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Gestione democratica del rischio?

La cronaca degli ultimi giorni sui "moti della monnezza" a Montecorvino Rovella può essere ripresa come esempio della delicata questione della gestione del rischio e della sua percezione da parte del cittadino. In un suo editoriale pubblicato su L’Unità, lei sottolinea che per una buona gestione dei rischi ambientali in una società democratica bisogna puntare alla partecipazione del cittadino. Democratizzazione della scienza e/o democratizzazione della gestione del rischio?

È importante fare una premessa. Nell’era della conoscenza e della tecnoscienza, dove l’innovazione tecnologica avanza continuamente grazie alla produzione di conoscenza scientifica, anche i cittadini devono partecipare al processo decisionale, sia in ambito tecnico sia scientifico. Questo coinvolgimento non deve, però, essere interpretato come un atto volontaristico di alcuni "buonisti" o "populisti" che vogliano aprire, a un pubblico di non esperti, una serie di problematiche, che invece andrebbero affidate a persone esperte. In realtà, proprio per la struttura della democrazia di massa e, soprattutto, per la natura della tecnoscienza, che sempre più fa parte del divenire sociale, economico e politico, la partecipazione della popolazione è ormai un processo inevitabile: non è più possibile farne a meno. Nel parlare di gestione democratica del rischio, quindi, non intendo una vocazione volontaristica ma una realtà imprescindibile, perché in un sistema democratico i cittadini dispongono dei canali e degli strumenti per partecipare alle decisioni tecnoscientifiche.

La voce dei cittadini ha quindi un suo peso. Ne è un esempio il modello svizzero dove al cittadino viene dato potere decisionale attraverso il referendum…

Certamente. Dobbiamo riconoscere che i cittadini possono prendersi tutti gli spazi per farsi sentire: da quelli di protesta a quelli più civili quali il referendum. In Svizzera, il referendum è a tutti gli effetti uno strumento utilizzato dai cittadini anche nelle scelte che chiamano in causa la gestione del rischio. Ad esempio, non molti anni fa è stato indetto un referendum contro le biotecnologie perché una parte rilevante della popolazione svizzera riteneva che questa branca della scienza fosse pericolosa per l’ambiente e per la salute. In questo caso, se avesse vinto il no alle biotecnologie tutte le aziende del settore ubicate in Svizzera avrebbero dovuto chiudere i loro laboratori e portarli altrove per continuare a lavorare, oppure semplicemente smantellarli. In realtà, ha vinto il sì, sebbene una consistente minoranza del 40-45 per cento della popolazione svizzera fosse contraria allo sviluppo delle biotecnologie. In ogni parte del mondo la gente utilizza tutti gli strumenti e gli spazi messi a disposizione dalla democrazia per far sentire le proprie idee: in Svizzera lo strumento civile del referendum, a Montecorvino Rovella e a Scanzano la protesta di piazza se non addirittura l’interruzione di un pubblico servizio. Quest’ultima non è certamente una manovra consueta: non capita in molti paesi del mondo che quattrocento persone interrompano per tre, quattro giorni le comunicazioni ferroviarie spaccando in due il Paese.

Quali sono le decisioni che in ambito tecnoscientifico la cittadinanza – intesa nel suo complesso – vuole prendere?

In questo ambito, le istanze a cui i non esperti partecipano per prendere decisioni rilevanti sono moltissime: da quelle politiche (in parlamento e al governo, nei consigli comunali e regionali) a quelle tecniche (le agenzie per l’ambiente, le ASL, le associazioni non governative che promuovono ricerca scientifica e biomedica). Si riconoscono, quindi, innumerevoli istanze dove gruppi di persone fanno delle scelte che avranno un impatto sullo sviluppo della scienza e della tecnologia. A livello di ampia cittadinanza, i grandi settori dove la gente chiede di partecipare e vuole, con grande lucidità e fermezza, dire la propria, è appunto l’area del rischio.

Quali rischi vengono maggiormente percepiti dalla popolazione?

Sono tutti quei rischi ambientali e/o sanitari, dove la fonte del rischio non è sotto il nostro controllo diretto. La gente avverte molto meno del dovuto il rischio del fumo, perché si tratta di un pericolo per la salute che può essere controllato dal singolo individuo. Oppure, un esempio più eclatante è il rischio “automobile” che viene percepito molto meno rispetto a quello delle vipere, sebbene il primo sia causa, in Italia, di 5 mila morti sulle strade e il secondo di uno ogni due, tre anni. Ebbene, la gente ha molto più paura del rettile che non del veicolo: quest’ultimo, infatti, è sotto il controllo della persona stessa o, comunque, si dà fiducia a chi guida che, per la maggior parte delle volte, è un parente o un conoscente fidato. Pertanto, il rischio controllabile viene dilatato e sottostimato, mentre il rischio percepito come un problema in mano ad altri, e quindi non più controllabile, viene sovrastimato. Ed è per questa ragione che se di punto in bianco una società decidesse di mettere un’antenna per telefonini in prossimità di un palazzo, la maggior parte degli inquilini protesterebbe, a meno che non fosse il culmine di un negoziato svoltosi tra chi vuole mettere l’antenna e tutti gli abitanti del palazzo. I cittadini non accettano la possibilità che altri (Stato, Regione, Comune o anche Istituzioni) abbiano il potere di imporre un rischio vero o presunto anche minimo; i cittadini vogliono dire la propria. Ma quando alla base della partecipazione non vi è la consapevolezza della popolazione che può prendere decisioni in merito, allora la stessa partecipazione può sfociare in forme di protesta che in Italia diventano particolarmente estreme.

Come è stato il caso di Montecorvino Rovella…

In questa forma di protesta ciò che mi meraviglia non sono le quattrocento persone che a Montecorvino Rovella hanno bloccato i binari, ma il fatto che l’interruzione dei binari in Campania si sia ripetuta decine e decine di volte da gennaio ad oggi; e magari, per meno tempo e su tratte meno importanti, non avrebbe raggiunto la stampa e i telegiornali nazionali. La protesta adottata a Montecorvino Rovella rievoca le vecchie forme di protesta soprannominate dai francesi jaquerie, che sono di fatto dei reclami spontanei e forti, ma che durano lo spazio di un mattino. Ci troviamo davanti a una vecchia tradizione che si innesta in un problema più attuale, come è accaduto del resto anche a Scanzano, in Basilicata, dove si sono sollevate le proteste con blocchi stradali e ferroviari proprio perché la popolazione non era stata interpellata sul sito di stoccaggio dei rifiuti radioattivi.

Ma una protesta consapevole deve presupporre una formazione ed educazione del cittadino nonch una fiducia nelle istituzioni. A chi questo delicato compito?

Premesso che la richiesta di partecipazione è inderogabile e che gli strumenti per farlo non mancano, il problema della gestione del rischio diventa una questione di comunicazione che deve muovere da più parti: dalle istituzioni, dagli scienziati esperti, che devono rivolgersi alla società, e infine dai mass media. Il problema relativo alla comunicazione istituzionale nasce ogni qualvolta, come è avvenuto a Montecorvino, le istituzioni non adottano una strategia di comunicazione preventiva, cioè di informazione ai cittadini, prima di intraprendere una certa azione, innescando un meccanismo partecipativo nella definizione della scelta.

Ci può fare un esempio pratico?

Un buon esempio è la gestione del rischio sismico, rispetto al quale l’Italia e altri paesi occidentali hanno acquisito nel tempo una buona organizzazione tecnica. Al tempo del terremoto dell’Irpinia e della Basilicata del 1980 non esisteva in Italia un sistema di protezione civile e, quindi, non avevamo la capacità di affrontare efficacemente i rischi legati alla catastrofe naturale. La gestione del terremoto fu un vero disastro, tanto da indurre il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, ad andare in televisione per scusarsi a nome delle Istituzioni, ma anche per protestare a nome del Paese. Grazie anche a quelle proteste l’Italia si diede un sistema di protezione civile che fu operativo nel caso del terremoto dell’Umbria, nella seconda metà degli anni ’90. La Protezione Civile in Umbria diede un buona prova di gestione dell’emergenza. Il guaio è che la stampa nazionale e locale non se ne accorse. Sebbene la Protezione Civile avesse bene agito, la stampa sostenne che i sistemi di intervento erano carenti, e spesso oppose ai comunicati ufficiali dei ministeri le voci popolari e di scienziati presunti. Pertanto il caso fu negativo dal punto di vista informativo, sebbene da quello istituzionale le cose fossero andate bene.

Perch questa ambiguità tra comunicazione di massa e istituzionale?

Semplicemente per il motivo che lo Stato aveva organizzato un sistema di protezione civile per affrontare l’emergenza, ma aveva tralasciato uno dei pilastri fondanti nella gestione dell’emergenza che è rappresentato proprio dalla comunicazione rivolta alla popolazione interessata e al resto della nazione. Proprio a causa dell’assenza di un canale di comunicazione istituzionale rivolto all’esterno, e del conseguente caos informativo che l’accompagna, è mancata una corretta informazione sulla reale gestione dell’emergenza ed è stata danneggiata la stessa gestione tecnica del rischio. Questa esperienza insegna che una cattiva comunicazione istituzionale può creare dei disagi da non sottovalutare. In situazioni di emergenza la gestione del rischio deve essere accompagnata da una gestione della comunicazione del rischio da parte delle istituzioni che, attraverso una campagna di informazione molto intensa, devono richiedere la co-participazione dei cittadini.

Quale il ruolo invece dei produttori di conoscenza e di tecnologia?

Scienziati e tecnici del complesso sistema della tecnoscienza, che produce anche rischi o percezione di rischi, devono contribuire alla divulgazione non istituzionale della scienza, della tecnologia e dei rischi associati, e sentirsi attivamente impegnati. Come prima cosa devono acquisire la cultura della comunicazione e della sua necessità, e capire quali sono i meccanismi attraverso i quali si svolge la comunicazione di massa, se vogliono parteciparvi in modo efficace (per loro). In diversi paesi stranieri – Stati Uniti e Gran Bretagna – è invalso l’uso che per ogni progetto tecnoscientifico attivato una quota dei finanziamenti deve andare all’addestramento del personale alla comunicazione.

E la stampa libera come informa il cittadino?

Nel caso della stampa libera o laica, il problema è molto più complesso perché non c’è niente e nessuno che possa controllare le modalità attraverso cui i mezzi di comunicazione di massa fanno informazione; di fatto non esiste un centro di comando, ma un numero infinito di mezzi di comunicazione che, indipendentemente l’uno dall’altro, si muovono, così che gestirli non risulta alla portata di nessuno, nemmeno del direttore della singola testata. Non è dunque un sistema controllabile in modo deterministico, veloce e preciso.

Come puntare allora a una corretta informazione?

Con lo sviluppo e la diffusione della cultura della buona informazione. Indubbiamente è un percorso lento e faticoso che avrà mille contraddizioni, improvvise impennate e repentine cadute ma non vedo altre vie… La richiesta della qualità della comunicazione non può che venire dalla società, che deve saper selezionare, nel mare di informazioni, chi fa corretta comunicazione e premiarlo.

E puntare alla professionalità di chi fa comunicazione?

L’aumento del tasso di professionalità dei giornalisti è un problema da affrontare nella gestione della comunicazione del rischio. Si tratta, comunque, di un processo in fase di evoluzione nel nostro Paese, come dimostra il crescere del numero di scuole specializzate per la formazione del comunicatore della scienza, quale il Master di Trieste. Le persone che escono da questo tipo di formazione professionale, da un lato dovrebbero essere riconosciute e selezionate per la loro specializzazione, dall’altro dovrebbero loro stesse creare una rete di comunicatori scientifici al fine di diffondere il bisogno di buona comunicazione scientifica e di fondare una sorta di “lobbying” nel mondo della comunicazione. È brutto parlare di lobby, ma solo così aumenterebbe il peso specifico dei giornalisti scientifici all’interno di un giornale e, soprattutto, ci sarebbero maggiori possibilità di essere selezionati per la propria specializzazione. Cosa non ancora facile nel nostro Paese, dove la tendenza del giornale è di prendere persone capaci di fare tutto, occupandosi di qualsiasi argomento, quando invece c’è bisogno di una tasso di specializzazione elevato.

La comunicazione corretta è certamente buona cosa nella gestione del rischio, ma quando intervengono conflitti di interessi la macchina della comunicazione si inceppa, e di esempi non ne mancano (caso di Marghera, la SARS, la mucca pazza, ecc.).

Una cosa è la fisiologia del sistema, cioè come dovrebbe funzionare la macchina della comunicazione, un’altra cosa sono le patologie dimenticate. È chiaro che se si crea un sistema fisiologico che funziona bene, allora le patologie possono essere minimizzate ma non annullate, perché (fortunatamente) viviamo in una società piena di interessi legittimi che possono confliggere e senza queste contraddizioni il sistema crollerebbe. Quindi, tutti gli organi del sistema – istituzioni e scienziati, giornalisti, cittadini – svolgono un ruolo speciale di controllo reciproco quando i conflitti di interessi legittimi si scontrano tra di loro. Quando il sistema funziona tutti diventano controllori di tutti, abbattendo così il tentativo di mancanza di trasparenza che è il peggior male possibile per tutti anche per chi lo propone.

La mancanza di trasparenza è forse un’arma a doppio taglio…

Sì, e si può ritorcere contro l’ente, l’azienda o il progetto che l’ha promossa. Ne è un esempio l’industria del tabacco che proprio per avere taciuto, in passato, i rischi del fumo sta passando, ora, momenti difficili negli Stati Uniti dove la cultura anti-fumo è ormai radicata. La SARS è costata cara ai cinesi, in termini umani, per la mancanza di trasparenza, e anche gli inglesi hanno pagato costi altissimi per il caso BSE. La trasparenza dovrebbe venire prima di tutto, ma possono esserci casi come quelli sopra citati, dove si opta per la strategia della non trasparenza. Ebbene alcune volte la strategia può funzionare, perché le cose vengono messe a tacere e non se ne parla più, ma spesso accade il contrario, per fortuna: un altro dei soggetti partecipanti al sistema, l’opinione pubblica, svolge molte volte una funzione di peer review delle notizie e delle informazioni diffuse; questo costringe molto spesso le istituzioni, o altre parti in causa, a rivedere la proprie posizioni di non trasparenza, come d’altronde è successo a Scanzano.

Chi ha fatto da controllore in questo caso?

Nella definizione del sito per i rifiuti nucleari erano stati fatti dei passaggi tecnici insufficienti e la popolazione, mobilitando tecnici ed esperti intorno a questo problema, da cui era direttamente colpita, ha svolto una sorta di peer review di massa che ha portato alla luce delle problematiche tecniche, occultate inconsciamente per ignoranza o per cattiva fede. Quando il sistema fisiologico è molto forte, quando la democrazia funziona e la comunicazione diventa sempre più fondamentale, allora anche le patologie possono essere minimizzate. Non ci illudiamo che scompaiano, ma cerchiamo di minimizzarle per evitare che diventino delle vere pandemie… Vi è poi un altro elemento per la massima trasparenza nel sistema di ricerca biomedico, già molto diffuso negli Stati Uniti e sentito dai ricercatori: dichiarare apertamente se lo studio è finanziato dall’industria privata farmaceutica. Ma il conflitto di interessi non riguarda solo le aziende, gli scienziati oppure gli Stati, intacca anche i giornalisti…

Proprio chi dovrebbe scoprire gli altarini…

Purtroppo sì, come ci ha insegnato il New York Times lo scorso anno. Il caso Blair ha, infatti, dimostrato che il giornalismo poteva sì costituire il quarto potere che controlla per conto della cittadinanza, ma che con il tempo la capacità investigativa dei giornalisti e la voglia di ricoprire il ruolo di quarto potere poteva venire un po’ meno. Per il New York Times è successo che, con l’esaurirsi di questo ruolo sociale del giornalismo, era stato dato sempre più spazio ad un rampante giovane giornalista che si inventava di sana pianta le notizie che pubblicava. Ma poi è scattata la denuncia che ha indotto il direttore del giornale a dimettersi oltre che a cacciare il giovane giornalista. Anche qui il caso ha fatto scandalo. Queste curve cambiano, quindi, pendenza e direzione in funzione di quello che succede e degli scandali che ne emergono. Quindi, nella gestione del conflitto di interessi la mancanza di controllo esercitato dai mass media costituisce un grosso problema, così come la rinuncia del giornalista a «farsi» quarto potere è uno dei problemi più seri. In questa fase storica, purtroppo, gli editori, in tutto il mondo occidentale, hanno una serie di interessi affinch l’indipendenza del giornalismo venga appartata; inoltre, si sta diffondendo una cultura di giornalismo embedded come abbiamo visto nella guerra in Iraq, dove i giornalisti inviati occidentali andavano in guerra insieme ai soldati nei reparti di prima linea, in teoria per vedere da vicino, in pratica per fare della comunicazione propagandistica da parte dell’esercito (per un giornalista, la cui vita dipende dal comandante del carro armato, è assai difficile scrivere qualcosa contro di lui mentre è molto più facile che diventi un amico!). Il giornalismo embedded, entrato anche nel mondo della tecnoscienza, è uno dei mali peggiori della comunicazione, insieme a quello della mancanza di una specializzazione del giornalista che deve avere una buona base conoscitiva per sviluppare un atteggiamento critico.

Quando il giornalismo italiano di inchiesta ha assolto egregiamente questo ruolo di controllo e di corretta comunicazione del rischio, magari scovando degli interessi occulti?

In Italia, l’esempio più forte di comunicazione indipendente, anche se alla fine ha rischiato di degenerare in ideologismo, è stata la vicenda di Mani pulite. In questo caso, molti dei giornalisti che se ne sono occupati hanno deciso di giocare una partita completamente indipendente in cui si appoggiava la magistratura. Il giornalismo di inchiesta, in assoluto, in Italia non è mai stato molto forte, e in questa fase delle vere e proprie inchieste indipendenti – in cui non sono coinvolti n l’uno n l’altro dei soggetti contendenti – non ne vedo, mentre vedo di più un giornalismo molto ideologico e schierato, poco indipendente e critico.

Per concludere… in questa sua visione della macchina della comunicazione del rischio domina una vena di ottimismo o di pessimismo?

Abbastanza pessimistica per quanto riguarda la condizione contingente. Credo che in Italia, come negli altri paesi, le cose possano andare meglio, ma il problema è che sia la scienza sia l’innovazione tecnologica nel sistema dei media, per ragioni diverse, stanno subendo un’evoluzione in cui le spinte verso la segretezza sono più forti e quelle verso la trasparenza più deboli che in passato. Speriamo che prima o poi il bisogno di trasparenza, che del resto è stato fondamento della scienza europea 400 anni fa, e di comunicazione pubblica indipendente finiscano per prevalere…

 

21 luglio 2004

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