La rivista Recenti Progressi in Medicina pubblica un dossier "Quale formazione in sanità? Un confronto basato sulle evidenze" con la sintesi del seminario sull’Educazione Continua in Medicina (ECM), organizzato dall’Ufficio per la Formazione del Personale Sanitario della Provincia Autonoma di Bolzano – Alto Adige, che si e tenuto il 26 febbraio 2010. Dall’avvio della saga dell’ECM sono passati oltre dieci anni: è stato (tutto) tempo perso? Personale sanitario, ordini e collegi professionali, Regioni, Aziende sanitarie e ospedaliere, Irccs e istituti di ricerca, societa scientifiche, industria e agenzie di pubbliche relazioni: tra gli attori del "sistema", da chi si aspetterebbe uno scatto d’orgoglio per un’ECM di qualità? Risponde Guido Bertolini Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri", Ranica (Bergamo)
I primi dieci anni
Gli obiettivi supplementari
La seconda rivoluzione
I primi dieci anni
Queste due semplici domande, come del resto tutte quelle ben poste, stimolano pensieri e considerazioni che tendono ad allargarsi, a incrociarsi, a moltiplicarsi. Di qui la difficoltà a rispondere in maniera puntuale e concisa. Provo quindi ad articolare una riflessione-risposta.
Inizio senza indugi con l’affermare che dieci anni di ECM sono stati sicuramente preziosi, almeno nel panorama italiano. Prima del 2000 erano davvero in pochi nel nostro Paese a discutere di pedagogia medica. Vi era un’omonima società, ma era di fatto un ristretto circolo di appassionati, con tutti i pro e i contro che questo comporta: livello di sofisticazione del pensiero mediamente alto, ma alta anche la tendenza all’autoreferenzialità, con il conseguente rischio di infertilità.
Poi, d’improvviso, l’avvento del mercato (faccio francamente fatica a trovare un altro termine sintetico che descriva meglio l’esperienza ECM). Mercato non è però necessariamente sinonimo di Male. Oggi non c’è organizzazione sanitaria, a qualsiasi livello, che non si sia posta il problema della formazione in medicina. In una logica evoluzionistica, l’aumento dei soggetti che si occupano di un problema aumenta la probabilità che nuove soluzioni intelligenti vengano proposte e sviluppate. E ciò è indubbiamente avvenuto, basti guardare agli strumenti a disposizione 15 anni fa per fare formazione del medico e a quelli disponibili oggi. L’accelerazione è stata impressionante e la pedagogia medica si è finalmente aperta anche alle nuove tecnologie.
Ma il prezzo da pagare quando un fenomeno da elitario diviene di massa è sempre alto. Si esprime in particolare nella inevitabile riduzione del livello medio e, soprattutto, nella forte tendenza all’omologazione, alla standardizzazione acritica dei processi. Quest’ultimo fenomeno è quello che più mi preoccupa, quando guardo al "mercato" dell’ECM. Mi pare infatti che stia spostando prepotentemente da una parte la bilancia di una vecchia diatriba teoretica nell’ambito delle scienze della formazione: quella che tuttora contrappone i cosiddetti "didatticisti" ai "pedagogisti" propriamente detti. Mentre i primi hanno coltivato in maniera esasperata i diversi approcci didattici tanto da ritenerli prioritari nella formazione dei formatori, i secondi considerano questi nulla più che i "ferri del mestiere" del formatore. In altre parole un formatore, se deve necessariamente avere competenze didattiche, deve altresì essere ben consapevole che queste vanno subordinate alla capacità, questa sì cruciale e prioritaria, di saper individuare, esplicitare e quindi lavorare sugli obiettivi formativi, generali e specifici.
Purtroppo questo secondo modo di intendere le problematiche formative, che devo ammettere è l’unico mi convince davvero, è da sempre quello maggiormente latitante nello specifico ambito della formazione del medico e rischia oggi di venire del tutto cancellato dalla standardizzazione acefala dei formatori di massa, o distributori di crediti, che dir si voglia.
In effetti, forse anche in ragione della consuetudine professionale a ragionare in termini prescrittivi, in medicina hanno sempre avuto un largo successo proprio gli approcci più tipicamente didatticisti, ben rappresentati da opere come la Guide pédagogique di Guilbert o The medical teacher di Cox e Ewan. Se questi testi hanno avuto l’indiscusso merito di sollecitare una consapevolezza pedagogica in medicina, un approccio eccessivamente didatticista rischia di far perdere di vista gli altri elementi essenziali di un’autentica esperienza formativa, come sono le condizioni, gli obiettivi, gli aspetti interattivi, che comunque caratterizzano qualsiasi relazione formativa. è sull’analisi incrociata di tutti questi elementi che andrebbe valutato il grado di successo di un evento formativo, dalla sua progettazione, alla sua realizzazione, al suo esito. In particolare, vorrei soffermarmi un poco sul problema degli obiettivi, sul raggiungimento dei quali andrebbero giudicati non solo gli studenti, ma anche i docenti e (in un’ottica epidemiologica) gli approcci didattici stessi.
Gli obiettivi supplementari
In questo senso gli obiettivi generali della formazione del medico non possono limitarsi a quelli che vengono affermati proprio come capisaldi fondanti dell’ECM: sapere, saper fare e saper essere. A questi ne vanno aggiunti almeno altri tre, altrettanto importanti, e oggi oserei dire addirittura irrinunciabili: saper collaborare, saper apprendere e saper sapere. Il primo di questi tre obiettivi supplementari sancisce che la capacità relazionale del medico non può considerarsi esaurita nel rapporto con il paziente. In una medicina sempre più complessa e frammentata, un autentico spirito collaborativo è forse l’unica risorsa concreta che il singolo operatore ha per garantire efficacia ed efficienza alle cure. Questa stessa attitudine può addirittura aprire la strada a interessanti esperienze di medicina di gruppo, che hanno già mostrato la loro validità.
Per essere buoni medici è però anche necessario mettere in atto uno sforzo continuo di apprendimento e autoapprendimento. Questo saper apprendere rimanda a competenze specifiche tutt’altro che banali o di facile disponibilità, che vanno quindi coltivate e sostenute. Oggi il medico è sottoposto ad un vero e proprio bombardamento incessante di conoscenze e informazioni, scientifiche e non, molte delle quali di scarsissima se non di nessuna validità. Ciò che si è appreso, inoltre, diventa spesso rapidamente sorpassato, obsoleto. Basti ricordare che solo sull’archivio bibliografico MEDLINE sono indicizzati circa 850.000 articoli all’anno. Ne consegue che uno degli obiettivi della formazione del medico deve essere focalizzato non solo al tener vive le motivazioni all’apprendimento, ma anche alla capacità di discriminare fra conoscenze utili e inutili, fra informazioni corrette e scorrette, fra novità vere o false, in modo da mettere in grado il medico di saper soddisfare con efficienza e cognizione di causa quelle stesse inalienabili motivazioni.
Il terzo obiettivo supplementare (saper sapere) si riferisce all’attitudine, spiccatamente epistemologica, con cui un soggetto conoscente si pone nei confronti della stessa conoscenza. è stato infatti più volte ricordato che in medicina, dove è richiesto un agire non banale o ripetitivo, non bastano le conoscenze, bisogna anche saperle gestire. Le scienze cognitive hanno chiarito che un ruolo di primo piano nella corretta gestione delle conoscenze di cui un professionista dispone spetta infatti alla rappresentazione mentale o, se si preferisce, alla strutturazione mentale delle conoscenze stesse. è anche su questa competenza metacognitiva che si deve lavorare se si vuole realizzare un autentico processo formativo in medicina.
La seconda rivoluzione
Riconoscere l’importanza cruciale di questi obiettivi porta a mio avviso a sdrammatizzare l’enfasi posta sulla metodologia didattica e a ridare importanza ad una autentica progettazione educativa e, soprattutto, a un’attenta riflessione sui processi formativi, sia durante sia dopo il loro svolgimento. In questa ottica la domanda prioritaria cui rispondere in ambito di formazione del medico non sarebbe più "qual è l’approccio didattico più efficace da utilizzare?" ma si moltiplicherebbe e diverrebbe più complessa: "quale medico vogliamo formare?", "con quali competenze?", "in quale contesto?", "perché?". Rispondere a queste domande con competenza pedagogica significa generare nuove domande, in uno schema di riferimento ben più ampio di quello oggi dominante nella logica dei crediti ECM. In questo schema trovano certamente spazio, ma a questo punto decentrate, anche le questioni di quali mezzi didattici impiegare, quali stili comunicativi adottare, quali dinamiche di interazione innescare.
Se dovessi allora sperare in uno scatto di orgoglio per un’ECM di qualità, mi aspetterei proprio questo: che chi governa il sistema si accorga dell’opportunità che si profila oggi come possibile. Dopo aver, con indiscutibile capacità, promosso la diffusa e inedita consapevolezza dell’importanza della formazione continua in medicina, i tempi potrebbero essere maturi per orientare il sistema stesso verso una maggiore conoscenza delle proprie fondamenta teoretiche, per una formazione del medico più convincente, perché pedagogicamente fondata. La scelta di optare per l’accreditamento dei provider e non più dei singoli eventi potrebbe essere propedeutica proprio a questa seconda rivoluzione. Sarebbe davvero uno scatto di orgoglio auspicabile.
1 luglio 2010
In primo piano
ECM? Saper collaborare, saper apprendere, saper sapere
Queste due semplici domande, come del resto tutte quelle ben poste, stimolano pensieri e considerazioni che tendono ad allargarsi, a incrociarsi, a moltiplicarsi. Di qui la difficoltà a rispondere in maniera puntuale e concisa. Provo quindi ad articolare una riflessione-risposta.
Inizio senza indugi con l’affermare che dieci anni di ECM sono stati sicuramente preziosi, almeno nel panorama italiano. Prima del 2000 erano davvero in pochi nel nostro Paese a discutere di pedagogia medica. Vi era un’omonima società, ma era di fatto un ristretto circolo di appassionati, con tutti i pro e i contro che questo comporta: livello di sofisticazione del pensiero mediamente alto, ma alta anche la tendenza all’autoreferenzialità, con il conseguente rischio di infertilità.
Poi, d’improvviso, l’avvento del mercato (faccio francamente fatica a trovare un altro termine sintetico che descriva meglio l’esperienza ECM). Mercato non è però necessariamente sinonimo di Male. Oggi non c’è organizzazione sanitaria, a qualsiasi livello, che non si sia posta il problema della formazione in medicina. In una logica evoluzionistica, l’aumento dei soggetti che si occupano di un problema aumenta la probabilità che nuove soluzioni intelligenti vengano proposte e sviluppate. E ciò è indubbiamente avvenuto, basti guardare agli strumenti a disposizione 15 anni fa per fare formazione del medico e a quelli disponibili oggi. L’accelerazione è stata impressionante e la pedagogia medica si è finalmente aperta anche alle nuove tecnologie.
Ma il prezzo da pagare quando un fenomeno da elitario diviene di massa è sempre alto. Si esprime in particolare nella inevitabile riduzione del livello medio e, soprattutto, nella forte tendenza all’omologazione, alla standardizzazione acritica dei processi. Quest’ultimo fenomeno è quello che più mi preoccupa, quando guardo al "mercato" dell’ECM. Mi pare infatti che stia spostando prepotentemente da una parte la bilancia di una vecchia diatriba teoretica nell’ambito delle scienze della formazione: quella che tuttora contrappone i cosiddetti "didatticisti" ai "pedagogisti" propriamente detti. Mentre i primi hanno coltivato in maniera esasperata i diversi approcci didattici tanto da ritenerli prioritari nella formazione dei formatori, i secondi considerano questi nulla più che i "ferri del mestiere" del formatore. In altre parole un formatore, se deve necessariamente avere competenze didattiche, deve altresì essere ben consapevole che queste vanno subordinate alla capacità, questa sì cruciale e prioritaria, di saper individuare, esplicitare e quindi lavorare sugli obiettivi formativi, generali e specifici.
Purtroppo questo secondo modo di intendere le problematiche formative, che devo ammettere è l’unico mi convince davvero, è da sempre quello maggiormente latitante nello specifico ambito della formazione del medico e rischia oggi di venire del tutto cancellato dalla standardizzazione acefala dei formatori di massa, o distributori di crediti, che dir si voglia.
In effetti, forse anche in ragione della consuetudine professionale a ragionare in termini prescrittivi, in medicina hanno sempre avuto un largo successo proprio gli approcci più tipicamente didatticisti, ben rappresentati da opere come la Guide pédagogique di Guilbert o The medical teacher di Cox e Ewan. Se questi testi hanno avuto l’indiscusso merito di sollecitare una consapevolezza pedagogica in medicina, un approccio eccessivamente didatticista rischia di far perdere di vista gli altri elementi essenziali di un’autentica esperienza formativa, come sono le condizioni, gli obiettivi, gli aspetti interattivi, che comunque caratterizzano qualsiasi relazione formativa. è sull’analisi incrociata di tutti questi elementi che andrebbe valutato il grado di successo di un evento formativo, dalla sua progettazione, alla sua realizzazione, al suo esito. In particolare, vorrei soffermarmi un poco sul problema degli obiettivi, sul raggiungimento dei quali andrebbero giudicati non solo gli studenti, ma anche i docenti e (in un’ottica epidemiologica) gli approcci didattici stessi.
In questo senso gli obiettivi generali della formazione del medico non possono limitarsi a quelli che vengono affermati proprio come capisaldi fondanti dell’ECM: sapere, saper fare e saper essere. A questi ne vanno aggiunti almeno altri tre, altrettanto importanti, e oggi oserei dire addirittura irrinunciabili: saper collaborare, saper apprendere e saper sapere. Il primo di questi tre obiettivi supplementari sancisce che la capacità relazionale del medico non può considerarsi esaurita nel rapporto con il paziente. In una medicina sempre più complessa e frammentata, un autentico spirito collaborativo è forse l’unica risorsa concreta che il singolo operatore ha per garantire efficacia ed efficienza alle cure. Questa stessa attitudine può addirittura aprire la strada a interessanti esperienze di medicina di gruppo, che hanno già mostrato la loro validità.
Per essere buoni medici è però anche necessario mettere in atto uno sforzo continuo di apprendimento e autoapprendimento. Questo saper apprendere rimanda a competenze specifiche tutt’altro che banali o di facile disponibilità, che vanno quindi coltivate e sostenute. Oggi il medico è sottoposto ad un vero e proprio bombardamento incessante di conoscenze e informazioni, scientifiche e non, molte delle quali di scarsissima se non di nessuna validità. Ciò che si è appreso, inoltre, diventa spesso rapidamente sorpassato, obsoleto. Basti ricordare che solo sull’archivio bibliografico MEDLINE sono indicizzati circa 850.000 articoli all’anno. Ne consegue che uno degli obiettivi della formazione del medico deve essere focalizzato non solo al tener vive le motivazioni all’apprendimento, ma anche alla capacità di discriminare fra conoscenze utili e inutili, fra informazioni corrette e scorrette, fra novità vere o false, in modo da mettere in grado il medico di saper soddisfare con efficienza e cognizione di causa quelle stesse inalienabili motivazioni.
Il terzo obiettivo supplementare (saper sapere) si riferisce all’attitudine, spiccatamente epistemologica, con cui un soggetto conoscente si pone nei confronti della stessa conoscenza. è stato infatti più volte ricordato che in medicina, dove è richiesto un agire non banale o ripetitivo, non bastano le conoscenze, bisogna anche saperle gestire. Le scienze cognitive hanno chiarito che un ruolo di primo piano nella corretta gestione delle conoscenze di cui un professionista dispone spetta infatti alla rappresentazione mentale o, se si preferisce, alla strutturazione mentale delle conoscenze stesse. è anche su questa competenza metacognitiva che si deve lavorare se si vuole realizzare un autentico processo formativo in medicina.
Riconoscere l’importanza cruciale di questi obiettivi porta a mio avviso a sdrammatizzare l’enfasi posta sulla metodologia didattica e a ridare importanza ad una autentica progettazione educativa e, soprattutto, a un’attenta riflessione sui processi formativi, sia durante sia dopo il loro svolgimento. In questa ottica la domanda prioritaria cui rispondere in ambito di formazione del medico non sarebbe più "qual è l’approccio didattico più efficace da utilizzare?" ma si moltiplicherebbe e diverrebbe più complessa: "quale medico vogliamo formare?", "con quali competenze?", "in quale contesto?", "perché?". Rispondere a queste domande con competenza pedagogica significa generare nuove domande, in uno schema di riferimento ben più ampio di quello oggi dominante nella logica dei crediti ECM. In questo schema trovano certamente spazio, ma a questo punto decentrate, anche le questioni di quali mezzi didattici impiegare, quali stili comunicativi adottare, quali dinamiche di interazione innescare.
Se dovessi allora sperare in uno scatto di orgoglio per un’ECM di qualità, mi aspetterei proprio questo: che chi governa il sistema si accorga dell’opportunità che si profila oggi come possibile. Dopo aver, con indiscutibile capacità, promosso la diffusa e inedita consapevolezza dell’importanza della formazione continua in medicina, i tempi potrebbero essere maturi per orientare il sistema stesso verso una maggiore conoscenza delle proprie fondamenta teoretiche, per una formazione del medico più convincente, perché pedagogicamente fondata. La scelta di optare per l’accreditamento dei provider e non più dei singoli eventi potrebbe essere propedeutica proprio a questa seconda rivoluzione. Sarebbe davvero uno scatto di orgoglio auspicabile.