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Fuori dalle macerie

L’attentato di Brindisi e il terremoto dell’Emilia sono due eventi tragici diversi nella causa, ma entrambi richiedono l’intervento di psicologi in prima linea.  Nel nostro libro sul rapporto tra adolescenti e adulti in corso di preparazione, lei racconta la sua esperienza di psicoterapeuta nella comunità colpita dal terremoto dell’Abruzzo del 2009.

Nel libro da lei citato, il mio lavoro ha come vertice di osservazione la risposta del mondo adulto al trauma degli adolescenti, in quel caso ragazzi colpiti dal terremoto. Si è trattato di un’esperienza clinica da cui ho imparato moltissimo e che, con il recente attentato alla scuola di Brindisi, mi è tornata prepotentemente in mente avendo i due eventi in comune il fatto che siano stati colpiti i giovani, nel primo caso le vittime nel crollo della Casa dello Studente, nel secondo caso una ragazza che si recava a scuola. Certamente due catastrofi diverse come tipologia, ma che fanno pensare a una frase di Partenope Bion Talamo che trovo particolarmente pregnante per far capire da dove deve partire un lavoro su traumi così prepotenti: “Sembra abbastanza probabile che il singolo individuo non possa gestire una situazione mentale in cui deve accogliere il pensiero della distruttività totale in isolamento e occorre che si affidi al gruppo, nella speranza che questo, con una funzione analoga a quella del seno originale, possa contenere ‘l’urlo’ e renderlo pensabile”. Ebbene, di fronte a questi eventi, sembra che il trauma, per poter essere elaborato, debba transitare per più contenitori successivi, per più gruppi: dal più ampio, come per esempio le Istituzioni, a quello più piccolo come la famiglia o il gruppo terapeutico.

In Abruzzo da dove siete partiti per rispondere alle richieste di aiuto dei ragazzi?

Nel nostro caso non sono stati i ragazzi direttamente interessati a chiedere aiuto, bensì le istituzioni spinti dalla necessità di proteggerli e solo in seguito, grazie ad adulti disposti ad immergersi con loro nella catastrofe e ad andare a “guardare insieme”, essi sono stati capaci di formulare la loro specifica domanda di aiuto: aver bisogno di parlare dell’accaduto. È perciò nel gruppo e grazie al gruppo che è stato fatto il lavoro di risignificazione del trauma che ha, poi, mobilitato nei ragazzi nuove risorse  e una differente consapevolezza identitaria. Il gruppo ha condiviso angoscia, ha cercato parole, ha sopportato silenzi e assenze ed ha consentito che l’esperienza traumatica divenisse pensabile e trasformativa.

Ci può riportare delle testimonianze?

Credo che la testimonianza più bella che io possa dare sia che i ragazzi abbiano capito che il tentativo di “seppellire” nella mente l’accaduto e di negarlo non aiuta l’elaborazione e non produce pensieri nuovi. In buona sostanza che “elaborare” significa essenzialmente riuscire ad immaginare un seguito.

Difficilmente i tempi necessari all’elaborazione del trauma corrispondono a quelli del ritorno alle attività quotidiane che vanno dalla scuola, al lavoro ecc. Come far conciliare i tempi per “curare” il trauma con quelli della società?

Inizialmente il trauma è a-temporale perché l’apparato psichico è annichilito di fronte a stimoli non padroneggiabili che ancora sono estranei al soggetto, poi, pian piano, il trauma viene storicizzato, cioè inscritto in una storia e con un significato per il soggetto e questo è idealmente il punto di arrivo di un lavoro terapeutico. Un lavoro lungo. Purtroppo può accadere, e nella nostra esperienza è accaduto, che l’esterno prema per un immediato ritorno alla normalità e ciò, a mio avviso, accade perché non può consentirsi di dare il posto ad emozioni e sentimenti così intensi. Spingere chi sta soffrendo a immergersi subito nella quotidianità può significare spingerlo in un luogo mentale che non corrisponde a ciò che sta vivendo internamente. Allora il “tempo” della società può riprendere solo a condizione che non neghi l’accaduto. La società, può, però, essere di aiuto in questo. Ho letto in questi giorni che nella scuola di Brindisi dove è avvenuto l’attentato è in funzione un laboratorio del libro, cioè la scuola stessa attraverso docenti e alunni scrive e produce libri. Questo è un buon esempio di come l’istituzione possa riprendere a funzionare dando spazio e voce all’accaduto.

In questi contesti, il trauma da superare riguarda sia il singolo individuo, sia la collettività colpita. Se ben elaborato il trauma, può diventare un patrimonio per tutta la collettività?

Senz’altro. Un passaggio terapeutico fondamentale si ha quando il traumatizzato passa da posizione di vittima a quello di testimone. Se si dimentica si rimane sempre vittime, invece la memoria viene mantenuta viva con la testimonianza. Nel significato letterale del termine “testimone” è colui che trasmette quanto si sa intorno ad un fatto accaduto sotto i suoi sensi ed in questo modo diventa memoria collettiva. La testimonianza attiva l’etica della responsabilità e molti studiosi di traumi collettivi oggi sostengono che le attività sociali sono un mezzo fondamentale per la guarigione.

Cosa ne pensa nello specifico del trauma vissuto dai ragazzi e dalle ragazze con l’attentato alla scuola di Brindisi?

Non conosco direttamente la situazione per cui è difficile entrare nel merito. Ho cercato di immedesimarmi nel vissuto di quei ragazzi e ho pensato a come si sia in un attimo alterata la condizione di omeostasi con l’ambiente e come sia cambiata di registro: un luogo conosciuto, rassicurante, familiare come la scuola che diventa un luogo di terrore, di morte e di violenza. È, appunto, impensabile. Ho fortemente voglia di credere e di sperare che non si identifichino con tanta violenza e che diverranno, invece, buoni cittadini impegnati nel testimoniare quanto hanno vissuto. Mi auguro che non rimangano isolati e che siano aiutati a “contenere l’urlo” e a renderlo pensabile.

Che tipo di formazione è richiesta per una appropriata gestione psicologica – nel breve e nel lungo termine – dei traumi da catastrofi naturali e da attentati terroristici? Abbiamo sufficienti risorse per rispondere ai bisogni di eventi straordinari di questa natura?

La nostra è una professione di aiuto e, quotidianamente, nella pratica clinica, affrontiamo i molteplici aspetti del trauma con i nostri pazienti. Siamo formati ad una capacità di ascolto. Nella nostra esperienza, infatti, ci siamo armati semplicemente, come ho già detto, della nostra capacità di immergerci con i ragazzi nella catastrofe e di andare a guardare, offrendo nell’immediato il gruppo di sostegno e, a chi lo ha richiesto, un supporto individuale. Ovviamente questo è stato possibile perché si trattava di piccoli numeri.

E sui grandi numeri?

Sui grandi numeri il discorso è diverso. Innanzitutto in questi ultimi anni si è registrato un cambiamento: prima il soccorso era inteso come una esclusiva competenza medica, ora si presta attenzione anche agli aspetti psicologici delle vittime, tant’è vero che l’Ordine degli Psicologi del Lazio, per esempio, ha attivo un gruppo di studio sulla psicologia dell’emergenza che ha promulgato anche delle linee guida per una buona prassi della professione. Inoltre, ha attivato protocolli di intesa con il Ministero degli Esteri per offrire un sostegno psicologico ai familiari delle vittime così come è stato richiesto un intervento per i naufraghi di Costa Crociere. Il clima culturale in materia sta profondamente cambiando.

30 maggio 2012

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