La relazione tra professionisti sanitari e paziente può influenzare la gestione del rischio clinico e l’eventuale contenzioso tra utente e strutture sanitarie; a che punto è, a suo parere, il confronto dottrinario in tema di relazione tra medico e utente dei servizi sanitari?
Per tentare di rispondere a questo interrogativo, nel mio capitolo inserito nel libro curato da Renata Cinotti ed appena pubblicato, ho ritenuto opportuno considerare la struttura del rapporto tra il medico – e gli altri professionisti sanitari – e il paziente, con particolare attenzione alla componente informativa e con lo sguardo diretto soprattutto sulla realtà ospedaliera, maggiormente gravata da complessità e criticità. Dal modello “paternalistico” – fortemente asimmetrico ed incentrato sull’affidamento del paziente al professionista – si è avuto un lento passaggio verso un modello “contrattuale o informativo” – basato sul principio, costituzionalmente garantito, di libertà della persona -, improntato al riconoscimento ed al rispetto delle determinazioni del paziente, consapevolmente fondate e validamente espresse.
Professionista – provvisto delle conoscenze tecniche e non condizionato da alterazione dello stato di salute – ed utente non possono trovarsi esattamente sullo stesso piano; il rapporto, se non verticale, sarà più o meno obliquo in rapporto all’empowerment dell’utente.
Il dibattito dottrinario etico ruota intorno all’esigenza di un recupero della relazione, da alcuni invocata come alleanza terapeutica, da altri come simpatetica, ma in ogni caso con un approccio olistico alla persona. Il fine dichiarato è di coinvolgere maggiormente l’assistito, valorizzandone il sentire, rendendolo partecipe delle conoscenze fondamentali sul proprio stato di salute ed aiutandolo a divenire protagonista delle scelte terapeutiche.
Si parla diffusamente di consenso informato; come lei spiega nel libro, la locuzione manifesta tuttavia, per un verso, ridondanza, per altro verso, incompletezza, ed al contempo dà adito ad equivoco concettuale. Può ammettersi consenso valido in carenza di informazione del paziente sull’oggetto del consentire?
Secondo la Corte di Cassazione, l’informazione:
- fa parte della buona condotta del professionista;
- costituisce vero e proprio dovere contrattuale;
- è integrativa della prestazione sanitaria;
- da una sua omissione possono derivare responsabilità professionale e pretese risarcitorie.
La negatività della risposta al precedente quesito porta al rilievo di ridondanza ed al contempo di equivocità giacché l’informazione rappresenta il supporto indefettibile del consentire. L’abbinamento terminologico può tuttavia essere funzionale alla valorizzazione della volontà del paziente, nella misura in cui attribuisce enfasi al momento informativo, vero snodo della problematica attinente alla libera determinazione della persona su tutto quel che riguarda la sfera della propria salute.
L’informativa al paziente dovrebbe essere standardizzata oppure no?
Un’informazione standardizzata ci richiama, per analogia, quella del foglietto illustrativo dei farmaci. Il farmaco può sortire effetti diversi in rapporto al substrato con cui interagisce: in tal senso, la variabilità dei risultati non si discosta da quella che può conseguire ad un trattamento non farmacologico. Una differenza sostanziale attiene, per contro, all’essenza del trattamento stesso: nell’un caso è in causa un prodotto testato ed uniforme; nell’altro un “prodotto” che, per quanto – più o meno – improntato ai dettami delle leges artis, si connota per una qualificazione soggettiva dell’artefice che lo rende unico e non uniforme.
Certamente, a parità – teorica – di situazione base del paziente, una quota della variabilità dell’operato professionale potrebbe essere ridimensionata se il sanitario:
- improntasse la propria condotta alle evidenze cliniche;
- agisse in coerenza a linee guida ampiamente condivise;
- si confrontasse con altri alla ricerca della miglior pratica.
Pur in presenza di un agire così qualificato, si affaccerebbe peraltro un ulteriore interrogativo: informazione astrattamente riferita ad un trattamento teorico – con benefici e rischi desunti da letteratura – oppure commisurata alla casistica, all’esperienza della particolare équipe o del singolo sanitario curante, nell’ottica di porre il paziente in condizione di effettuare raffronti e scelte? Seguendo la prima via, dovremmo ulteriormente chiederci a quali basi di conoscenza si riferisca il professionista che rappresenti vantaggi e svantaggi di un dato trattamento. È ragionevole dare per scontato che la best practice sia agevolmente conoscibile e sia concretamente conosciuta in maniera diffusa? Possiamo assumere che gli esiti di ricerche, studi sperimentali, rassegne casistiche siano sempre diffusi attraverso canali che ne facilitino la conoscenza? Non dimentichiamo poi le incertezze che permeano il pensiero scientifico; le discordanze tra scienziati; le verità difficilmente assolute. Se la stessa componente oggettiva presenta diversità anche considerevoli, la successiva elaborazione soggettiva potrà condurre ad esiti ancor più diversificati.
Con tale fardello di consapevolezza, affronterei l’ulteriore questione: rapporto tra i risultati esterni e quelli propri dello specifico ambito sanitario o del singolo professionista.
Ci spieghi…
Per l’assistito ha certamente interesse conoscere il quod plerumque accidit ma ancor più egli è interessato al particolare ambito sanitario a cui potrebbe decidere di affidare la cura della propria salute. D’altro canto, un’informativa circoscritta al solo specifico ambito o professionista sanitario coinvolto fornirebbe una rappresentazione di interesse immediato per il paziente ma non sufficiente a permettergli una comparazione con altri centri o altri sanitari. Il raffronto tra casistiche postula poi, quanto meno, una solida impalcatura metodologica. Da un ragionamento all’altro, si è venuta delineando una relatività del concetto stesso di contenuto informativo.
Ecco quindi che anche l’adozione di fogli illustrativi – sull’esempio dei farmaci -, ancorché possa apparire utile e garantista per il professionista, mantiene inalterata la problematicità informativa. Un ulteriore dilemma può poi concernere la veridicità, piena o attenuata, dell’informazione data.
Quanta verità trasmettere al paziente, sempre che questi voglia essere informato?
Puntare l’indice unicamente o prevalentemente sull’informativa antecedente un trattamento – specie se di breve lasso -, esigendone una completezza alla stregua della più aggiornata ed esaustiva voce enciclopedica, può fornire sicurezza al sanitario ma non apportare utilità al paziente.
Quando le informazioni siano molto dettagliate, l’effetto che le stesse producono è spesso di abbassamento della soglia di vigilanza del destinatario, né più né meno di quel accade a seguito della meticolosa lettura delle controindicazioni e degli effetti indesiderati di un farmaco. La persona comune, messa di fronte a tali e tante evenienze non auspicabili, fatica a cogliere l’entità di ciascuna di esse, per quanto corredata di puntuali dati statistici, finendo frequentemente con l’appuntare l’attenzione su elementi non significativi oppure con il trascurare in toto la portata degli svantaggi espressi. L’effetto paradossale di un’informazione ridondante nel non essenziale o abnormemente tecnica può essere l’abbandono del paziente a se stesso, sperso nel caos dei messaggi. Che senso può avere un’informazione specialistica, di livello quasi universitario, quando difettino o siano deboli le strutture conoscitive di base del destinatario?
Si invocano quindi senso della misura, equilibrio valutativo, testimoni rassicuranti di un agire oculato e degno di fiducia, al di là dell’auspicio di un innalzamento della soglia di conoscenze riguardanti la sfera della salute, per creare una base diffusa e solida che renda i pazienti più preparati ad affrontare le interazioni con chi dovrà aiutarli a risolvere i problemi, e meno facilmente suggestionabili da messaggi futili o ingannevoli. In un contesto di maggiore consapevolezza, non solo non apparirebbe eccessiva la pretesa di informazioni sullo standard di prodotto ma indispensabile per l’esercizio della facoltà di libera scelta dell’assistito.
Resta ancora da affrontare il problema della certezza di comprensione del messaggio informativo…
Non manca chi è convinto che l’unica certezza sia acquisibile facendo ripetere al paziente, con “parole sue”, quel che il sanitario gli ha spiegato. La ripetizione “a caldo” non fornisce di per sé certezza sulla fruizione del messaggio da parte del destinatario, in consonanza con l’emittente. Rilevano in proposito diversi fattori, tra cui non possiamo trascurare: intervallo temporale tra informazione e trattamento; condizione psicologica del paziente. Sono evidenti le limitazioni di un’informativa data all’indomani di un evento di disagio o dell’apprendimento di una malattia a prognosi severa oppure alla vigilia di un intervento sperato riparatore, in una condizione di stress e fragilità che non favorisce una ragionata disamina. Non ci nascondiamo che alcuni di questi argomenti hanno peraltro – troppe volte – offerto il destro a chi non aveva volontà di informare il paziente, per sostenerne la inutilità.
Ad un’informativa standardizzata è senz’altro preferibile un’informazione personalizzata che, senza travisare il messaggio, ne permetta una modulazione rispettosa del singolare fruitore.
Spostando poi l’attenzione alla componente soggettiva, è di constatazione comune che il personale convincimento del professionista riguardo alla efficacia assoluta o prevalente dell’un trattamento o dell’altro assume importanza non trascurabile.
Rileva altresì l’interpretazione che il professionista dà dei risultati, personalmente o da altri conseguiti, nell’influenzare la decisione del paziente. A parità di contenuto, la differente espressione dello stesso può sortire effetti quanto mai vari. Personalità, carisma, capacità espositiva, partecipazione alla vicenda personale del paziente, potere persuasivo sono solo alcuni degli ingredienti condizionanti il prodotto informativo finito. Non potendosi chiedere al professionista di non esternare il proprio avviso, si potrebbe ragionevolmente esigere che egli lo manifesti in modo trasparente, dando conto al contempo di altre opzioni.
La componente soggettiva del contenuto informativo è indubbiamente condizionata dall’intento dell’emittente: dalla mera enunciazione, attraverso una spiegazione mirata a far ben comprendere l’interlocutore, oppure un proposito di convincimento, fino all’espressione imperiosa, tendente ad indirizzare l’altra persona verso un determinato obiettivo.
Tralasciando l’imperatività – non occasionale compagna di un approccio paternalistico ormai in abbandono -, l’intento esplicativo, partecipato, è quello che meglio si concilia con una relazione con il paziente che infonda a questi fiducia, ponendolo nella miglior condizione per decidere.
Non ultimo: la sincerità è pagante.
Fin qui si è trattato di informativa a senso unico: dal professionista al paziente; qual è l’importanza di quella in senso opposto?
Ascoltare il paziente permette al sanitario, innanzitutto, di conoscere problemi che potrebbero condizionare il programma diagnostico-terapeutico. Oltre alla trasmissione di informazioni utili a tal fine, il valore inestimabile di uno scambio fluido e sereno tra i due interlocutori va ricercato nell’instaurarsi di un rapporto interpersonale di fiducia, di partecipazione, di alleanza, che influisce grandemente sia sul prosieguo della relazione sia sul risultato complessivo di un trattamento. Riservare al paziente tempo e disponibilità di ascolto; facilitare un clima disteso che non lo ponga a disagio, limitandone l’espressività; stimolarlo a manifestare dubbi, preoccupazioni, paure; cogliere il contesto in cui si colloca la sua particolare fase problematica; seguirlo durante l’intero iter, evitando il senso di abbandono; mantenere una dialettica aperta e franca, assumono un’importanza straordinaria.
Non ci si deve stupire se dal confronto tra i due emergano dissonanze; i punti di vista possono divergere legittimamente e ciò potrebbe dipendere sia dal fatto che il paziente ritiene di non aderire a proposta del sanitario, sia da richiesta del paziente che il sanitario ritenga – secondo scienza e coscienza- di non poter soddisfare.
Il rifiuto di trattamento da parte del paziente o il diniego di prestazione da parte del professionista possono rappresentare l’esito di un’interazione che pure sia stata corretta ed inappuntabile. L’approccio a tali problematiche non può dirsi pienamente maturo; un paziente provvisto di – seppur relativa – padronanza della situazione in cui versa viene ancora sovente “temuto” dal professionista perché più esigente e meno arrendevole.
Un siffatto paziente, per contro, potrebbe rivelarsi un prezioso collaboratore del sanitario:
per l’attenzione che pone agli eventi che gli succedono, segnalando scostamenti dall’atteso; elementi controindicanti talune pratiche;
per l’approfondimento di argomenti influenti sulle scelte di trattamento;
perché la consapevolezza acquisita gli permette di accettare o di meglio gestire situazioni oggettivamente difficili – miglior compliance;
per la sensazione che i suoi valori e le sue volontà sono rispettati, anche se non necessariamente condivisi.
Si deduce da quanto accennato quale interesse abbia la relazione paziente-sanitario per la gestione del rischio clinico.
In aggiunta al contributo che un paziente bene informato e partecipe può fornire durante il corso dei trattamenti, viene in risalto l’importanza di una buona relazione nella fase di valutazione degli esiti. Dall’esame delle segnalazioni che, negli ultimi anni, sono giunte dagli utenti o da loro rappresentanti e della casistica di contenzioso emerge un elemento comune, assolutamente dominante: una insoddisfacente relazione paziente – operatori sanitari. È esperienza comune il constatare come anche esiti non ottimali di trattamenti siano tollerati dal paziente quando buona sia stata la relazione con chi lo ha curato ed assistito. Per contro, esiti non inficiati da vizi ed attesi – oltre che illustrati al paziente – costituiscono frequentemente spunto per chiamare i sanitari a rispondere legalmente del loro operato, allorché sia mancato un buon rapporto o sia risultato inappagante per l’assistito.
L’impronta squisitamente soggettiva di tale vissuto lo sottrae alla disputa in ordine alla fondatezza delle doglianze – questione, tuttavia, non marginale e meritevole di accertamento, proprio a scopo di profilassi di situazioni affini.
22 settembre 2004
In primo piano
Gestione del rischio e relazione con i pazienti
La relazione tra professionisti sanitari e paziente può influenzare la gestione del rischio clinico e l’eventuale contenzioso tra utente e strutture sanitarie; a che punto è, a suo parere, il confronto dottrinario in tema di relazione tra medico e utente dei servizi sanitari?
Per tentare di rispondere a questo interrogativo, nel mio capitolo inserito nel libro curato da Renata Cinotti ed appena pubblicato, ho ritenuto opportuno considerare la struttura del rapporto tra il medico – e gli altri professionisti sanitari – e il paziente, con particolare attenzione alla componente informativa e con lo sguardo diretto soprattutto sulla realtà ospedaliera, maggiormente gravata da complessità e criticità. Dal modello “paternalistico” – fortemente asimmetrico ed incentrato sull’affidamento del paziente al professionista – si è avuto un lento passaggio verso un modello “contrattuale o informativo” – basato sul principio, costituzionalmente garantito, di libertà della persona -, improntato al riconoscimento ed al rispetto delle determinazioni del paziente, consapevolmente fondate e validamente espresse.
Professionista – provvisto delle conoscenze tecniche e non condizionato da alterazione dello stato di salute – ed utente non possono trovarsi esattamente sullo stesso piano; il rapporto, se non verticale, sarà più o meno obliquo in rapporto all’empowerment dell’utente.
Il dibattito dottrinario etico ruota intorno all’esigenza di un recupero della relazione, da alcuni invocata come alleanza terapeutica, da altri come simpatetica, ma in ogni caso con un approccio olistico alla persona. Il fine dichiarato è di coinvolgere maggiormente l’assistito, valorizzandone il sentire, rendendolo partecipe delle conoscenze fondamentali sul proprio stato di salute ed aiutandolo a divenire protagonista delle scelte terapeutiche.
Si parla diffusamente di consenso informato; come lei spiega nel libro, la locuzione manifesta tuttavia, per un verso, ridondanza, per altro verso, incompletezza, ed al contempo dà adito ad equivoco concettuale. Può ammettersi consenso valido in carenza di informazione del paziente sull’oggetto del consentire?
Secondo la Corte di Cassazione, l’informazione:
La negatività della risposta al precedente quesito porta al rilievo di ridondanza ed al contempo di equivocità giacché l’informazione rappresenta il supporto indefettibile del consentire. L’abbinamento terminologico può tuttavia essere funzionale alla valorizzazione della volontà del paziente, nella misura in cui attribuisce enfasi al momento informativo, vero snodo della problematica attinente alla libera determinazione della persona su tutto quel che riguarda la sfera della propria salute.
L’informativa al paziente dovrebbe essere standardizzata oppure no?
Un’informazione standardizzata ci richiama, per analogia, quella del foglietto illustrativo dei farmaci. Il farmaco può sortire effetti diversi in rapporto al substrato con cui interagisce: in tal senso, la variabilità dei risultati non si discosta da quella che può conseguire ad un trattamento non farmacologico. Una differenza sostanziale attiene, per contro, all’essenza del trattamento stesso: nell’un caso è in causa un prodotto testato ed uniforme; nell’altro un “prodotto” che, per quanto – più o meno – improntato ai dettami delle leges artis, si connota per una qualificazione soggettiva dell’artefice che lo rende unico e non uniforme.
Certamente, a parità – teorica – di situazione base del paziente, una quota della variabilità dell’operato professionale potrebbe essere ridimensionata se il sanitario:
Pur in presenza di un agire così qualificato, si affaccerebbe peraltro un ulteriore interrogativo: informazione astrattamente riferita ad un trattamento teorico – con benefici e rischi desunti da letteratura – oppure commisurata alla casistica, all’esperienza della particolare équipe o del singolo sanitario curante, nell’ottica di porre il paziente in condizione di effettuare raffronti e scelte? Seguendo la prima via, dovremmo ulteriormente chiederci a quali basi di conoscenza si riferisca il professionista che rappresenti vantaggi e svantaggi di un dato trattamento. È ragionevole dare per scontato che la best practice sia agevolmente conoscibile e sia concretamente conosciuta in maniera diffusa? Possiamo assumere che gli esiti di ricerche, studi sperimentali, rassegne casistiche siano sempre diffusi attraverso canali che ne facilitino la conoscenza? Non dimentichiamo poi le incertezze che permeano il pensiero scientifico; le discordanze tra scienziati; le verità difficilmente assolute. Se la stessa componente oggettiva presenta diversità anche considerevoli, la successiva elaborazione soggettiva potrà condurre ad esiti ancor più diversificati.
Con tale fardello di consapevolezza, affronterei l’ulteriore questione: rapporto tra i risultati esterni e quelli propri dello specifico ambito sanitario o del singolo professionista.
Ci spieghi…
Per l’assistito ha certamente interesse conoscere il quod plerumque accidit ma ancor più egli è interessato al particolare ambito sanitario a cui potrebbe decidere di affidare la cura della propria salute. D’altro canto, un’informativa circoscritta al solo specifico ambito o professionista sanitario coinvolto fornirebbe una rappresentazione di interesse immediato per il paziente ma non sufficiente a permettergli una comparazione con altri centri o altri sanitari. Il raffronto tra casistiche postula poi, quanto meno, una solida impalcatura metodologica. Da un ragionamento all’altro, si è venuta delineando una relatività del concetto stesso di contenuto informativo.
Ecco quindi che anche l’adozione di fogli illustrativi – sull’esempio dei farmaci -, ancorché possa apparire utile e garantista per il professionista, mantiene inalterata la problematicità informativa. Un ulteriore dilemma può poi concernere la veridicità, piena o attenuata, dell’informazione data.
Quanta verità trasmettere al paziente, sempre che questi voglia essere informato?
Puntare l’indice unicamente o prevalentemente sull’informativa antecedente un trattamento – specie se di breve lasso -, esigendone una completezza alla stregua della più aggiornata ed esaustiva voce enciclopedica, può fornire sicurezza al sanitario ma non apportare utilità al paziente.
Quando le informazioni siano molto dettagliate, l’effetto che le stesse producono è spesso di abbassamento della soglia di vigilanza del destinatario, né più né meno di quel accade a seguito della meticolosa lettura delle controindicazioni e degli effetti indesiderati di un farmaco. La persona comune, messa di fronte a tali e tante evenienze non auspicabili, fatica a cogliere l’entità di ciascuna di esse, per quanto corredata di puntuali dati statistici, finendo frequentemente con l’appuntare l’attenzione su elementi non significativi oppure con il trascurare in toto la portata degli svantaggi espressi. L’effetto paradossale di un’informazione ridondante nel non essenziale o abnormemente tecnica può essere l’abbandono del paziente a se stesso, sperso nel caos dei messaggi. Che senso può avere un’informazione specialistica, di livello quasi universitario, quando difettino o siano deboli le strutture conoscitive di base del destinatario?
Si invocano quindi senso della misura, equilibrio valutativo, testimoni rassicuranti di un agire oculato e degno di fiducia, al di là dell’auspicio di un innalzamento della soglia di conoscenze riguardanti la sfera della salute, per creare una base diffusa e solida che renda i pazienti più preparati ad affrontare le interazioni con chi dovrà aiutarli a risolvere i problemi, e meno facilmente suggestionabili da messaggi futili o ingannevoli. In un contesto di maggiore consapevolezza, non solo non apparirebbe eccessiva la pretesa di informazioni sullo standard di prodotto ma indispensabile per l’esercizio della facoltà di libera scelta dell’assistito.
Resta ancora da affrontare il problema della certezza di comprensione del messaggio informativo…
Non manca chi è convinto che l’unica certezza sia acquisibile facendo ripetere al paziente, con “parole sue”, quel che il sanitario gli ha spiegato. La ripetizione “a caldo” non fornisce di per sé certezza sulla fruizione del messaggio da parte del destinatario, in consonanza con l’emittente. Rilevano in proposito diversi fattori, tra cui non possiamo trascurare: intervallo temporale tra informazione e trattamento; condizione psicologica del paziente. Sono evidenti le limitazioni di un’informativa data all’indomani di un evento di disagio o dell’apprendimento di una malattia a prognosi severa oppure alla vigilia di un intervento sperato riparatore, in una condizione di stress e fragilità che non favorisce una ragionata disamina. Non ci nascondiamo che alcuni di questi argomenti hanno peraltro – troppe volte – offerto il destro a chi non aveva volontà di informare il paziente, per sostenerne la inutilità.
Ad un’informativa standardizzata è senz’altro preferibile un’informazione personalizzata che, senza travisare il messaggio, ne permetta una modulazione rispettosa del singolare fruitore.
Spostando poi l’attenzione alla componente soggettiva, è di constatazione comune che il personale convincimento del professionista riguardo alla efficacia assoluta o prevalente dell’un trattamento o dell’altro assume importanza non trascurabile.
Rileva altresì l’interpretazione che il professionista dà dei risultati, personalmente o da altri conseguiti, nell’influenzare la decisione del paziente. A parità di contenuto, la differente espressione dello stesso può sortire effetti quanto mai vari. Personalità, carisma, capacità espositiva, partecipazione alla vicenda personale del paziente, potere persuasivo sono solo alcuni degli ingredienti condizionanti il prodotto informativo finito. Non potendosi chiedere al professionista di non esternare il proprio avviso, si potrebbe ragionevolmente esigere che egli lo manifesti in modo trasparente, dando conto al contempo di altre opzioni.
La componente soggettiva del contenuto informativo è indubbiamente condizionata dall’intento dell’emittente: dalla mera enunciazione, attraverso una spiegazione mirata a far ben comprendere l’interlocutore, oppure un proposito di convincimento, fino all’espressione imperiosa, tendente ad indirizzare l’altra persona verso un determinato obiettivo.
Tralasciando l’imperatività – non occasionale compagna di un approccio paternalistico ormai in abbandono -, l’intento esplicativo, partecipato, è quello che meglio si concilia con una relazione con il paziente che infonda a questi fiducia, ponendolo nella miglior condizione per decidere.
Non ultimo: la sincerità è pagante.
Fin qui si è trattato di informativa a senso unico: dal professionista al paziente; qual è l’importanza di quella in senso opposto?
Ascoltare il paziente permette al sanitario, innanzitutto, di conoscere problemi che potrebbero condizionare il programma diagnostico-terapeutico. Oltre alla trasmissione di informazioni utili a tal fine, il valore inestimabile di uno scambio fluido e sereno tra i due interlocutori va ricercato nell’instaurarsi di un rapporto interpersonale di fiducia, di partecipazione, di alleanza, che influisce grandemente sia sul prosieguo della relazione sia sul risultato complessivo di un trattamento. Riservare al paziente tempo e disponibilità di ascolto; facilitare un clima disteso che non lo ponga a disagio, limitandone l’espressività; stimolarlo a manifestare dubbi, preoccupazioni, paure; cogliere il contesto in cui si colloca la sua particolare fase problematica; seguirlo durante l’intero iter, evitando il senso di abbandono; mantenere una dialettica aperta e franca, assumono un’importanza straordinaria.
Non ci si deve stupire se dal confronto tra i due emergano dissonanze; i punti di vista possono divergere legittimamente e ciò potrebbe dipendere sia dal fatto che il paziente ritiene di non aderire a proposta del sanitario, sia da richiesta del paziente che il sanitario ritenga – secondo scienza e coscienza- di non poter soddisfare.
Il rifiuto di trattamento da parte del paziente o il diniego di prestazione da parte del professionista possono rappresentare l’esito di un’interazione che pure sia stata corretta ed inappuntabile. L’approccio a tali problematiche non può dirsi pienamente maturo; un paziente provvisto di – seppur relativa – padronanza della situazione in cui versa viene ancora sovente “temuto” dal professionista perché più esigente e meno arrendevole.
Un siffatto paziente, per contro, potrebbe rivelarsi un prezioso collaboratore del sanitario:
Si deduce da quanto accennato quale interesse abbia la relazione paziente-sanitario per la gestione del rischio clinico.
In aggiunta al contributo che un paziente bene informato e partecipe può fornire durante il corso dei trattamenti, viene in risalto l’importanza di una buona relazione nella fase di valutazione degli esiti. Dall’esame delle segnalazioni che, negli ultimi anni, sono giunte dagli utenti o da loro rappresentanti e della casistica di contenzioso emerge un elemento comune, assolutamente dominante: una insoddisfacente relazione paziente – operatori sanitari. È esperienza comune il constatare come anche esiti non ottimali di trattamenti siano tollerati dal paziente quando buona sia stata la relazione con chi lo ha curato ed assistito. Per contro, esiti non inficiati da vizi ed attesi – oltre che illustrati al paziente – costituiscono frequentemente spunto per chiamare i sanitari a rispondere legalmente del loro operato, allorché sia mancato un buon rapporto o sia risultato inappagante per l’assistito.
L’impronta squisitamente soggettiva di tale vissuto lo sottrae alla disputa in ordine alla fondatezza delle doglianze – questione, tuttavia, non marginale e meritevole di accertamento, proprio a scopo di profilassi di situazioni affini.
22 settembre 2004