Che ruolo gioca la farmacovigilanza nella comunicazione del rischio da parte dell’autorità sanitaria di un Paese?
Segue necessariamente l’evoluzione della farmacovigilanza stessa, cioè il passaggio ad un ruolo più attivo. La farmacovigilanza passiva, così come andò configurandosi dopo il caso talidomide – un farmaco che si dimostrò teratogeno – è stata molto attenta a fornire strumenti e sistemi integrati per registrare i casi di reazioni avverse o rilevare i segnali che permettano di identificare un farmaco come rischioso: resta ferma nell’attesa di ricevere segnali per reinterpretarli quantificandone il rischio. Questo approccio è stato spesso stravolto dai fatti perché dal momento in cui l’evento sentinella viene rilevato oltre che dall’autorità regolatoria anche dagli altri osservatori può esplodere un caso mediatico senza che ci sia stato modo di “pesare” la reazione avversa. Nelle mani dei media, infatti, il caso può esplodere indipendentemente dalla sua reale rilevanza, o dalla vera necessità di fornire indicazioni riguardo al rischio ad esso legato. Oggi siamo in un’altra fase: la farmacovigilanza non può più stare ferma, ma deve muoversi per prevenire eventuali rischi, ponendosi in una posizione non esclusivamente ricettiva.
Ad esempio?
Si è tentato di semplificare il metodo, classificando in categorie di rischio tutti i farmaci. Un’ambizione di molti ricercatori che si è rivelata vana perché le categorie elaborate presuppongono un’organizzazione consequenziale che va dal farmaco più sicuro a quello meno sicuro come se si trattasse di una variabile continua. Esistono, invece, dei vuoti di informazione riguardo i farmaci: spazi in cui mancano i dati per capire se il rischio c’è o non c’è. Ad esempio, nell’ambito dell’allattamento esistono delle categorizzazioni dei farmaci a rischio in base alle quali un farmaco è ritenuto sicuro quando sono disponibili dei dati, un po’ meno sicuro quando i dati esistenti provengono unicamente da sperimentazione su animali, poco sicuro in assenza totale di dati, non sicuro quando ci sono dati sulla pericolosità e il rischio. Il terzo punto, il caso dei farmaci poco sicuri, rappresenta una situazione in cui c’è un vuoto d’informazione. Ragionando “per categorie” si presuppone una semplificazione e si commette, inoltre, l’errore di valutare il rischio indipendentemente dal contesto: un farmaco può essere non sicuro anche solo perché è pericoloso in un contesto in cui semplicemente non dovrebbe trovarsi.
Si sta cercando di fare in modo che la farmacovigilanza non sia più solo la somma di tutte le reazioni avverse, semplificando attraverso categorizzazioni, ma inizi anche a produrre dati originali.
Spesso e volentieri i rischi si hanno in aree dove in realtà manca la ricerca, indipendentemente dal fatto che il farmaco sia o meno in commercio, perché esiste comunque una distanza tra i dati prodotti per la sua registrazione e quello che accade nella realtà. L’agenzia regolatoria, come nel caso dei nuovi farmaci per la demenza o per i disturbi cardiovascolari, sta cercando di promuovere studi di outcome research che diano maggiori indicazioni di rischio di quante ne vengano dagli attuali studi.
In una società dominata dalla "cultura della paura" che può indurre a sopravvalutare possibili rischi, il ricorso a forme di medicina alternative non può essere causato anche da un eccessivo allarme sugli effetti dei farmaci?
Si apre il discorso al tema della percezione del rischio. Partendo dal presupposto che la farmacovigilanza ha un ruolo importante nella comunicazione del rischio, essa deve fare i conti con il fatto che, a seconda del disturbo di cui si sta parlando, del tipo di terapia o del farmaco, è necessario conoscere l’utente al quale si rivolge. Il discorso, infatti, cambia se parlo di una vaccinazione in ambito pediatrico o, come emerso dall’intervista con Mastriacovo, se si tratta della comunicazione del rischio in gravidanza, oppure se si parla di farmaci di automedicazione. C’è una differenza enorme tra un farmaco largamente usato e un farmaco poco usato o indicato per una patologia rara, rispetto al quale, ad esempio, c’è un’aspettativa tale riguardo la sua efficacia da rendere trascurabili gli eventuali effetti collaterali. A seconda dei diversi casi, cambia il soggetto a cui ci si riferisce.
Al livello di percezione, le medicine alternative o i prodotti naturali partono avvantaggiati dato che il “naturale” per la maggior parte degli utenti non è dannoso. Tuttavia la morfina, l’oppio, difficilmente è percepita come naturale. Per contro, quando si pensa al farmaco chemioterapico, prodotto chimico, si immagina di assumere qualcosa di analogo al petrolio. Un’errata percezione che ha creato delle grosse incongruenze nonostante i più grossi veleni provengano dalle sostanze naturali.
Dall’altra parte, da un’analisi dei foglietti illustrativi, per verificare quanto viene detto riguardo la possibilità di assumere il medicinale nel corso dell’allattamento al seno, è emerso che circa l’80 per cento dei prodotti risulta essere controindicato e nel 17 per cento dei casi sono segnalate limitazioni nell’uso. Se a partire da questi dati si dovessero trarre delle conclusioni da un punto di vista regolatorio, allora a una donna che allatta dovrebbe essere preclusa la quasi totalità delle farmacoterapie. A mio giudizio, questo è l’esempio di un atteggiamento che non esiterei a giudicare fin troppo difensivo nei confronti dei possibili rischi da farmaci.
La comunicazione del rischio che si può correre abbandonando una terapia efficace in favore di una medicina naturale rientra nel programma dell’Agenzia Italiana del Farmaco?
Indirettamente sì. Spesso, infatti, si verifica il paradosso che chi si rivolge alle medicine naturali, al presentarsi di eventuali tossicità dei prodotti assunti, si rechi dal tossicologo.
Ad un congresso in Florida ho assistito a due sessioni sull’uso dei farmaci in gravidanza. Nella prima si discuteva dell’uso delle benzodiazepine in gravidanza e, in una situazione in cui esisteva una quantità significativa di dati, si susseguivano interventi volti a sottolineare la necessità di un’interpretazione rigorosa delle evidenze che permettesse di valutare correttamente il rischio. Nella sessione successiva si è discusso dell’uso di erbe e prodotti omeopatici in gravidanza. Le stesse persone che prima avevano spaccato il capello, richiedendo una pesatura opportuna dei dati per valutare il rischio, avevano cambiato completamente registro, e sostenevano che fosse necessario aprirsi alle nuove medicine e indispensabile non essere così restrittivi con le avvertenze di controindicazioni su prodotti naturali; il tutto in assenza di dati.
Non è giustificabile che il metodo di valutazione del rischio cambi, anche perché, senza pensare al prodotto, i diluenti dei prodotti omeopatici sono spesso prodotti alcolici; inoltre, i processi produttivi sono tutti da verificare. Un approccio corretto prevederebbe di ripartire dalla nomenclatura di base per capire cosa significhino i termini “naturale” e “alternativo”.
La decisione di interrompere la disinfezione delle sorgenti di Lima, in Perù, per timore dei danni alle persone da derivati del cloro causò, circa 15 anni fa, più di seimila morti per colera; la ricerca della sicurezza, talvolta, può comportare anch’essa dei rischi. Quanto conta l’esposizione corretta dei numeri nella valutazione e nella comunicazione del rischio per un’opportuna percezione da parte di chi legge?
Una delle regole che sta alla base di una corretta ed efficace comunicazione riguarda la necessità di comunicare i numeri: dirli bene, dirli tutti, senza mascherarli. Occorre tenere conto che se si comunica ad una persona che ha un rischio del 3% di sviluppare una determinata patologia o una malformazione congenita e si dice alla stessa persona che ha il rischio del 97% di non averla, pur dicendo la stessa cosa l’informazione ha un impatto immancabilmente diverso. Quindi se è vero che i numeri sono importanti, il problema sta nel come comunicarli. Si tratta di un problema vissuto da tutti, dagli organi regolatori all’ultimo medico, farmacista o operatore sanitario, e che si complica quando non si hanno dati quantitativi precisi: la cosa più difficile è, infatti, dichiarare la propria ignoranza al paziente che richiede un’informazione esatta.
Una sfida che si fa più complessa: un bravo comunicatore è chi comunica anche di non sapere…
La grossa sfida diventa, infatti, saper comunicare le cose che si sanno e insieme il proprio grado di incertezza; questo anche se i pazienti accettano difficilmente l’incertezza, che spesso viene fraintesa e può amplificare la percezione del rischio.
Lo scorso numero di Farmacovigilanza News ha accolto questa sfida aprendo con un editoriale che spiega come la newsletter si ponga di fronte a temi di farmacovigilanza nuovi, fra cui quello dei farmaci che, nonostante un processo di registrazione non ancora ultimato, comportano il problema di riportare dati di safety per un corretto utilizzo off-label. Il numero parla di antipsicotici atipici e antidepressivi nell’ambito pediatrico, perché ci è sembrato importante comunicare in maniera opportuna pure i pochi dati esistenti sul rischio. Anche perché è impossibile quantificare il momento in cui si raggiunge una conoscenza tale dell’argomento che possa diventare oggetto di comunicazione.
Nel regalare ai medici la Carta del rischio cardiovascolare vi siete posti il problema che una classificazione dei cittadini italiani secondo le categorie del rischio cardiovascolare possa far aumentare la domanda non appropriata di farmaci, di interventi e consulti del medico?
Ogni categorizzazione, quindi anche nell’ambito cardiovascolare, può essere un artefatto. La Carta del rischio cardiovascolare è nata proprio da una riflessione di questo tipo; ci si è resi conto che utilizzare carte del rischio basate su popolazioni americane o del Nord Europa mal si confaceva ad una realtà con una diversa storia genetica, una diversa alimentazione, ecc. Da qui è nata l’idea di abbandonare quella categorizzazione del rischio per seguire in alternativa, come suggeriscono le stesse linee-guida, la propria coorte.
Sulla base di valutazioni epidemiologico-scientifiche ci è sembrato l’approccio più razionale anche se forse non del tutto risolutivo.
Che rischi presenta?
Il rischio è che possa provocare un fraintendimento o che persone identificate attraverso la carta del rischio possano assumere il farmaco anche se non dovrebbero. Per ovviare a questo ci si è posti in una logica di intervento e di ricerca, motivo per cui la Carta del rischio esce insieme alla nota 13 ed insieme all’avvio del progetto Riace, che in maniera prospettica cerca di valutare anche come le carte del rischio verranno utilizzate, come si modificherà la prescrizione e, in futuro, come si modificheranno gli esiti.
L’idea che anima il progetto, promosso insieme a Regioni, Istituto Superiore di Sanità, associazioni scientifiche e di ricerca, e finanziato dall’Agenzia Italiana del Farmaco, è di monitorare l’iniziativa che coinvolge medici, regioni, Asl, strutture, per avere in prospettiva i dati per capire se l’intervento – la carta al medico, l’informazione, il nuovo progetto – ha cambiato il pattern prescrittivo, se si sono modificati gli utilizzatori, se si è trattato di un progetto efficace.
29 settembre 2004
In primo piano
Farmaci: non solo rischi
Che ruolo gioca la farmacovigilanza nella comunicazione del rischio da parte dell’autorità sanitaria di un Paese?
Segue necessariamente l’evoluzione della farmacovigilanza stessa, cioè il passaggio ad un ruolo più attivo. La farmacovigilanza passiva, così come andò configurandosi dopo il caso talidomide – un farmaco che si dimostrò teratogeno – è stata molto attenta a fornire strumenti e sistemi integrati per registrare i casi di reazioni avverse o rilevare i segnali che permettano di identificare un farmaco come rischioso: resta ferma nell’attesa di ricevere segnali per reinterpretarli quantificandone il rischio. Questo approccio è stato spesso stravolto dai fatti perché dal momento in cui l’evento sentinella viene rilevato oltre che dall’autorità regolatoria anche dagli altri osservatori può esplodere un caso mediatico senza che ci sia stato modo di “pesare” la reazione avversa. Nelle mani dei media, infatti, il caso può esplodere indipendentemente dalla sua reale rilevanza, o dalla vera necessità di fornire indicazioni riguardo al rischio ad esso legato. Oggi siamo in un’altra fase: la farmacovigilanza non può più stare ferma, ma deve muoversi per prevenire eventuali rischi, ponendosi in una posizione non esclusivamente ricettiva.
Ad esempio?
Si è tentato di semplificare il metodo, classificando in categorie di rischio tutti i farmaci. Un’ambizione di molti ricercatori che si è rivelata vana perché le categorie elaborate presuppongono un’organizzazione consequenziale che va dal farmaco più sicuro a quello meno sicuro come se si trattasse di una variabile continua. Esistono, invece, dei vuoti di informazione riguardo i farmaci: spazi in cui mancano i dati per capire se il rischio c’è o non c’è. Ad esempio, nell’ambito dell’allattamento esistono delle categorizzazioni dei farmaci a rischio in base alle quali un farmaco è ritenuto sicuro quando sono disponibili dei dati, un po’ meno sicuro quando i dati esistenti provengono unicamente da sperimentazione su animali, poco sicuro in assenza totale di dati, non sicuro quando ci sono dati sulla pericolosità e il rischio. Il terzo punto, il caso dei farmaci poco sicuri, rappresenta una situazione in cui c’è un vuoto d’informazione. Ragionando “per categorie” si presuppone una semplificazione e si commette, inoltre, l’errore di valutare il rischio indipendentemente dal contesto: un farmaco può essere non sicuro anche solo perché è pericoloso in un contesto in cui semplicemente non dovrebbe trovarsi.
Si sta cercando di fare in modo che la farmacovigilanza non sia più solo la somma di tutte le reazioni avverse, semplificando attraverso categorizzazioni, ma inizi anche a produrre dati originali.
Spesso e volentieri i rischi si hanno in aree dove in realtà manca la ricerca, indipendentemente dal fatto che il farmaco sia o meno in commercio, perché esiste comunque una distanza tra i dati prodotti per la sua registrazione e quello che accade nella realtà. L’agenzia regolatoria, come nel caso dei nuovi farmaci per la demenza o per i disturbi cardiovascolari, sta cercando di promuovere studi di outcome research che diano maggiori indicazioni di rischio di quante ne vengano dagli attuali studi.
In una società dominata dalla "cultura della paura" che può indurre a sopravvalutare possibili rischi, il ricorso a forme di medicina alternative non può essere causato anche da un eccessivo allarme sugli effetti dei farmaci?
Si apre il discorso al tema della percezione del rischio. Partendo dal presupposto che la farmacovigilanza ha un ruolo importante nella comunicazione del rischio, essa deve fare i conti con il fatto che, a seconda del disturbo di cui si sta parlando, del tipo di terapia o del farmaco, è necessario conoscere l’utente al quale si rivolge. Il discorso, infatti, cambia se parlo di una vaccinazione in ambito pediatrico o, come emerso dall’intervista con Mastriacovo, se si tratta della comunicazione del rischio in gravidanza, oppure se si parla di farmaci di automedicazione. C’è una differenza enorme tra un farmaco largamente usato e un farmaco poco usato o indicato per una patologia rara, rispetto al quale, ad esempio, c’è un’aspettativa tale riguardo la sua efficacia da rendere trascurabili gli eventuali effetti collaterali. A seconda dei diversi casi, cambia il soggetto a cui ci si riferisce.
Al livello di percezione, le medicine alternative o i prodotti naturali partono avvantaggiati dato che il “naturale” per la maggior parte degli utenti non è dannoso. Tuttavia la morfina, l’oppio, difficilmente è percepita come naturale. Per contro, quando si pensa al farmaco chemioterapico, prodotto chimico, si immagina di assumere qualcosa di analogo al petrolio. Un’errata percezione che ha creato delle grosse incongruenze nonostante i più grossi veleni provengano dalle sostanze naturali.
Dall’altra parte, da un’analisi dei foglietti illustrativi, per verificare quanto viene detto riguardo la possibilità di assumere il medicinale nel corso dell’allattamento al seno, è emerso che circa l’80 per cento dei prodotti risulta essere controindicato e nel 17 per cento dei casi sono segnalate limitazioni nell’uso. Se a partire da questi dati si dovessero trarre delle conclusioni da un punto di vista regolatorio, allora a una donna che allatta dovrebbe essere preclusa la quasi totalità delle farmacoterapie. A mio giudizio, questo è l’esempio di un atteggiamento che non esiterei a giudicare fin troppo difensivo nei confronti dei possibili rischi da farmaci.
La comunicazione del rischio che si può correre abbandonando una terapia efficace in favore di una medicina naturale rientra nel programma dell’Agenzia Italiana del Farmaco?
Indirettamente sì. Spesso, infatti, si verifica il paradosso che chi si rivolge alle medicine naturali, al presentarsi di eventuali tossicità dei prodotti assunti, si rechi dal tossicologo.
Ad un congresso in Florida ho assistito a due sessioni sull’uso dei farmaci in gravidanza. Nella prima si discuteva dell’uso delle benzodiazepine in gravidanza e, in una situazione in cui esisteva una quantità significativa di dati, si susseguivano interventi volti a sottolineare la necessità di un’interpretazione rigorosa delle evidenze che permettesse di valutare correttamente il rischio. Nella sessione successiva si è discusso dell’uso di erbe e prodotti omeopatici in gravidanza. Le stesse persone che prima avevano spaccato il capello, richiedendo una pesatura opportuna dei dati per valutare il rischio, avevano cambiato completamente registro, e sostenevano che fosse necessario aprirsi alle nuove medicine e indispensabile non essere così restrittivi con le avvertenze di controindicazioni su prodotti naturali; il tutto in assenza di dati.
Non è giustificabile che il metodo di valutazione del rischio cambi, anche perché, senza pensare al prodotto, i diluenti dei prodotti omeopatici sono spesso prodotti alcolici; inoltre, i processi produttivi sono tutti da verificare. Un approccio corretto prevederebbe di ripartire dalla nomenclatura di base per capire cosa significhino i termini “naturale” e “alternativo”.
La decisione di interrompere la disinfezione delle sorgenti di Lima, in Perù, per timore dei danni alle persone da derivati del cloro causò, circa 15 anni fa, più di seimila morti per colera; la ricerca della sicurezza, talvolta, può comportare anch’essa dei rischi. Quanto conta l’esposizione corretta dei numeri nella valutazione e nella comunicazione del rischio per un’opportuna percezione da parte di chi legge?
Una delle regole che sta alla base di una corretta ed efficace comunicazione riguarda la necessità di comunicare i numeri: dirli bene, dirli tutti, senza mascherarli. Occorre tenere conto che se si comunica ad una persona che ha un rischio del 3% di sviluppare una determinata patologia o una malformazione congenita e si dice alla stessa persona che ha il rischio del 97% di non averla, pur dicendo la stessa cosa l’informazione ha un impatto immancabilmente diverso. Quindi se è vero che i numeri sono importanti, il problema sta nel come comunicarli. Si tratta di un problema vissuto da tutti, dagli organi regolatori all’ultimo medico, farmacista o operatore sanitario, e che si complica quando non si hanno dati quantitativi precisi: la cosa più difficile è, infatti, dichiarare la propria ignoranza al paziente che richiede un’informazione esatta.
Una sfida che si fa più complessa: un bravo comunicatore è chi comunica anche di non sapere…
La grossa sfida diventa, infatti, saper comunicare le cose che si sanno e insieme il proprio grado di incertezza; questo anche se i pazienti accettano difficilmente l’incertezza, che spesso viene fraintesa e può amplificare la percezione del rischio.
Lo scorso numero di Farmacovigilanza News ha accolto questa sfida aprendo con un editoriale che spiega come la newsletter si ponga di fronte a temi di farmacovigilanza nuovi, fra cui quello dei farmaci che, nonostante un processo di registrazione non ancora ultimato, comportano il problema di riportare dati di safety per un corretto utilizzo off-label. Il numero parla di antipsicotici atipici e antidepressivi nell’ambito pediatrico, perché ci è sembrato importante comunicare in maniera opportuna pure i pochi dati esistenti sul rischio. Anche perché è impossibile quantificare il momento in cui si raggiunge una conoscenza tale dell’argomento che possa diventare oggetto di comunicazione.
Nel regalare ai medici la Carta del rischio cardiovascolare vi siete posti il problema che una classificazione dei cittadini italiani secondo le categorie del rischio cardiovascolare possa far aumentare la domanda non appropriata di farmaci, di interventi e consulti del medico?
Ogni categorizzazione, quindi anche nell’ambito cardiovascolare, può essere un artefatto. La Carta del rischio cardiovascolare è nata proprio da una riflessione di questo tipo; ci si è resi conto che utilizzare carte del rischio basate su popolazioni americane o del Nord Europa mal si confaceva ad una realtà con una diversa storia genetica, una diversa alimentazione, ecc. Da qui è nata l’idea di abbandonare quella categorizzazione del rischio per seguire in alternativa, come suggeriscono le stesse linee-guida, la propria coorte.
Sulla base di valutazioni epidemiologico-scientifiche ci è sembrato l’approccio più razionale anche se forse non del tutto risolutivo.
Che rischi presenta?
Il rischio è che possa provocare un fraintendimento o che persone identificate attraverso la carta del rischio possano assumere il farmaco anche se non dovrebbero. Per ovviare a questo ci si è posti in una logica di intervento e di ricerca, motivo per cui la Carta del rischio esce insieme alla nota 13 ed insieme all’avvio del progetto Riace, che in maniera prospettica cerca di valutare anche come le carte del rischio verranno utilizzate, come si modificherà la prescrizione e, in futuro, come si modificheranno gli esiti.
L’idea che anima il progetto, promosso insieme a Regioni, Istituto Superiore di Sanità, associazioni scientifiche e di ricerca, e finanziato dall’Agenzia Italiana del Farmaco, è di monitorare l’iniziativa che coinvolge medici, regioni, Asl, strutture, per avere in prospettiva i dati per capire se l’intervento – la carta al medico, l’informazione, il nuovo progetto – ha cambiato il pattern prescrittivo, se si sono modificati gli utilizzatori, se si è trattato di un progetto efficace.