un paese come Cuba la speranza di vita continua ad aumentare. Una tendenza positiva che si riscontra anche durante il "periodo speciale", cioè dal 1990 ad oggi, da quando Cuba ha perso i sussidi e gli aiuti dell’Unione Sovietica, un periodo in cui la situazione economica è peggiorata ma la speranza di vita dei cubani è continuata a crescere fino ad essere pari quasi a quella degli Stati Uniti.
Questo dipende dal fatto che Cuba ha un sistema sanitario estremamente capillare, e pur non avendo grossi ospedali di eccellenza in tutte le città, ha dispensari, ambulatori, piccole cliniche in tutti i villaggi. Dunque la maggior parte delle questioni sanitarie vengono affrontate e risolte subito, spesso anche senza o con pochissimi farmaci.

Medicina capillare sul territorio e politiche di prevenzione efficaci, insomma, strategie che hanno funzionato?

Si tratta di soprattutto prevenzione e di medicina primaria, cioè di risposte immediate ai primi problemi che compaiono nella popolazione. L’altra variabile importante è la scolarizzazione, soprattutto tra le donne: più è alto il livello di scolarizzazione più bassa è la mortalità infantile. Quindi un altro investimento altamente virtuoso ed efficiente, nel senso che fa guadagnare un numero consistente di anni di aspettativa di vita, è quello di garantire la scuola alle ragazze.
La cosa che lascia perplessi è come ci si ostini a non imparare da questi esempi virtuosi e si continui ad investire in grandi tecnologie che hanno dei costi molto elevati e valgono poco in termini di salute guadagnata.

Dunque non serve l’alta tecnologia?

È importante investire in quella che l’OMS definisce tecnologia appropriata, cioè la tecnologia accessibile dal punto di vista economico dalla popolazione, che è efficace e risponde ai bisogni di quella popolazione. Cuba, ad esempio, sta spendendo i pochi soldi che ha in tecnologie appropriate: medici di base, strutture e servizi primari.
Di contro l’Italia, un paese ricco, spesso investe in tecnologie che non sono appropriate sia per la loro qualità che per la quantità. Basta pensare al numero di tac e risonanze magnetiche che vengono effettuate in città come Roma o Bologna. Un numero che non risponde ad un bisogno, anzi crea una domanda. Uno spreco evidente, nonch una spinta verso un’eccessiva medicalizzazione della popolazione.

Cosa si intende per "femminizzazione" della povertà?

Si intente la consapevolezza di come il genere femminile sia il più vulnerabile. Motivo per cui subisce la maggior parte della sofferenza.
La povertà viene distribuita in qualsiasi società lungo una gerarchia di poteri che comprende anche il genere. Ad esempio, in una famiglia povera africana, soprattutto negli ultimi anni con la diffusione dell’aids, la povertà è vissuta in modo diverso dall’uomo, il maschio, e dalla donna. Nonostante sia la donna che porta a casa la maggior parte delle risorse in termini di lavoro sia formale sia informale, o in termini di educazione dei figli, è quella che ha meno accesso alle risorse interne della famiglia di cui in genere è padrone, in una società patriarcale, l’uomo, il padre.
Anche all’interno dei paesi poveri e delle famiglie povere è presente un netto divario, una netta disuguaglianza, lungo la linea del genere. Con l’epidemia dell’aids è la donna che è sempre più stigmatizzata, che soffre maggiormente e che è più a rischio di ammalarsi.

In Afganistan comincia ad avviarsi un processo di scolarizzazione femminile e di accesso alle cure per le donne, un piccolo spiraglio di speranza… Ma cosa accade alle disuguaglianze in tempi di guerra?

L’Afganistan oltre ad essere un paese musulmano, quindi con problematiche interne a questo tipo di cultura, ha anche il problema della guerra. Si vive una situazione di conflitto permanente, al di là di quello che ci dicono i media – le rare volte che ne parlano ancora. Comunque, rispetto a quando si viveva nel Paese una situazione di stabilità, i problemi di salute degli afgani sono molto peggiorati in questi ultimi anni. La stessa esistenza di un conflitto, infatti, è un altro fattore che acuisce le disuguaglianze.
All’interno dell’Osservatorio sulla salute globale stiamo preparando un rapporto sulle disuguaglianze in salute che uscirà a fine anno. Un capitolo sarà riservato alle disuguaglianze nella guerra e nelle catastrofi. Lavorando in queste situazioni abbiamo scoperto che anche in guerra si è disuguali. Se facessimo un’indagine rispetto alla composizione etnica dei soldati americani in Iraq e osservassimo chi è morto, vedremmo che muoiono i militari di colore, i poveracci e non i figli dei senatori.
Un’altra variabile, la guerra, dunque, che genera disuguaglianze in situazioni come l’Afganistan, l’Iraq, la Palestina, l’Uganda, il Congo, il Sudan…

Esiste un rapporto a due direzioni tra povertà e malattia, un circolo vizioso in cui se la povertà aumenta la malattia, la malattia spesso peggiora lo stato di povertà…

È evidente che la povertà porta a malattia e l’essere malati è un fattore che impedisce la crescita sociale o addirittura costringe a regredire all’interno di questa scala: non si può più lavorare, si finisce fuori dalla catena produttiva. Vedendo le cose in questo modo si instaura un circolo vizioso. Si tratta di una visione che può celare posizioni ideologiche: si tende a minimizzare il ruolo della povertà come fattore di rischio per la salute, si parte dalla malattia e si sostiene che "si è poveri perché sempre malati", quindi la risposta è curarli. Esiste un’altra visione, in cui mi riconosco, che sostiene "che ci si ammala perché si è poveri", dunque l’intervento principale va fatto sulle cause.

La distinzione tra effetti della povertà ed effetti delle disuguaglianze socio-economiche sulla salute delle persone è un elemento di forte dibattito tra posizioni diverse tra loro, tra cui spicca quella della Banca Mondiale che tende a non riconoscere un ruolo importante alle disuguaglianze. Cosa ne pensa?

Si tratta di un dibattito poco esplicitato, ma molto vivo all’interno delle organizzazioni che si occupano di distribuzione della salute nel mondo, dove scegliere un approccio piuttosto che un altro implica politiche di intervento profondamente diverse.
La Banca Mondiale ha sempre utilizzato l’approccio conservatore: "sono poveri perché malati". Adesso sta facendo qualche passo indietro e cerca di adeguarsi a posizioni più progressiste.
La strategia che si sceglie e si adotta implica il tipo di intervento. Naturalmente partire dalla povertà non vuol dire dimenticarsi di quanto può e deve fare il sistema sanitario, però vuol dire dare un forte risalto alle cause prime.

Quale può essere il ruolo dei medici e degli operatori sanitari per una distribuzione più equa delle risorse?

Il ruolo degli operatori sanitari è prima di tutto svolgere bene il loro lavoro. Che i medici curanti curino bene, ad esempio. Ma questo non basta. Il medico ha una posizione privilegiata nei confronti dell’opinione pubblica e dovrebbe essere "l’avvocato dei più deboli". Un divulgatore e un’attivista. I medici vedono le cose alla radice e hanno la responsabilità di doverle raccontare; non si può tacere.
Come Osservatorio, ad esempio, abbiamo fatto circolare una lettera aperta sui fatti di Lampedusa, non tanto per sollecitare il governo sulla situazione dei Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPTA), ma per ricordare ai i medici di non lasciarsi intrappolare nella falsa coscienza di chi fa prevalere un vago interesse dello stato ai diritti e alla dignità della persona. Non è possibile che non ci fossero medici a Lampedusa, e se c’erano: come mai nessuno ha denunciato quanto succedeva? Per non parlare di Abu Ghraib, di Guantanamo.
Un medico ha una responsabilità che va oltre l’essere una persona come tante altre; quindi, deve schierarsi e deve parlare a favore della salute e denunciare anche i fattori sociali ed economici che la mettono a rischio. In funzione delle sue competenze e delle sue capacità.

Cosa dovrebbero fare tutti?

Un ruolo che tutti gli operatori sanitari dovrebbero assumere è quello in difesa di un sistema sanitario equo. Che dia accesso ai servizi essenziali a tutta la popolazione a prescindere dalle disponibilità economiche, dall’origine geografica, etnica… 
Purtroppo i medici che si fanno sentire in questo senso vengono accusati di essere politicizzati. Ma la salute è senza dubbio un fatto politico. Il professionista sanitario dovrebbe assumere una visibilità diversa e schierarsi per la giustizia sociale. Un esempio viene dall’American Journal of Public Health, non certo una rivista politica, ma la rivista dell’associazione americana di sanità pubblica, che titolava in un editoriale "Public health is social justice". Salute pubblica significa giustizia sociale. E non stiamo parlando di uno slogan di Rifondazione Comunista, ma del compito di chi si interessa della salute.

A proposito di Rifondazione, di salute pubblica, di giustizia sociale: cosa dovremmo aspettarci dai politici?

La commissione dell’OMS sui determinanti sociali della salute (Commission on Social Determinants of Health) di cui fanno parte anche Giovanni Berlinguer e Amartya Sen, ha proprio l’obiettivo di andare in giro per il mondo incontrare i governanti e convincerli che le politiche che loro mettono in atto in un modo o nell’altro hanno sempre un impatto sulla salute della popolazione. Quindi ci sono politiche virtuose, politiche "sane", che facilitano la salute pubblica, e ci sono politiche che invece portano conseguenze dannose alla salute. Non parlo necessariamente di politiche sanitarie. Ad esempio, nella regione Emilia-Romagna è in atto un programma che si chiama I Piani Per La Salute, al quale collaboro. Si tratta di uno strumento che la Regione offre alla comunità, in particolare ai sindaci, per diventare leader di un percorso di programmazione che porti ad un miglioramento della salute della popolazione. Cerca di sensibilizzare i sindaci a rendersi conto delle implicazioni che le loro decisioni quotidiane hanno sulla salute della gente: fare una rotonda piuttosto che uno stop, fare un centro commerciale in un luogo piuttosto che in un altro, dove costruire un nuovo quartiere residenziale. Non esiste un esempio di politica pubblica, sociale, urbanistica, ambientale, industriale che non abbia un impatto sulla salute. Analogamente alla valutazione di impatto ambientale, i politici e gli amministratori pubblici prima di prendere qualsiasi decisione dovrebbero pensare all’impatto che questa ha sulla salute, in termini di morte prematura, malattia, rischi.

Con quali strumenti?

Ci sono strumenti che stiamo mettendo a disposizione dei politici. Lo stesso trattato di Amsterdam prevede che tutti i governi nel legiferare, nel promuovere le proprie politiche abbiamo un’attenzione particolare all’impatto sulla salute.
Gli amministratori pubblici e i politici devono tenere conto anche di questo parametro e non solo dello sviluppo economico, del Pil. Poi dovrebbero cominciare a capire che, come diceva Don Milani, "le medie sono vigliacche perché mischiano il più dei ricchi con il meno dei poveri, come facesse pari". Bisogna smettere di decidere in base a dati costituiti soltanto da medie aggregate: bisogna cercare le differenze e agire su quelle ingiuste! La politica dovrebbe cominciare a pensare a come intervenire in termini di riduzione delle disuguaglianze. Il politico ha anche una funzione educativa nei confronti della popolazione, invece spesso risponde soltanto alle sollecitazioni dei gruppi più vociferanti.

Una situazione svilente e imbarazzante, soprattutto alle porte delle elezioni…

Bisognerebbe mirare in alto. Basti pensare a Blair che, seppure per molti aspetti probabilmente si trova più a destra del nostro centrodestra, quando andò al potere lanciò subito una campagna contro le disuguaglianze in salute. Affrontando questo tema sul piano politico. Sono le stesse riviste mediche più prestigiose (come il Lancet o il British Medical Journal) ad utilizzare un linguaggio sempre più "politico" nel parlare di salute e di come proteggerla.

Temo che noi stiamo restando indietro. Il che non stupisce visto quanto poco ci guardiamo intorno a livello internazionale. Ad esempio, solo una minoranza dei miei studenti legge correntemente l’inglese: è impossibile confrontarsi con il mondo se non si ha una chiave di accesso, uno strumento come la lingua per farlo. Senza il confronto con il panorama internazionale non ci si può rendere conto di dove siamo, e dove andremo a finire.

1 marzo 2006

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