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Farmaci nel vicolo cieco

Alle aziende farmaceutiche interessa sapere cosa succede al farmaco dopo la sua vendita?

L’industria farmaceutica è sicuramente sensibile al problema del consumo e dell’ eventuale spreco di medicinali così come al controllo della spesa sanitaria. Il consumo non corretto di medicinali potrebbe essere una delle componenti della spesa sanitaria, per cui è sicuramente utile conoscere quali sono i medicinali più soggetti a spreco così da collaborare con le Autorità nell’ottimizzazione delle confezioni per stabilire, ad esempio la quantità più corretta di pillole da inserire in un blister. Sulla questione, c’è grande attenzione da parte del mondo dell’industria del farmaco e già esistono confezioni con unità posologiche adeguate alla terapia. Generalmente, infatti, le confezioni di medicinali contengono un numero di unità posologiche adeguato al trattamento in acuto. Diversamente, per le terapie croniche il numero di unità posologiche è superiore e tale da garantire una più ampia copertura, senza dover ricorrere continuamente al medico per la prescrizione ripetuta o alla necessità di farsi prescrivere più confezioni in contemporanea.Ma si tratta di eccezioni…

Bisogna innanzitutto distinguere tra farmaci da prescrizione e farmaci da banco (detti anche OTC): alcune norme inserite nella legge Finanziaria per il 2005 e per il 2006, relativamente ai farmaci a carico del SSN, obbligano all’individuazione di un confezionamento ottimale. Per alcuni farmaci è prevista la confezione monodose: è l’ esempio di alcuni antibiotici che, disponendo di caratteristiche particolari di cinetica consentono di curare la patologia con una o due somministrazioni. Una disposizione normativa successiva, invece, esclude questa forma di confezionamento per i farmaci da automedicazione.

E perché?

Il senso sta proprio nel fatto che sono farmaci da automedicazione e quindi di libera vendita in farmacia; prendiamo ad esempio la classica pillola per il mal di testa: poiché è possibile che si verifichino episodi ricorrenti, la confezione contiene generalmente un numero congruo di unità posologiche da utilizzare all’occorrenza. Anche in questi casi, però, già esistono esempi di confezioni con ridotte unità posologiche.

Crede che sia riproducibile nel nostro Paese un sistema di distribuzione in base al quale il farmacista dispensa le quantità esatte di farmaco, necessarie a coprire l’intero trattamento?

Probabilmente sì. Ma va detto che un simile sistema comporta una serie di problemi. Le principali criticità sono legate ai fenomeni della manipolazione, conservazione e alle garanzie di stabilità del medicinale. Non dimentichiamo che esistono norme severe in questo senso e, generalmente, l’azienda produttrice di un farmaco è responsabile della qualità dello stesso fino al momento dello sconfezionamento. Cosa succede da questo momento in poi? Come viene gestito, manipolato e conservato? Chi si assume la responsabilità? La confezione integra fornisce tutte queste garanzie.

Ritiene sia un limite della normativa attuale?

La normativa attuale garantisce la qualità del prodotto con norme e controlli severissimi durante tutto il percorso della vita di un medicinale, dalla sua produzione fino allo sconfezionamento, conservazione, distribuzione e trasporto inclusi. Dal momento in cui il medicinale viene confezionato (e qui siamo all’utilizzo da parte del paziente) diventa difficile stabilire in quale momento si sia verificato un problema. Spesso la perdita di qualità è attribuibile ad un’errata manipolazione da parte dell’utente finale. Le norme sulla farmacovigilanza tutelano il consumatore finale da problemi legati alla qualità del farmaco e nel momento in cui il consumatore, abituale o occasionale, sconfezionando il medicinale riscontrasse una non conformità o delle anomalie deve segnalarlo immediatamente al farmacista e al medico affinché possano partire tutte le indagini del caso. Si pone, infatti, il problema della sicurezza dei lotti: quando si verifica qualsiasi tipo di problema si deve risalire al lotto di produzione che viene così posto in discussione e si effettuano tutti i controlli previsti. I controlli e le rilevazioni devono essere svolte in tempi rapidissimi e possono anche portare al ritiro del lotto dal mercato per scopi cautelativi; tali rilevazioni vengono effettuate in collaborazione stretta tra azienda farmaceutica, Ministero della salute, Agenzia del Farmaco (AIFA) e attraverso l’intervento del NAS.

Il ritiro di un farmaco dal mercato a seguito di un provvedimento dell’AIFA genera perdite economiche non indifferenti per l’azienda produttrice. Quanto incide questo sul costo finale del prodotto?

Si tratta in verità di perdite che non possono essere recuperate e che non incidono sul costo finale del medicinale. I prezzi dei farmaci dispensati attraverso il SSN vengono stabiliti per legge e negoziati con l’Agenzia Italiana del Farmaco. Il prezzo non è assolutamente legato a possibili ritiri né, a fronte di un ritiro, si può poi modificare il prezzo. I costi del ritiro, pertanto, sono delle perdite nette per le aziende farmaceutiche. Quando ci sono dei ritiri, sia per serie problematiche di farmacovigilanza (e in tal caso non si discute, il farmaco deve essere ritirato immediatamente) o per motivazioni di minore importanza (come nel caso di modifiche al foglietto illustrativo che non pregiudicano però né la validità terapeutica, né tanto meno la sicurezza d’impiego per il paziente), il farmaco deve essere distrutto. In ogni caso, il costo di questo processo incide soltanto sulle aziende farmaceutiche.

Un costo che non viene in alcun modo recuperato?

Assolutamente, no. Sottolineo, inoltre, che in media, almeno nella mia azienda, i costi di un ritiro si aggirano tra 250 e i 500 mila euro, a seconda che i prodotti siano di semplice sintesi farmaceutica o derivati biotecnologici (ed ovviamente a seconda delle quantità da portare a distruzione). Faccio anche un esempio specifico che riguarda prodotti particolari quali oppioidi, morfino-derivati, e farmaci compresi in ben definite tabelle delle sostanze psicotrope e stupefacenti e che sono sottoposti ad un regime di controllo con registri di carico e scarico e procedure di distribuzione e conservazione particolari e complesse. In questi casi, i costi aumentano notevolmente perché bisogna non soltanto monitorare tutti i passaggi nella catena della distribuzione, ma applicare al ritiro la stessa procedura di carico e scarico per il monitoraggio continuo delle quantità: un costo che è tutto a carico delle aziende. Sulla base dell’accordo inter-associativo con l’Assinde, il prodotto viene ritirato e i distributori, grossisti e farmacisti, vengono ricompensati nella misura del prezzo al pubblico vigente al momento in cui il farmaco è diventato invendibile, al netto dell’Iva e delle rispettive quote di spettanza fissate per legge. Tali farmaci ritirati vengono, quindi, avviati a smaltimento e distruzione. Si pensi, ad esempio anche ai prodotti che, per motivi di stabilità, devono viaggiare nella catena del freddo (a temperature ridotte e costantemente controllate): se la catena del freddo viene interrotta durante il ciclo di vita di questi medicinali (ad esempio durante il trasporto o la conservazione), devono essere ritirati e distrutti; ancora una volta il costo, in questo caso molto elevato, è a carico del produttore.

Indennizzare i resi farmaceutici ai distributori può incentivare una cattiva gestione degli ordini e quindi aumentare gli sprechi?

No, perché è fuori discussione la serietà di professionisti seri quali sono i farmacisti. I costi di magazzino e i continui tagli di prezzo imposti negli ultimi anni hanno molto sensibilizzato i farmacisti ad ottimizzare le scorte. Il sistema distributivo attuale permette, inoltre, di rifornire le farmacie anche due-tre volte al giorno e ciò consente l’effettivo ridimensionamento delle scorte: questo è uno dei plus del sistema distributivo italiano. Certo, se il farmaco scade, tramite il sistema di gestione dei resi, viene consegnato alla società Assinde e indennizzato, con costi a carico delle aziende farmaceutiche. Comunque, il farmacista non ha responsabilità (a meno che non abbia tenuto scorte sconsiderate) se il farmaco scade prima di essere stato dispensato: se non c’è stata richiesta o prescrizione medica perché, ad esempio, la patologia è stata assente per un certo periodo, il farmaco può scadere nello scaffale della farmacia. Certo, neanche l’azienda farmaceutica ha alcuna responsabilità, ma il danno economico lo sconta lo stesso, provvedendo al ritiro e allo smaltimento.

Come vengono utilizzati i dati che vi fornisce l’Assinde sui farmaci ritirati dal sistema di distribuzione perché scaduti o invendibili?

Ovviamente servono ai fini dell’indennizzo da corrispondere ai distributori. Di questi dati viene poi mantenuto un tracking, perché ogni ritiro è un costo per l’azienda. Si deve poi valutare anche il motivo del ritiro distinguendo il caso di modifiche al foglietto illustrativo perché sono sopravvenute nuove conoscenze scientifiche (o, a volte il cambiamento di un sito produttivo), dai casi di provvedimenti di ritiro per motivi rilevanti al fine della salute pubblica e ancora dai casi in cui il farmaco viene ritirato dalle farmacie in quanto scaduto. In ogni caso, il monitoraggio di questi dati viene tenuto in seria considerazioni affinché si ottimizzino le attività produttive producendo i quantitativi necessari a soddisfare le domande dei vari mercati evitando il più possibile gli sprechi.

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