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Dopo l’ictus… time is brain!

L’ictus cerebrovascolare rappresenta la terza causa di morte, la principale causa d’invalidità e la seconda causa di demenza. Una patologia dagli alti costi sociali ed economici. Cosa fare dopo l’ictus e come farlo per diminuire la mortalità e limitare le disabilità?

La prima cosa da fare è diffondere la consapevolezza che l’ictus richiede un intervento tempestivo in emergenza. La maggior parte dei pazienti non riceve un’adeguata terapia perché non raggiunge il Pronto Soccorso abbastanza precocemente. In parte questo ritardo è dovuto alla disinformazione e scarsa consapevolezza della popolazione sui sintomi dell’ictus, abitualmente un po’ più “difficili” e variabili rispetto a quelli di altre patologie acute come lo stesso infarto del miocardio. Sono necessarie quindi delle campagne di comunicazione e sensibilizzazione per diffondere l’informazione affinché tutti siano in grado di riconoscerli tempestivamente e di chiedere aiuto al Servizio 118 appena possibile.

Stiamo parlando del concetto del “time is brain”, cioè che ogni minuto perso dopo che un vaso cerebrale si è occluso determina perdita di cellule nervose?

Esattamente. Nel caso dell’ictus ischemico abbiamo a disposizione delle possibilità terapeutiche specifiche che devono essere utilizzate nelle primissime ore dopo l’insorgenza dei sintomi. Si tratta del trattamento trombolitico che permette in molti casi di ricanalizzare l’arteria chiusa dall’embolo originato dal cuore o dai vasi che raggiungono il cervello come l’aorta, le carotidi e le vertebrali. A partire del momento dell’occlusione inizia una progressiva distruzione del tessuto cerebrale con la comparsa delle manifestazioni cliniche corrispondenti all’alterato funzionamento dell’area cerebrale interessata dall’ischemia, ovvero dalla zona che non viene più normalmente irrorata. La possibilità di intervento precoce è legata al fatto che il danno cerebrale si realizza con gradualità (maggiore o minore a seconda dei casi) in quanto la morte dei neuroni, che parte dal centro della zona ischemica, si estende progressivamente alla periferia dell’area irrorata dall’arteria chiusa (area di “penombra”). Quanto prima si riesce a riperfondere il tessuto cerebrale (ricanalizzazione), tanto inferiore sarà il danno conseguente. La mancata percezione dei sintomi o anche la sola consapevolezza ritardata si traduce, così, in un arrivo ritardato in ospedale e nell’impossibilità di fare la terapia trombolitica, somministrabile al massimo entro quattro ore e mezza dall’ictus.

Il miglior trattamento per il paziente con ictus cerebrale acuto?

La scelta del trattamento è affidata agli specialisti neurologi che operano presso la Stroke Unit, unità di degenza dedicata al paziente cerebrovascolare acuto, nella quale il personale medico, infermieristico e di fisioterapia possiede un know how in grado di garantire un approccio multidisciplinare e integrato per il trattamento e la riabilitazione quando necessaria. Una volta fatta la diagnosi di ictus (valutazione neurologica), classificata la gravità del danno (scala dell’ictus NIHSS) e documentata (con la TAC cerebrale) la natura ischemica o emorragica (al contrario dell’ischemia, si verifica non la chiusura, ma la rottura di un’arteria cerebrale) della lesione. Qualora si sia in presenza di una lesione ischemica, si sia nella “finestra terapeutica” ovvero entro le 4,5 ore dall’inizio dei sintomi e non vi siano controindicazioni, si procede con la trombolisi endovenosa sistemica somministrando il farmaco che è un ricombinante attivato del plasminogeno. Un altro strumento di intervento, possibile solo in Centri specializzati (II livello) ed applicato in caso di ritardo nell’arrivo in Ospedale (di solito entro le prime 6 ore dai primi sintomi) oppure nelle condizioni che non presentano (o si presume che presenteranno) adeguate prospettive di ricanalizzazione, è rappresentato dalla terapia endovascolare con la rimozione meccanica del trombo che chiude l’arteria interessata. Questo approccio, in qualche modo assimilabile all’angioplastica o al posizionamento di stent in caso di infarto del miocardio, rappresenta un eccellente alternativa in condizioni più gravi e complesse.

Tutte le strutture ospedaliere possono garantire una tale offerta assistenziale su tutto il territorio?

Questo è un punto delicato. Noi sappiamo ormai da tempo come la Stroke Unit riduca di circa il 9% – in valore assoluto, quindi come un vero e proprio trattamento molto efficace – mortalità e disabilità rispetto alla degenza in un reparto non specialistico. Il problema che ci troviamo oggi ad affrontare non è tanto su come deve essere organizzata la Stroke Unit. È già stato ampiamente dimostrato che la Stroke Unit deve essere formata da diverse figure professionali che vanno dal neurologo all’infermiere, al fisioterapista, al logopedista, all’assistente sociale e altre ancora, che lavorano di concerto nella fase acuta della malattia. La stessa unità deve essere dotata di adeguati strumenti di monitoraggio dei parametri vitali e possedere protocolli d’intervento definiti ed adeguati. La principale criticità è che non è stata ancora raggiunta una copertura adeguata a livello nazionale, così che alcune Regioni sono decisamente carenti di queste unità, con gravi problemi per i pazienti che non trovano, spesso, il trattamento più adeguato alla condizione clinica da cui è affetto. Ne deriva un’assoluta necessità di implementare nuove Stroke Unit, specie nelle regioni del Centro-Sud, che ne sono maggiormente sprovviste. Questo è un grosso problema di Sanità pubblica, anche se occorre dire che, specie negli ultimi mesi, la valorizzazione di queste strutture nell’ambito dell’organizzazione sanitaria è stata oggetto di decisioni specifiche della Conferenza Stato-Regioni. Per cui si può essere fiduciosi che un numero adeguato di Stroke Unit in tempi più ragionevoli che in passato siano realizzate su tutto il territorio nazionale.

Come garantirne la qualità?

Questo è un altro aspetto importante sul quale stiamo lavorando in particolare in Lombardia. Perché sia tale non basta, evidentemente, una targa per definire Stroke Unit una qualsiasi struttura sanitaria. L’unità operativa in questo modo definita deve garantire, come abbiamo visto, un monitoraggio continuo del paziente, deve essere strutturata in un’area di terapia semi-intensiva e in una di degenza ordinaria e deve soddisfare una serie di requisiti anche strutturali standardizzati e verificabili. La nostra idea è che sia necessario certificare ovvero accreditare come Stroke Unit una struttura operativa che soddisfa specifici criteri. Il Tavolo Ictus della Regione Lombardia ha definito quali debbano essere questi criteri che, insieme con indicatori di qualità estraibili dal Registro Stroke della Regione, definiranno gli standard d’intervento per questo tipo di assistenza. Naturalmente crediamo che questa esperienza lombarda possa essere considerata favorevolmente anche nelle altre Regioni italiane, così da avere la massima omogeneità assistenziale su tutto il territorio nazionale.

In un periodo di scarse risorse qual è la via da intraprendere per una gestione efficace ed efficiente dell’ictus nella fase acuta dove il fattore tempo ha un forte peso? Meglio puntare alle strutture di eccellenza o investire nelle strutture periferiche che coprono tutto il territorio?

Proprio per il concetto del “time is brain” non possiamo immaginare di gestire l’emergenza, cioè il trattamento trombolitico in acuto, con i soli centri di eccellenza. Gli ospedali periferici di piccole dimensioni con 200-300 posti letto rappresentano il vero tessuto connettivo del sistema ospedaliero, presso i quali vengono ricoverati pazienti con ictus o anche con altre urgenze neurologiche. Sarebbe quindi necessaria e interessante una configurazione della Neurologia in questi Ospedali votata principalmente all’urgenza (ictus e altre patologie neurologiche acute), per lasciare la gestione di casi complessi e particolari a strutture a maggior complessità (alta specialità) presso le quali la risposta terapeutica, oltre che diagnostica, potrebbe essere ottimale per tempi ed efficacia clinica.

La logica di più livelli funzionali di Stroke Unit per coprire l’intero territorio…

La strada da perseguire è proprio questa. Le Stroke Unit di I livello devono rispondere al fabbisogno di ricovero e cura per la maggior parte dei pazienti con ictus cerebrale garantendo la TC cerebrale, competenze multidisciplinari, almeno un neurologo e possibilità di monitoraggio di almeno 4 posti letto. Già a questo primo livello di complessità la Stroke Unit, che naturalmente è autorizzata al trattamento trombolitico, può discriminare se il danno è lieve e correggibile con la trombolisi endovenosa o se invece è più grave e richiede un trattamento endovascolare piuttosto che neurochirurgico o di chirurgia vascolare. In questo secondo caso sono necessarie le unità di II livello presso le quali inviare nel tempo più rapido possibile i pazienti già selezionati. La logica è di organizzare percorsi con Stroke Unit a diversi livelli di complessità connesse tra di loro: selezionando l’accesso soltanto ai secondi livelli molti pazienti rischierebbero di non ricevere alcun trattamento in tempo utile. Come già espresso nell’ultimo Quaderno della salute del Ministero della Salute sul percorso assistenziale dell’ictus (PDF: 130 Kb), gli ospedali periferici dovrebbero essere dotati di strumenti di minima e dell’expertise delle Stroke Unit di I livello. Questo modello organizzativo servirebbe per la gestione della totalità delle emergenze-urgenze neurologiche che fino all’80% dei casi sono rappresentate dall’ictus. Si tratta di un contesto organizzativo che si va sempre più affinando, ovvero adeguando alle necessità organizzative e alla domanda di salute in questa devastante condizione patologica.

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