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Gestire il rischio riduce le “cause”

Secondo Quinto Tozzi è valida l’equazione medicina difensiva = medicina inappropriata. Va da sé che, secondo quest’analisi, i costi dovuti alla medicina difensiva siano i costi della sua stessa inappropriatezza. Qual è a riguardo il suo punto di vista?

In tutti i Paesi sviluppati si osserva un aumento delle azioni legali nei confronti dei medici (in Italia si stimano oltre 15.000 azioni legali all’anno) e un aumento della frequenza e del valore medio dei danni reclamati. A fronte di tali fenomeni il medico reagisce acquistando una copertura assicurativa (i cui premi sono peraltro in continuo aumento: negli Usa il premio medio è stimato a 12 mila dollari all’anno) e/o fornendo cure eccessive ai suoi pazienti, eccessive nel senso di sproporzionate rispetto ai benefici che possono produrre. E quando il costo delle cure è sopportato da un “terzo pagante” (nel nostro caso il Servizio sanitario nazionale), il medico non ha alcun incentivo a evitare prescrizioni inappropriate. Anzi, il sovra utilizzo di prestazioni ha lo scopo di documentare la diligenza, la capacità professionale e gli approfondimenti clinici adottati dal medico nella cura del paziente. Di qui la rilevanza della medicina difensiva e l’inappropriatezza di molti consumi sanitari.
La medicina difensiva è quindi inappropriata perché prescritta esclusivamente al fine di tutelare il medico contro il rischio di azioni legali e non nell’interesse del paziente.
Il problema è tanto più grave quanto più i comportamenti difensivi sono diffusi e, quindi, rischiano di diventare lo standard di riferimento per la pratica clinica o per giudicare l’incapacità professionale in sede legale. Le conseguenze sulla spesa sanitaria sono duplici: aumenta il numero delle prestazioni erogate e aumenta il costo delle coperture assicurative che i medici sottoscrivono per tutelarsi contro il rischio di azioni legali.

Quali sono i danni maggiori dell’inappropriatezza delle prescrizioni sui bilanci regionali? Può fornire qualche dato sui costi?

E’ difficile stimare i costi della medicina difensiva. Uno studio condotto negli Usa qualche anno fa stimava in circa 8 miliardi di dollari il risparmio potenzialmente realizzabile ogni anno, attraverso l’introduzione di strumenti volti a contenere le prescrizioni “difensive”. Per l’Italia non esistono stime. Non va peraltro dimenticato che la medicina difensiva non comporta solo costi, ma può comportare anche rischi per il paziente.
Analogamente, l’inappropriatezza non è legata solo alla medicina difensiva; incidono anche le pressioni dal lato dell’offerta e la forte domanda dei pazienti, spesso per semplici motivi di rassicurazione.

Quali iniziative dovrebbero essere messe in atto a livello politico perché l’appropriatezza diventi un vincolo per chi prescrive?

L’inappropriatezza legata alla medicina difensiva potrebbe essere affrontata attraverso strategie di gestione del rischio. Il modo più efficace per ridurre i rischi di contenzioso legale, senza ricorrere alla medicina difensiva, è prevenire i rischi e garantire la sicurezza dei pazienti. Ciò è possibile attraverso il miglioramento continuo delle capacità professionali degli operatori sanitari, una maggiore capacità di coinvolgere il paziente nelle decisioni che lo riguardano (anche informandolo in modo adeguato rispetto ai rischi e ai benefici che potrebbero derivare da un dato trattamento), una attenta segnalazione e valutazione degli errori che inevitabilmente si verificano e un’analisi dei possibili interventi preventivi, una migliore relazione medico – paziente, perché ciò che spesso induce il paziente ad attivare un contenzioso è la sensazione di essere stato trattato anonimamente, di non aver ricevuto le informazioni e le spiegazioni necessarie. Il fenomeno delle azioni legali deve essere considerato anche una spia del difficile rapporto medico paziente.
Vi indico infine un ultimo aspetto. L’aumento del contenzioso è in parte effetto della crescente offerta di tutela legale da parte degli avvocati, alla ricerca di un mercato ancora poco sviluppato nel nostro Paese. Il fenomeno è ampiamente noto (e studiato) nel mondo statunitense, meno in Italia, ma certamente sta svolgendo un ruolo non marginale.
Più in generale, il problema dell’appropriatezza è una questione di sistema di incentivi e conflitti di interesse. Se le strutture o gli operatori sono incentivati a produrre di più o hanno interessi diretti all’aumento di alcuni trattamenti, l’attenzione all’appropriatezza non può che essere minore.
Va peraltro ricordato che il mondo sanitario ha sviluppato nel corso degli ultimi anni un’attenzione ai temi dell’appropriatezza che non ha eguali nei decenni precedenti, anche se tarda a produrre risultati rilevanti.

Perché non esiste un sistema di valutazione delle strutture sanitarie basato su criteri di trasparenza, come ad esempio classifiche che comunichino ai cittadini i dati su un determinato intervento e relativi risultati?

Devono essere considerati due aspetti. Il primo ha a che vedere con la validità dei dati e la complessità della loro interpretazione. Non è facile confrontare dati appartenenti a strutture molto diverse, con case mix diversi e operanti in contesti molto differenti. Il rischio, più volte paventato da chi contrasta tale forma di trasparenza, è che i dati possano fornire informazioni ambigue, difficilmente interpretabili o addirittura causa di confusione o distorsione. Il caso classico portato ad esempio è il tasso di mortalità in cardiochirurgia; molto spesso i più alti tassi di mortalità non sono indice di minore qualità del trattamento erogato, bensì di maggiore complessità della casistica trattata. Di qui il rischio di giudicare preferibile una struttura che svolge attività di bassa complessità, rispetto ad una struttura specialistica, che proprio per questo tratta anche pazienti gravi.
Il secondo aspetto riguarda la scarsa tendenza alla diffusione delle informazioni in campo medico. Vero è che il singolo cittadino non riuscirà mai a prendere decisioni senza l’aiuto del medico, ma è certo che le persone vogliono sempre più poter decidere dopo aver ricevuto tutte le informazioni possibili, a partire dalla numerosità della casistica trattata nei singoli reparti.

La partita elettorale si gioca in gran parte sulla gestione regionale della sanità. Come mettere d’accordo coalizioni di partito quando queste mostrano le proprie falle proprio sul terreno della salute pubblica? Che Sanità dobbiamo aspettarci dopo le prossime elezioni?

La Sanità è la più importante voce di spesa delle Regioni, ed è al contempo il settore che tocca più da vicino il benessere di ogni singola persona. Dovrebbe costituire quindi uno dei punti fondamentali del programma di governo dei candidati alla presidenza di una regione. Non sempre è così. Il tema della sanità è spesso considerato troppo sensibile e delicato per essere affrontato in modo chiaro in un programma di governo. Spesso i programmi elettorali si limitano ad affermazioni generiche e scontate, evitando argomenti più impegnativi e rischiosi. Basterebbe per la verità un solo importante impegno programmatico: adoperarsi per migliorare il funzionamento della sanità pubblica nell’interesse della generalità delle persone.

 

3 febbraio 2010

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