È vero che i medici prescrivono troppo – esami e medicine – per difendersi dai malati? Può farci qualche esempio o riferire una storia esemplare da lei vissuta in Italia o negli Stati Uniti?
La medicina difensiva purtroppo non è un’opinione, ma un fatto. Ogni anno in Italia vi sono 30 mila cause legali intentate contro i medici, con un costo che, solo per le polizze di assicurazione professionale, si aggira intorno ai 500 milioni di euro. Ma è l’incidenza sulla spesa sanitaria complessiva che è allarmante, con una forbice tra il 12,3% e il 19,5% (Ordine dei medici ed odontoiatri di Roma, 2009). Il fenomeno è legato soprattutto alla diagnostica e incide pesantemente sui piani di contenimento dei costi della spesa sanitaria; ma il punto credo sia il clima generalizzato di diffidenza reciproca, che non giova né al medico né al paziente. Negli Stati Uniti ho spesso visto persone con patologie per le quali un esame del sangue e una visita accurata bastavano ad indicare la diagnosi, e invece veniva spesso prescritta una serie di esami inutili e spesso dannosi, perché ritardavano i tempi di intervento. Faccio un esempio: se un uomo giunge in Pronto Soccorso con una appendicite acuta e per essere certi di avere un documento da mostrare in Tribunale a conferma della diagnosi si richiedono una Tac o una risonanza magnetica, si ha conferma certa e documentabile della malattia, ma si ritarda (anche con qualche pericolo) l’intervento chirurgico.
"La percezione del mondo non dipende dai luoghi ma dall’andatura", ha scritto Paolo Rumiz. Se il medico avesse più tempo per visitare e parlare col malato prescriverebbe meno e meglio?
Questo è il vero punto. I medici devono tornare a porsi in ascolto. È un comportamento che diventa medicina miracolosa, per il paziente e per la sua famiglia. E anche per gli stessi medici che dall’approccio "due per sapere, due per curare" possono trarre grande nutrimento. Quel "capire insieme" dovrebbe divenire naturale attitudine di chi si accosta al mestiere di medico, difficile e bellissimo. Allora, maggiore capacità di coinvolgere il paziente nelle decisioni che lo riguardano e maggiore fiducia reciproca offriranno, ad entrambi, la cornice di certezze di un tempo e restituiranno al medico l’autorevolezza che merita. In ogni caso, se non per lo spirito che dovrebbe animarlo, almeno per quello che dovrebbe tutelarlo, ogni medico dovrebbe conoscere i risultati delle ricerche sull’importanza della comunicazione con il paziente: secondo una ricerca pubblicata già nel 1997 su Jama, la durata delle visite dei medici di base che non avevano avuto reclami dai loro pazienti era in media di oltre tre minuti superiore rispetto a quella dei colleghi che erano stati denunciati (18,3 contro 15 minuti).
Tra gli intervistati da Va’ Pensiero, il cardiologo Quinto Tozzi ricorda i rischi di un atteggiamento "difensivo" a suo parere poco considerato: non prescrivere e non eseguire prestazioni sanitarie più complesse e difficili per evitare complicazioni. Quale misura di rischio dovrebbe accettare un chirurgo?
La riflessione su medicina difensiva e chirurgia è ormai necessaria ed urgente: in un recente sondaggio della Società italiana di chirurgia, su 307 chirurghi intervistati, il 78% ha ammesso di avere fatto ricorso alla medicina difensiva per il timore di essere trascinato in tribunale. Negli USA, da una ricerca del Department of Health Policy and Management della Harvard Medical School, è emerso che su 824 chirurghi ben il 93% ha dichiarato di praticare la medicina difensiva. A volte si arriva a prescrivere accertamenti eccessivi, sproporzionati e rischiosi pur di proteggere il proprio operato, sia nella fase di diagnosi che nelle procedure chirurgiche. E riflettiamo anche sul fatto che, rispetto agli Stati Uniti, nel nostro Paese a pagare è il Servizio sanitario nazionale (Ssn). Il problema centrale è l’inappropriatezza, che tutela il medico ma non il paziente e che proprio come Commissione parlamentare d’inchiesta, che si occupa dell’efficacia e dell’efficienza del Ssn, stiamo valutando nelle strutture su tutto il territorio nazionale. Rispetto al lavoro di chirurgo e ai rischi legati alla professione è come se un pilota con esperienza di voli transcontinentali conducesse solo aerei da turismo in giornate soleggiate perché più sicuro: chi si occuperebbe degli interventi complessi, dei voli transcontinentali? E chi dice che una tonsillectomia sia priva di rischi? Noi chirurghi abbiamo studiato per operare, è il nostro lavoro. Dobbiamo essere in grado di accettare i nostri rischi, forti della formazione, la competenza e l’esperienza accumulate. Ciò che non deve mai mancare, lo ribadisco, è la corretta e continua comunicazione tra il medico, il paziente ed i suoi familiari. Questa è la nostra assicurazione principale, ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che il dialogo è parte integrante della missione di un medico.
24 febbraio 2010
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In primo piano
Due per sapere, due per curare
La medicina difensiva purtroppo non è un’opinione, ma un fatto. Ogni anno in Italia vi sono 30 mila cause legali intentate contro i medici, con un costo che, solo per le polizze di assicurazione professionale, si aggira intorno ai 500 milioni di euro. Ma è l’incidenza sulla spesa sanitaria complessiva che è allarmante, con una forbice tra il 12,3% e il 19,5% (Ordine dei medici ed odontoiatri di Roma, 2009). Il fenomeno è legato soprattutto alla diagnostica e incide pesantemente sui piani di contenimento dei costi della spesa sanitaria; ma il punto credo sia il clima generalizzato di diffidenza reciproca, che non giova né al medico né al paziente. Negli Stati Uniti ho spesso visto persone con patologie per le quali un esame del sangue e una visita accurata bastavano ad indicare la diagnosi, e invece veniva spesso prescritta una serie di esami inutili e spesso dannosi, perché ritardavano i tempi di intervento. Faccio un esempio: se un uomo giunge in Pronto Soccorso con una appendicite acuta e per essere certi di avere un documento da mostrare in Tribunale a conferma della diagnosi si richiedono una Tac o una risonanza magnetica, si ha conferma certa e documentabile della malattia, ma si ritarda (anche con qualche pericolo) l’intervento chirurgico.
"La percezione del mondo non dipende dai luoghi ma dall’andatura", ha scritto Paolo Rumiz. Se il medico avesse più tempo per visitare e parlare col malato prescriverebbe meno e meglio?
Questo è il vero punto. I medici devono tornare a porsi in ascolto. È un comportamento che diventa medicina miracolosa, per il paziente e per la sua famiglia. E anche per gli stessi medici che dall’approccio "due per sapere, due per curare" possono trarre grande nutrimento. Quel "capire insieme" dovrebbe divenire naturale attitudine di chi si accosta al mestiere di medico, difficile e bellissimo. Allora, maggiore capacità di coinvolgere il paziente nelle decisioni che lo riguardano e maggiore fiducia reciproca offriranno, ad entrambi, la cornice di certezze di un tempo e restituiranno al medico l’autorevolezza che merita. In ogni caso, se non per lo spirito che dovrebbe animarlo, almeno per quello che dovrebbe tutelarlo, ogni medico dovrebbe conoscere i risultati delle ricerche sull’importanza della comunicazione con il paziente: secondo una ricerca pubblicata già nel 1997 su Jama, la durata delle visite dei medici di base che non avevano avuto reclami dai loro pazienti era in media di oltre tre minuti superiore rispetto a quella dei colleghi che erano stati denunciati (18,3 contro 15 minuti).
Tra gli intervistati da Va’ Pensiero, il cardiologo Quinto Tozzi ricorda i rischi di un atteggiamento "difensivo" a suo parere poco considerato: non prescrivere e non eseguire prestazioni sanitarie più complesse e difficili per evitare complicazioni. Quale misura di rischio dovrebbe accettare un chirurgo?
La riflessione su medicina difensiva e chirurgia è ormai necessaria ed urgente: in un recente sondaggio della Società italiana di chirurgia, su 307 chirurghi intervistati, il 78% ha ammesso di avere fatto ricorso alla medicina difensiva per il timore di essere trascinato in tribunale. Negli USA, da una ricerca del Department of Health Policy and Management della Harvard Medical School, è emerso che su 824 chirurghi ben il 93% ha dichiarato di praticare la medicina difensiva. A volte si arriva a prescrivere accertamenti eccessivi, sproporzionati e rischiosi pur di proteggere il proprio operato, sia nella fase di diagnosi che nelle procedure chirurgiche. E riflettiamo anche sul fatto che, rispetto agli Stati Uniti, nel nostro Paese a pagare è il Servizio sanitario nazionale (Ssn). Il problema centrale è l’inappropriatezza, che tutela il medico ma non il paziente e che proprio come Commissione parlamentare d’inchiesta, che si occupa dell’efficacia e dell’efficienza del Ssn, stiamo valutando nelle strutture su tutto il territorio nazionale. Rispetto al lavoro di chirurgo e ai rischi legati alla professione è come se un pilota con esperienza di voli transcontinentali conducesse solo aerei da turismo in giornate soleggiate perché più sicuro: chi si occuperebbe degli interventi complessi, dei voli transcontinentali? E chi dice che una tonsillectomia sia priva di rischi? Noi chirurghi abbiamo studiato per operare, è il nostro lavoro. Dobbiamo essere in grado di accettare i nostri rischi, forti della formazione, la competenza e l’esperienza accumulate. Ciò che non deve mai mancare, lo ribadisco, è la corretta e continua comunicazione tra il medico, il paziente ed i suoi familiari. Questa è la nostra assicurazione principale, ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che il dialogo è parte integrante della missione di un medico.