“Sono un capitolo nuovo e rivoluzionario della medicina: ma ne sono state scritte finora soltanto poche righe”. Questa è la definizione che delle cure di fine vita ci ha dato Franco Toscani, uno degli esperti intervenuto nello speciale di Va’ Pensiero dedicato all’assistenza medica prima delle morte: care of end of life, una terminologia in uso dagli anni Novanta.
Il primo dato che abbiamo registrato è la crescente medicalizzazione del fine vita. Anche in Italia il numero dei pazienti che chiede di morire all’interno delle strutture sanitarie (ospedali per acuti, RSA, case di riposo, Hospice) è in costante aumento e può essere stimato oggi nel 50 per cento circa dei 560 mila decessi che si registrano annualmente nella Penisola (1). È anche dimostrabile che, indipendentemente dal luogo in cui si muore, la morte è preceduta o accompagnata da molte terapie (2). E parallelamente aumentano i dibattiti di carattere etico, clinico e organizzativo sulle cure di fine vita.
Non si tratta di fatti sporadici. L’incremento delle vita media e l’aumento delle malattie croniche e degenerative hanno creato un nuovo tipo di malato. Un malato abituato, soprattutto dai settant’anni in poi, a un’assillante assistenza medica: come rinunciarvi alla fine della vita? D’altra parte, una tecnologia sanitaria in continua evoluzione autorizza la speranza (o l’illusione?) di procrastinare all’infinito i termini temporali della vita, quasi a reinventarla. Viene da chiedersi se è ancora possibile, in questa situazione, parlare di morte naturale…
Troppe cure o troppo poche
Per assurdo il livello delle cure di fine vita continua ad essere insoddisfacente. Massimo Costantini dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Genova ci ha ricordato come “alla fine della vita, il vero problema non è se e quando smettere di curare ma come curare”. E ancora: “È noto a tutti che la qualità delle cure offerte a chi muore in ospedale è di scarsa qualità”. Non parliamo soltanto dell’irridente paravento, che ancora oggi rappresenta spesso l’unica protezione della privacy di chi muore in corsia: ci sono sgarbi molto più gravi di quelli attinenti al setting e si verificano oltre che in ospedale, anche in RSA o a casa. Il professor Toscani, in particolare, sostiene che uno dei sintomi più frequenti e temuti del fine vita, il dolore fisico, è tuttora sotto-trattato, soprattutto in Italia (3): benché la possibilità e le modalità di controllo di questo tipo di dolore siano note da decenni.
D’altra parte, accanto a prassi terapeutiche che indicano una situazione di abbandono generalizzato del morente da parte della medicina, in altre situazioni si manifesta un eccesso di cure. Cioè un futile treatment (trattamento inutile) o un over-treatment adottando la terminologia inglese, che è più corretta della definizione impropria di “accanimento terapeutico”:le cure in cui c’è evidente sproporzione tra risultato terapeutico da una parte e qualità di vita dall’altra. Ecco qualche esempio: a che serve una chemio due giorni prima di morire? E una trasfusione di sangue? In persone così debilitate da poterne prevederne la fine entro pochi giorni, un’alimentazione e una idratazione artificiali servono a prolungare o a migliorare la vita? In caso di morte imminente non è sempre facile rispondere, caso per caso, a questo tipo di domande: tuttavia se – per scelta ideologica, per insistenza dei parenti o per paura di conseguenze legali – il medico opta sistematicamente per l’over-treatment, altrettanto sistematicamente viene messo in discussione l’interesse del paziente.
Lasciare andare con cura
“In ogni caso la sospensione delle cure è una scelta clinica: soltanto studi rigorosi e ulteriori conoscenze scientifiche possono portare a certezze maggiori e più condivise”. Questa è l’opinione di Guido Bertolini, epidemiologo e coordinatore del GiViTI, che ha parlato su Va’ Pensiero dell’end life care nelle terapie intensive. “Desistere dalle cure è una scelta difficile, che viene sopportata meglio se condivisa con lo staff e anche – quando possibile – con i parenti del paziente se non con il paziente stesso, ma questo succede raramente. Per l’intensivista è molto importante sentirsi sicuri di fare la cosa giusta”.
Prezioso e originale il contributo dato da Paola Di Giulio, professore associato al Corso di laurea in scienze infermieristiche dell’Università di Torino. All’interno di una équipe di cure terminali, accanto a pochi medici occorre un gruppo numeroso di infermieri perché “soltanto una assidua sorveglianza da parte degli infermieri, in particolare quando il paziente è a domicilio, è in grado di trasformare la prescrizione medica in una terapia efficace e personalizzata e valutare anche la reazione psicologica alla cura”. Altrettanto importante è il dialogo che l’équipe terapeutica è in grado di stabilire con il paziente: l’imminenza del decesso rende più prezioso che mai non solo il livello di consapevolezza del malato ma anche la sua possibilità di esprimersi e comunicare (4). “Quella che in molti operatori, sia medici che infermieri, ancora manca è in realtà l’approccio alla morte: o meglio la cultura dell’accompagnamento alla morte. Se ci fosse, i malati terminali non verrebbero trattati tutti allo stesso modo, così come hanno rivelato alcune tra le più prestigiose indagini internazionali” (5).
Non solo hospice, ma anche cure domiciliari
L’inappropriatezza dei trattamenti di fine vita è ancora più evidente se quanto accade nei luoghi usuali del morire viene confrontato alla prassi degli Hospice, le piccole strutture residenziali che sono considerate in tutto il mondo come il modello e l’Università delle cure terminali. Alla fine del 2006 si contavano in Italia 105 hospice, ma entro il 2010 potrebbero superare i 200 per un totale di circa 2500 posti-letto dislocati in prevalenza nel Centro-Nord. Carlo Peruselli, direttore di uno dei più efficienti hospice in Italia, quello dell’Ospedale di Biella, valuta positivamente questa rapidissima crescita: “Ma quello che ci manca è un rapporto virtuoso tra cure di fine vita all’interno degli hospice e a casa. Se qualcosa non cambierà, si potrebbe arrivare a un processo di istituzionalizzazione eccessiva delle persone che sono giunte alla fine della vita”. Un fatto di questo tipo sarebbe in contraddizione con le preferenze di molti malati e delle loro famiglie: non è forse vero che, soprattutto nel Centro-Sud, molti di loro opterebbero ancora, se potessero, per la morte a casa?
Quesiti aperti
Ma il problema più grave e incomprensibile è che in tanti anni gli hospice non siano ancora riusciti, soprattutto in Italia, a esportare la loro esperienza all’interno del sistema-salute, a contaminarlo. La distanza che separa il modo con cui l’hospice e le altre strutture sanitarie accompagnano il malato alla morte si misura in anni-luce. In un grande ospedale, a volte, l’hospice è sullo stesso piano di un reparto per malati acuti. Ebbene, in prossimità della morte tutto è diverso: dalla stanza di degenza ai silenzi e alle parole di medici e infermieri, dal contatto con parenti e amici del malato a quello che i malati sanno del loro domani: e da quanto riescono o non riescono a comunicare. Come è possibile questa ambiguità? Di solito si dice che nessun reparto per acuti è fatto per morire e che la filosofia, i ritmi e l’organizzazione di un normale reparto di degenza sono troppo diversi dalla logica dell’accompagnamento alla morte. Ma si tratta davvero di due medicine giustapposte? Molto interessante da questo punto di vista l’introduzione, avviata a Genova dal dottor Costantini, di un protocollo di interventi terapeutici e assistenziali per il miglioramento delle cure di fine vita all’interno degli ospedali generali (6).
Siamo dunque in presenza di un cambio di marcia? Accanto a questa, un’altra domanda è inevitabile ed è quella relativa al ruolo dei palliativisti. Finora infatti, nonostante i pochissimi riconoscimenti avuti (nella gran parte dei Paesi avanzati, Italia compresa, le cure palliative e di fine vita non sono mai entrate nelle Facoltà universitarie, neppure come materia complementare) questi hanno aperto da soli una strada: sono stati gli unici a esplorare sistematicamente le potenzialità della medicina nei percorsi di fine vita. Ma forse è arrivato il momento di chiedersi se quelle per il malato terminale sono cure per tutti i medici, a cominciare da quelli di medicina generale, oppure – così come avviene per altre discipline, come la cardiologia e l’oncologia – debbano restare confinate nel recinto di una specialità.
19 novembre 2008
Note
- Tra le diverse Regioni si registrano tuttavia notevoli differenze: nel Centro-Sud si preferisce ancora morire a casa. Per quanto riguarda i malati di tumore, la quota di coloro che decedono nel loro letto sfiora nel meridione italiano l’80% del totale.
- Molto significativi in proposito i dati riportati dallo studio EURELD (20.000 decessi studiati in 6 Paesi europei, di cui oltre 2000 in Italia) e lo studio ITAELD (oltre 2500 medici italiani, ospedalieri e di medicina generale, intervistati). Le due indagini sono rispettivamente del 2002 e del 2007 e sono state coordinate da Eugenio Paci.
- In uno dei più recenti report internazionali, il consumo di morfina per uso terapeutico risulta in Italia di 8 volte inferiore a quello registrato in Inghilterra e in Irlanda. Tra le indagini retrospettive che giudicano insufficiente o inefficace il trattamento anti-dolore, ricordiamo lo studio Eolo: questa indagine ha valutato le terapie di fine vita erogate nelle 72 ore precedenti la morte in 40 ospedali del Centro-Nord (2005).
- In uno studio retrospettivo promosso a Genova su malati deceduti per tumore (ISDOC Study Group, 2006) soltanto il 10% del totale risulta essere stato informato delle sue reali condizioni di salute.
- Si fa riferimento in particolare alla studio SUPPORT (1995), una delle prime e più autorevoli indagini sulle cure di fine vita. Questo studio ha valutato le cure erogate in 5 grandi ospedali USA a 4800 pazienti in condizioni critiche. Nelle conclusioni dell’indagine la situazione delle cure terminali viene definita “allarmante” e “scoraggiante”.
- Le linee-guida proposte per le cure di fine vita in ospedale sono quelle della “Liverpool Care Pathwais”, un protocollo di intervento già sperimentato con successo nel regno Unito.
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End-life care: parliamone
“Sono un capitolo nuovo e rivoluzionario della medicina: ma ne sono state scritte finora soltanto poche righe”. Questa è la definizione che delle cure di fine vita ci ha dato Franco Toscani, uno degli esperti intervenuto nello speciale di Va’ Pensiero dedicato all’assistenza medica prima delle morte: care of end of life, una terminologia in uso dagli anni Novanta.
Il primo dato che abbiamo registrato è la crescente medicalizzazione del fine vita. Anche in Italia il numero dei pazienti che chiede di morire all’interno delle strutture sanitarie (ospedali per acuti, RSA, case di riposo, Hospice) è in costante aumento e può essere stimato oggi nel 50 per cento circa dei 560 mila decessi che si registrano annualmente nella Penisola (1). È anche dimostrabile che, indipendentemente dal luogo in cui si muore, la morte è preceduta o accompagnata da molte terapie (2). E parallelamente aumentano i dibattiti di carattere etico, clinico e organizzativo sulle cure di fine vita.
Non si tratta di fatti sporadici. L’incremento delle vita media e l’aumento delle malattie croniche e degenerative hanno creato un nuovo tipo di malato. Un malato abituato, soprattutto dai settant’anni in poi, a un’assillante assistenza medica: come rinunciarvi alla fine della vita? D’altra parte, una tecnologia sanitaria in continua evoluzione autorizza la speranza (o l’illusione?) di procrastinare all’infinito i termini temporali della vita, quasi a reinventarla. Viene da chiedersi se è ancora possibile, in questa situazione, parlare di morte naturale…
Troppe cure o troppo poche
Per assurdo il livello delle cure di fine vita continua ad essere insoddisfacente. Massimo Costantini dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Genova ci ha ricordato come “alla fine della vita, il vero problema non è se e quando smettere di curare ma come curare”. E ancora: “È noto a tutti che la qualità delle cure offerte a chi muore in ospedale è di scarsa qualità”. Non parliamo soltanto dell’irridente paravento, che ancora oggi rappresenta spesso l’unica protezione della privacy di chi muore in corsia: ci sono sgarbi molto più gravi di quelli attinenti al setting e si verificano oltre che in ospedale, anche in RSA o a casa. Il professor Toscani, in particolare, sostiene che uno dei sintomi più frequenti e temuti del fine vita, il dolore fisico, è tuttora sotto-trattato, soprattutto in Italia (3): benché la possibilità e le modalità di controllo di questo tipo di dolore siano note da decenni.
D’altra parte, accanto a prassi terapeutiche che indicano una situazione di abbandono generalizzato del morente da parte della medicina, in altre situazioni si manifesta un eccesso di cure. Cioè un futile treatment (trattamento inutile) o un over-treatment adottando la terminologia inglese, che è più corretta della definizione impropria di “accanimento terapeutico”:le cure in cui c’è evidente sproporzione tra risultato terapeutico da una parte e qualità di vita dall’altra. Ecco qualche esempio: a che serve una chemio due giorni prima di morire? E una trasfusione di sangue? In persone così debilitate da poterne prevederne la fine entro pochi giorni, un’alimentazione e una idratazione artificiali servono a prolungare o a migliorare la vita? In caso di morte imminente non è sempre facile rispondere, caso per caso, a questo tipo di domande: tuttavia se – per scelta ideologica, per insistenza dei parenti o per paura di conseguenze legali – il medico opta sistematicamente per l’over-treatment, altrettanto sistematicamente viene messo in discussione l’interesse del paziente.
Lasciare andare con cura
“In ogni caso la sospensione delle cure è una scelta clinica: soltanto studi rigorosi e ulteriori conoscenze scientifiche possono portare a certezze maggiori e più condivise”. Questa è l’opinione di Guido Bertolini, epidemiologo e coordinatore del GiViTI, che ha parlato su Va’ Pensiero dell’end life care nelle terapie intensive. “Desistere dalle cure è una scelta difficile, che viene sopportata meglio se condivisa con lo staff e anche – quando possibile – con i parenti del paziente se non con il paziente stesso, ma questo succede raramente. Per l’intensivista è molto importante sentirsi sicuri di fare la cosa giusta”.
Prezioso e originale il contributo dato da Paola Di Giulio, professore associato al Corso di laurea in scienze infermieristiche dell’Università di Torino. All’interno di una équipe di cure terminali, accanto a pochi medici occorre un gruppo numeroso di infermieri perché “soltanto una assidua sorveglianza da parte degli infermieri, in particolare quando il paziente è a domicilio, è in grado di trasformare la prescrizione medica in una terapia efficace e personalizzata e valutare anche la reazione psicologica alla cura”. Altrettanto importante è il dialogo che l’équipe terapeutica è in grado di stabilire con il paziente: l’imminenza del decesso rende più prezioso che mai non solo il livello di consapevolezza del malato ma anche la sua possibilità di esprimersi e comunicare (4). “Quella che in molti operatori, sia medici che infermieri, ancora manca è in realtà l’approccio alla morte: o meglio la cultura dell’accompagnamento alla morte. Se ci fosse, i malati terminali non verrebbero trattati tutti allo stesso modo, così come hanno rivelato alcune tra le più prestigiose indagini internazionali” (5).
Non solo hospice, ma anche cure domiciliari
L’inappropriatezza dei trattamenti di fine vita è ancora più evidente se quanto accade nei luoghi usuali del morire viene confrontato alla prassi degli Hospice, le piccole strutture residenziali che sono considerate in tutto il mondo come il modello e l’Università delle cure terminali. Alla fine del 2006 si contavano in Italia 105 hospice, ma entro il 2010 potrebbero superare i 200 per un totale di circa 2500 posti-letto dislocati in prevalenza nel Centro-Nord. Carlo Peruselli, direttore di uno dei più efficienti hospice in Italia, quello dell’Ospedale di Biella, valuta positivamente questa rapidissima crescita: “Ma quello che ci manca è un rapporto virtuoso tra cure di fine vita all’interno degli hospice e a casa. Se qualcosa non cambierà, si potrebbe arrivare a un processo di istituzionalizzazione eccessiva delle persone che sono giunte alla fine della vita”. Un fatto di questo tipo sarebbe in contraddizione con le preferenze di molti malati e delle loro famiglie: non è forse vero che, soprattutto nel Centro-Sud, molti di loro opterebbero ancora, se potessero, per la morte a casa?
Quesiti aperti
Ma il problema più grave e incomprensibile è che in tanti anni gli hospice non siano ancora riusciti, soprattutto in Italia, a esportare la loro esperienza all’interno del sistema-salute, a contaminarlo. La distanza che separa il modo con cui l’hospice e le altre strutture sanitarie accompagnano il malato alla morte si misura in anni-luce. In un grande ospedale, a volte, l’hospice è sullo stesso piano di un reparto per malati acuti. Ebbene, in prossimità della morte tutto è diverso: dalla stanza di degenza ai silenzi e alle parole di medici e infermieri, dal contatto con parenti e amici del malato a quello che i malati sanno del loro domani: e da quanto riescono o non riescono a comunicare. Come è possibile questa ambiguità? Di solito si dice che nessun reparto per acuti è fatto per morire e che la filosofia, i ritmi e l’organizzazione di un normale reparto di degenza sono troppo diversi dalla logica dell’accompagnamento alla morte. Ma si tratta davvero di due medicine giustapposte? Molto interessante da questo punto di vista l’introduzione, avviata a Genova dal dottor Costantini, di un protocollo di interventi terapeutici e assistenziali per il miglioramento delle cure di fine vita all’interno degli ospedali generali (6).
Siamo dunque in presenza di un cambio di marcia? Accanto a questa, un’altra domanda è inevitabile ed è quella relativa al ruolo dei palliativisti. Finora infatti, nonostante i pochissimi riconoscimenti avuti (nella gran parte dei Paesi avanzati, Italia compresa, le cure palliative e di fine vita non sono mai entrate nelle Facoltà universitarie, neppure come materia complementare) questi hanno aperto da soli una strada: sono stati gli unici a esplorare sistematicamente le potenzialità della medicina nei percorsi di fine vita. Ma forse è arrivato il momento di chiedersi se quelle per il malato terminale sono cure per tutti i medici, a cominciare da quelli di medicina generale, oppure – così come avviene per altre discipline, come la cardiologia e l’oncologia – debbano restare confinate nel recinto di una specialità.
19 novembre 2008
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