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Dottore, sono malata di rischio

Michela, 40 anni, si sottopone a test genetico a seguito della sua storia familiare di tumore alla mammella, cardiopatia e sindrome di Alzheimer. Il risultato del test genetico rivela una mutazione ereditata del gene BRCA2 che aumenta la probabilità di sviluppare tumore all’ovaio e/o alla mammella. La sorella di Michela ha il 50 per cento di probabilità di aver ereditato la medesima mutazione. Sebbene il medico abbia preventivamente discusso dell’importanza di comunicare il rischio familiare, la paziente non vuole condividere i risultati del suo test con la sorella e chiede che l’informazione resti confidenziale.

Come viene percepito il rischio di sviluppare una malattia genetica? Come deve essere comunicato? Il medico ha il dovere di mettere in allerta anche i familiari del rischio di incorrere nel medesimo rischio?


Qual è la percezione del rischio nell’ambito dei test genetici?

La percezione del rischio di contrarre una malattia è generalmente il risultato dell’interazione di più fattori. Il primo è strettamente in relazione con il tipo di malattia ma soprattutto con i tempi con cui si potrebbe manifestare: più l’esordio della malattia è lontano nel tempo, minore è la percezione di pericolo imminente. I test genetici, così come i rischi ambientali, possono beneficiare di una indeterminatezza rispetto ai tempi di insorgenza della possibile patologia. Anche fattori legati alla personalità ed in particolare al locus of control, ovvero la propensione degli individui a considerare che gli eventi e le situazioni di vita siano sotto il loro controllo (locus of control interno) o sotto il controllo della fortuna, del fato o di forze esterne (locus of control esterno), forniscono un contributo rilevante nel determinare la percezione del rischio. La principale differenza tra le due situazioni riguarda la forte personalizzazione della diagnosi genetica che fa specifico riferimento al Dna di un individuo, mentre nel rischio ambientale è considerata solo l’appartenenza dell’individuo ad una data categoria di rischio.

Quali sono i fattori esterni che influenzano la percezione del rischio?

Di solito, le "campagne informative" sono messe in atto da istituzioni pubbliche; quella disseminata dai mass media è "informazione" tout court che ha un impatto sulla popolazione generale. Tuttavia le aspettative create dai mass media nella popolazione sono spesso superiori alle reali potenzialità e applicabilità dei test. I test genetici rappresentano – a mio avviso – uno strumento ancora specialistico, ovvero riguardano principalmente coloro che hanno già un quadro di familiarità per il cancro o per altre patologie a trasmissione genetica. In questo contesto una corretta comunicazione medico-utente, ritagliata sulle reali possibilità di comprensione del paziente, può contribuire a dimensionare un’adeguata percezione del rischio – fermo restando il ruolo dei fattori individuali di cui sopra. Per poter affrontare bene la condizione di “malato di rischio” serve infatti una percezione adeguata del proprio di rischio (che non dovrebbe essere né troppo alta, né troppo bassa).

Come cambia il rapporto medico-utente quando si ha a che fare con i test genetici?

In realtà, nella comunicazione del rischio genetico, l’utente (dei servizi sanitari) non è un vero e proprio paziente ma è una persona sana che in quanto tale presenta bisogni e aspettative specifiche.

Parlando di malattie genetiche, si rientra spesso in un quadro di familiarità che ha portato la persona, potenzialmente a rischio, a vivere in famiglia la malattia. Un’esperienza passata può influire sulla percezione del pericolo o della malattia?

La difficoltà maggiore per chi ha ricevuto una diagnosi di elevata probabilità genetica di sviluppare un tumore è quella di riuscire a integrare il fantasma del cancro nella propria quotidianità. Ciò diventa ancora più gravoso quando la personale storia familiare presenta esperienze di malattia o di morte che vengono inevitabilmente rievocate dalla attuale condizione. Troviamo un esempio nelle parole di questa paziente: “Credo di conoscere bene quello che mi succederà: mia madre è morta di questa malattia e mia sorella è ammalata da due anni” (Bianca, 42 anni).

Dalla sua personale esperienza, il "malato di rischio" come reagisce a un test genetico positivo? Cosa chiede alla medicina e cosa rifiuta da essa?

Dal punto di vista psicologico, il possibile impatto della comunicazione di rischio su un individuo è strettamente legato alla valutazione cognitiva che la persona dà alla sua situazione: è proprio il significato attribuito alla diagnosi genetica che condiziona il comportamento successivo. Alcuni vivono la comunicazione di rischio come una vera e propria diagnosi di malattia: “Mi è crollato il mondo addosso quando l’ho saputo” (Giovanna, 47 anni); mentre altri tendono a ridimensionare la portata del rischio: “Una probabilità non è una certezza” (Giorgio, 50 anni), “Magari morirò prima di qualcos’altro” (Carla, 36 anni).
Questa valutazione scaturisce ancora una volta dall’interazione di più fattori dove accanto a variabili interne legate a fattori di personalità emergono fattori cosiddetti esterni che riguardano: la modalità con cui è stata comunicata la diagnosi, la possibilità di disporre di strategie per la riduzione del rischio, la presenza di trattamenti efficaci contro la malattia. L’equilibrata presenza di questi fattori consente all’individuo di vivere la diagnosi genetica non come una sentenza temporaneamente sospesa, ma come un’opportunità di incidere positivamente sulla propria salute. In mancanza di tali fattori il test genetico può diventare un’arma a doppio taglio e può favorire la comparsa di reazioni psicologiche disadattive.

Spostiamo l’attenzione sulla famiglia e sui parenti stretti del paziente a rischio di malattia genetica. Il medico dovrebbe assumersi la responsabilità di informare i parenti che potrebbe aver ereditato la stessa mutazione?

L’informazione non potrebbe violare la libertà della persona di scegliere come gestire il suo rapporto con la salute?
Credo che debbano essere valutare attentamente le dinamiche familiari. Alcune famiglie gestiscono insieme la malattia di un componente del nucleo familiare e sono disponibili a condividerne le implicazioni, altre famiglie risultano estremamente conflittuali e non sono in grado di condividere alcunché senza generare tensioni e sensi di colpa. In ogni caso, il medico dovrebbe limitarsi a chiarire le caratteristiche di “familiarità” del difetto genetico lasciando la possibilità a ciascuna persona di ricevere, se le vuole, informazioni riguardo la propria specifica condizione.

È possibile parlare di linee-guida per la comunicazione del rischio genetico al paziente e ai familiari? Il medico e/o il genetista che cosa "devono" e che cosa "possono" comunicare?

È estremamente importante fare ricerca su queste tematiche, valutare l’impatto di differenti modalità di comunicazione della diagnosi genetica non solo nell’immediato ma anche a lungo termine, così come è importante conoscere meglio come si evolve nel tempo la condizione di “malato di rischio”. Alcune ricerche hanno cercato di rispondere a questi quesiti e i risultati sono ancora oggetto di discussione soprattutto per quanto riguarda il loro trasferimento nella pratica clinica. È tuttavia ampiamente riconosciuto il valore di un approccio multidisciplinare dove il punto focale dell’intervento è la persona e non il suo problema.

Dalla comunicazione del rischio alla sua gestione come prevenzione. Con il test genetico viene analizzata la probabilità di sviluppare una malattia sulla quale non sempre è possibile intervenire… In questi casi ha senso comunicare il rischio di malattia genetica? Non si corre il pericolo di sottovalutare i costi psicologici di una diagnosi anticipata?

In alcuni casi sapere di avere una mutazione genetica che predispone al cancro può risultare addirittura controproducente; ciò è vero soprattutto quando le strategie preventive o terapeutiche disponibili non sono praticabili (rischio radiologico in giovane età) o sono altamente invasive (mastectomia bilaterale preventiva oppure ovariectomia preventiva in donne in età fertile). Per questo motivo nella scelta di comunicare una diagnosi genetica vanno sempre attentamente valutati i costi e i benefici per il paziente.
È tuttavia importante considerare che la diagnosi genetica rappresenta oggi un approccio diagnostico innovativo che, in ambito oncologico, si basa su strategie terapeutiche “vecchie” basate sull’evidenza della malattia. Il vero senso di una diagnosi genetica lo si comprenderà presumibilmente con lo sviluppo della terapia genica che permetterà di intervenire direttamente sul Dna degli individui. Ai nostri giorni, l’asimmetria tra i presupposti che regolano la diagnosi genetica e quelli su cui si basano le terapie disponibili comporta talvolta il configurarsi di situazioni cliniche nelle quali il beneficio di una diagnosi genetica risulta poco evidente.

E in futuro…

I progressi nel campo della genetica aprono nuovi scenari e rispondono sempre di più al bisogno dell’uomo di esercitare un controllo sugli eventi della propria vita nell’idea di allontanare il più possibile le malattie e in ultimo la morte. La scienza deve avere questa funzione ma dobbiamo comunque interrogarci sul senso e sui limiti di questo approccio alla vita.

 

27 ottobre 2004

Bibliografia

Offit K, Groeger E, Turner S, et al. The "duty to warn" a patient’s family members about hereditary disease risks. JAMA 2004; 292: 1469-73.

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