La medicina difensiva consiste nel comportamento di quei medici che, per mettersi al riparo da possibili contenziosi con i malati, prescrivono tutto: dagli esami agli screening ai medicinali. Poco importa se servono o no, se funzionano o meno… Abbiamo aperto un dibattito sul “gioco” in difesa nella medicina di oggi. Voi cosa ne pensate?
Partecipate al dibattito inviando un commento.
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Inviato il: 15.04.2010@11:49
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Una questione non adeguatamente evidenziata a proposito degli aspetti assicurativi riguarda il caso di trial, a mio parere non etici, che considerano un braccio con placebo anche se esiste un intervento di nota efficacia. Tali trial si organizzano per ragioni più di mercato (drogato: vedi il caso delle “me too drugs”) che per esigenze di conoscenza e di sanità pubblica. La persona esposta casualmente al placebo ci si aspetta che abbia un danno per la mancanza dell’intervento tradizionale e in tal caso non è sostenibile la tesi che comunque, partecipando al trial, riceverebbe cure più accurate. Poiché tali trial si fanno nonostante i protocolli di Helsinki (che, guarda caso, alcuni premono vengano modificati in senso di maggiore libertà nell’uso del placebo anche in presenza di interventi tradizionali efficaci), credo che il problema dell’assicurazione si ponga in modo molto serio.
Per citare due trial non etici basta ricordare quello riguardante i vaccini acellulari antipertosse e quello relativo alla terapia antiretrovirale ridotta per la riduzione della trasmissione verticale dell’infezione HIV, trial promossi e finanziati da agenzie internazionali “prestigiose”. Al tempo, molti scelsero il comportamento delle tre scimmiette.
Riguardo l’intervista a Perucci, concordo pienamente che la valutazione migliora il sistema. Aggiungo che è essenziale scegliere alcuni indicatori di processo, di risultato e di esito ed analizzarli per condizione sociale (basterebbe il livello di istruzione). Quando esistono differenziali per condizione sociale, si può stare certi che la qualità è inferiore rispetto al caso di assenza di differenziali, non solo in generale e per i worst off, ma anche per i better off. In effetti, la sanità pubblica ha ragione di esistere se, e soltanto se, è in grado di ridurre gli effetti sulla salute delle diseguaglianze sociali. Ciascuna persona della comunità può avere un’idea della qualità dei sistemi che operano per la promozione e a tutela della salute, anche semplicemente verificando se esistono differenziali per condizione sociale di opportuni indicatori di processo, di risultato e di esito. E si dovrebbe promuovere la public health literacy, perché a livello individuale è teoricamente impossibile sapere se è stata garantita la migliore qualità, non esistendo la possibilità della prova contro fattuale. Per inciso, il corrispettivo delle tasse che i cittadini pagano non è semplicemente l’accessibilità alle prestazioni, ma la qualità (e Perucci ha brillantemente evidenziato perché la semplice customer satisfaction può essere fuorviante e foriera di danno). E la qualità può essere apprezzata solo a livello di comunità, valutando gli indicatori generali e specifici per condizione sociale. I better off hanno tutto l’interesse, per quanto detto, che gli indicatori siano buoni anche per i worst off. Si può dimostrare che la salute di ciascuna persona dipende dalla salute di tutte le altre, l’esempio luminoso della eradicazione del vaiolo è una dimostrazione della validità di tale assunto. La progressione delle tasse per reddito trova così un valido fondamento.
Per i professionisti, la valutazione è lo strumento essenziale per l’aggiornamento professionale e per il progresso delle conoscenze. Solo con la valutazione, opportunamente condotta, si può controllare l’eccesso di spesa sanitaria conseguente l’impiego di interventi inappropriati o inutili (e, in quanto potenzialmente dannosi, produttori di ulteriore sofferenza e consumo inappropriato di risorse). Solo con la valutazione riferita alla comunità, e da questa conosciuta (public health literacy) con l’attenzione ai differenziali per condizione sociale, si può porre un freno alla medicina difensiva. Solo con la valutazione, che può essere fatta se c’è stata valida programmazione operativa, verrebbero immediatamente alla luce i tentativi di truffa. Solo con la valutazione, seguente una valida programmazione, si può impostare e valutare l’attività di educazione continua (ECM).
M.G.
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Inviato il: 10.03.2010@22:52
Da: un lettore di Va’ Pensiero
La medicina difensiva è ormai presente in tutti i Paesi, con una differenza banale: in Italia, e lo sanno anche i sassi (i cani non li cito perché sono troppo acculturati rispetto allo standard medio) le carriere si fanno con la politica, altre manfrine ed altre disponibilità, mai con la cultura (di base e d’aggiornamento).
Non ho mai sentito finora qualcuno che invochi garanzie relative a questo particolare modo di fare cultura (di base!!) infatti tutti sanno tutto su tutto (d’altronde qui c’è il Papa, erede di Cristo) ma ci sono anche le assicurazioni che sono interessate direttamente,molto direttamente, alla massa di ricorsi e reclami che sorgono dalla massa dolente degli assistiti (invano!!).
Più cresce il numero dei reclami e più le assicurazioni godono! Più l’assistenza è formalmente corretta ma sostanzialmente inefficace per sedare la fame di soccorso e più le assicurazioni trovano ristoro alla loro frenetica fame di quattrini. Il circolo, vizioso per noi ma molto virtuoso per loro, continua ad autoalimentarsi e non credo che qualcuno voglia porvi mano, ma basterebbe la spada di Alessandro Magno.
G. V.
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Inviato il: 25.02.2010@07:42
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Personalmente NON credo che il medico parli poco con il paziente perché non ha tempo.
Penso invece che questo succeda per cause "culturali", legate soprattutto alla formazione e agli esempi forniti con regolarità agli studenti da parte dei loro maestri.
Lo stesso problema sta assumendo dimensioni sempre maggiori anche per la professione infermieristica per la quale invece, a mio avviso, la causa tempo non disponibile conseguente la carenza di infermieri risulta sicuramente determinante.
G. R.
gestione del rischio clinico
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Inviato il: 12.02.2010@15:26
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Parafrasando V. de Moraes potremmo dire che "La medicina è l’arte dell’incontro". Incontro fra saperi, fra poteri, fra persone, un sistema molto complesso e molto ben rappresentato dal collega Quinto Tozzi e dall’epidemiologo di Treviso e dagli altri colleghi intervenuti. La "struttura che connette", quindi la comunicazione e la relazione dal livello più semplice delle singole persone a quello tra sottosistemi e sistemi è il punto critico. I punti di contatto sono quelli che consentono il passaggio di informazioni, ipotesi, prescrizioni, istruzioni, emozioni ed è la relazione che consente questo passaggio e lo caratterizza dandogli un senso. Ciò di cui si parla dalla fiducia, all’empowerment, alla narrazione, al paternalismo è frutto di modalità diverse di gestire le relazioni, queste ultime sono il vero tessuto connettivo del sistema. Nei punti di contatto può avvenire la condivisione o la contrapposizione, qui si confrontano i diversi obiettivi ben evidenziati dai colleghi. Ma il tessuto connettivo che tiene insieme il sistema è soggetto a processi flogistici, degenerativi e anche neoplastici già a partire dai percorsi universitari. Nei sistemi così complessi non vi sono soluzioni semplici ed è rischioso semplificare i termini della questione ma da qualche parte occorre iniziare a cambiare qualcosa. Per questo sostengo che un primo cambiamento può partire dagli operatori del sistema che dovrebbero dotarsi di strumenti di ricerca, di controllo e di correzione dei processi comunicativi e di strumenti più raffinati della buona volontà per gestire le relazioni in modo più efficace e sistemico.
Cordiali saluti,
M. G.
dirigente medico nefrologia
counsellor sistemico
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Inviato il: 04.02.2010@13:32
Da: un lettore di Va’ Pensiero
A mio avviso i comportamenti che si ascrivono alla "medicina difensiva" includono fenomeni diversi. Oggi, per prima cosa, non esiste una sola medicina; intendendo per "medicina" la relazione terapeutica. Tutti possiamo evidenziare che ne esistono di sostanzialmente diverse. Questa è a mio avviso una delle chiavi di lettura delle diverse probabilità di ricevere un avviso di garanzia o una querela tra i professionisti.
Non possiamo fermarci ad osservare il fenomeno nella sua superficie, sulle sue conseguenze, prendendo per buone analisi sommarie. Servono stratificazione della questione, analisi dei determinanti e fattoriale. Secondo me non esiste la "medicina difensiva". Ed ora lo motivo.
La medicina è costituita soprattutto dai suoi paradigmi scientifici e socioculturali, dalle relazioni terapeutiche nella sua pratica, dalla coesione di chi la vive, dalla percezione dei risultati, dal capitale di fiducia che lega i vari attori del sistema alla popolazione, dalla sua delega di ciò che essa percepisce come "salute".
Il capitale di fiducia è forse, la cosa più importante. Il suo spezzarsi revoca la delega ed innesca dinamiche conflittuali, anche indipendentemente da fatti specifici negativi. Esso è influenzato da fattori relativi all’offerta di servizi, alla domanda e allo “scenario”.
Partiamo dai fattori in cui prevalgono le dinamiche relative all’offerta. Essi investono ambiti professionali, organizzativi, scientifici, economici, politici e di comunicazione. Le politiche professionali delle diverse aree specialistiche sono uno di questi. Ad esempio i ginecologi tendono a creare aspettative molto alte tra le loro clienti in termini di risultato. Inoltre, realizzano politiche che promuovono la medicalizzazione di gravidanza e fisiologia femminile. Questo da una parte giustifica dal punto di vista del mercato il willingness to pay delle donne, alimentando un fiorente mercato. Ma vi è un lato più sgradevole, che si manifesta quando tali aspettative, oramai sociali, non vengono soddisfatte. Se alla delega non corrisponde il risultato promesso s’innesca un meccanismo di rivalsa. Ed è solo un esempio.
La prova inversa è che alcuni professionisti con un elevatissimo tasso di insuccessi terapeutici (penso ad esempio ai chirurghi con un’elevata casistica di neoplasie maligne della testa del pancreas o del terzo inferiore dell’esofago) hanno, al contrario, una bassa probabilità d’incorrere in querele, pur con risultati limitati in termini di sopravvivenza dei pazienti e con risultati terapeutici inevitabilmente limitati.
Vi sono poi dei fattori che riguardano direttamente l’organizzazione sanitaria e meccanismi economici: il sistema basato sulle prestazioni o sulla presa in carico (del problema o del paziente) tende a differenziare due sottopopolazioni con un ben diverso rischio di contenzioso con i pazienti. I colleghi, quali i medici di medicina generale (presa in carico del paziente) o gli oncologi (presa in carico del problema) hanno una probabilità ben più bassa.
Un altro importante fattore associato alla struttura è la sua immagine, per lo più oggi derivata dal marketing: la struttura percepita come affidabile ha un minor tasso di contenziosi a pari casistica e a pari attese del paziente. Il suo sistema di qualità e d’accoglienza del paziente, di gestione delle sue istanze, di inclusione del suo punto di vista sono pure fattori di rilievo. Nell’ambito privatistico e non solo si aggiungono le pressioni dell’amministrazione verso obiettivi di tipo economico: l’ortopedico che è spinto a fare protesi d’anca anche a pazienti anziani ed obesi, diabetici e con comorbosità rilevanti correrà dei rischi maggiori di eventi indesiderati, soprattutto infettivi. Anche perché le cliniche private, non di rado, mettono in secondo piano aspetti di sistema, quali le politiche per il controllo delle infezioni ospedaliere. Tali aspetti, infatti, non incidono a breve termine sulla qualità percepita e generano costi non indifferenti, soprattutto per strutture di piccole dimensioni.
Sempre sul lato dell’offerta, non va trascurato che gli studi clinici, oggi, sono spesso uno strumento di marketing delle industrie sanitarie. Un medico, inoltre, difficilmente farà carriera se non è appoggiato dall’industria, in quanto avrà scarsi fondi e reti relazionali per poter pubblicare sulle riviste scientifiche, sarà escluso dalle lobby politico-economiche, avrà scarse contropartite da gestire nella sua rete di relazioni professionali e sociali.
Un fattore strutturale è la pressione del “marketing professional-istituzionale”, non di rado pianificata da chi ha interessi nell’ambito e che in genere, per far aumentare la domanda di mercato, usa la leva dell’esagerazione dei problemi e crea allarme di popolazione. Questo si inserisce nelle politiche di lobbing del mercato globale, fortemente "finanziarizzato", dove i grossi gruppi finanziari programmano le loro politiche operando in modo trasversale. Un caso eclatante lo abbiamo avuto con l "epidemia d’influenza A": in casi come questi, i professionisti "perdono la faccia", credibilità ed autorevolezza. Questo consente ottimi risultati nel breve termine, nel caso specifico in termini di budget industriale, ma intaccano il capitale di credibilità della categoria, diminuendo la fiducia nel target. Gli esempi sono molti. Quello del "caso della pandemia d’influenza A" caratterizza bene il fenomeno dello scollamento tra l’ "autorità sanitaria" e la popolazione. Non dimentichiamo il "fenomeno Di Bella": le caratteristiche della delega data dalla gente alla "scienza", al "corpo scientifico" ed ai professionisti che lo rappresentano hanno cambiato i loro connotati con il finire del secolo passato. Dobbiamo rivedere le chiavi di lettura tradizionali.
La valenza dell’operato dei professionisti ha pure degli effetti: la diminuzione drastica del personale amministrativo nelle strutture pubbliche fa sì che medici e personale sanitario debbano fare le attività amministrative. Questo non causa solo una perdita di risorse qualificate, ma ha implicazioni sulla percezione del paziente, il quale associa alle carte, ai timbri, agli archivi, eccetera, dei significati simbolici di "burocrazia", generando una percezione ambivalente ed equivoca dell’operato del personale sanitario. Ciò è estremamente negativo. I due ambiti debbono essere ben separati, come ben sanno nelle cliniche USA. Questo è un problema di tipo manageriale ed organizzativo, che apparentemente non ha nulla a che vedere con la gestione del rischio quando la si valuti con superficialità. Ad un’analisi seria appare invece evidente.
Vi sono poi, fattori relativi alla domanda di prestazioni sanitarie. Alcuni di contesto, altri più specifici. Ne elenco alcuni. Il capitale di fiducia della sanità pubblica è chiaramente intaccato quando il Ministro della Funzione pubblica definisce pubblicamente "macellai" e "fannulloni" i medici. È come se il Presidente di Confindustria dicesse che i suoi associati sono dei disonesti privi di scrupoli e degli schiavisti. Ma vi sono dinamiche più complesse: far perdere l’"identità" collettiva alle categorie professionali intacca la loro identità collettiva. Il medico-impiegato o il medico-funzionario hanno relazioni assistenziali molto diverse dal medico-clinico. Ma questo dipende solo in minima parte dalla categoria professionale.
Non ultimi intervengono fattori sociali, culturali e legati ai valori generalizzati. Il così detto "scenario". La sanità è semplicemente una funzione all’interno di una società in evoluzione, dove le reti sociali si ridefiniscono rapidamente e il capitale sociale è in diminuzione. Dal punto di vista economico è l’insieme di più segmenti di mercato, dove il peso della finanza e del suo "far soldi" è schiacciante. Vi sono aspetti più generali ed altri più specifici.
Tra le dinamiche specifiche c’è la crescita a dismisura del numero degli avvocati. In Italia ve ne sono, rispetto alla popolazione, molti più che negli altri Paesi europei. Per questi professionisti il settore della malpractice è un segmento di mercato come gli altri. Qui l’Università e le aspettative dei giovani, alimentate da frame culturali e dal marketing degli attori accademici, della scuola in genere, e del mondo della giustizia, hanno importanti ruoli.
La moltiplicazione delle "associazioni di consumatori", che invece di fare da mediatori del conflitto promuovono lo stesso, sono un altro fenomeno rilevante. Se devo trovare un parallelo lo vedo con il matrimonio, dove molte associazioni promuovono come soluzione del conflitto la sua escalation giudiziale in modo sistematico. Normalmente tra queste "associazioni" ed il mondo degli avvocati e dei consulenti dei tribunali esistono rapporti fitti e non trasparenti. E come non possiamo dare la colpa al Tribunale dei Minori sull’alta (e crescente) probabilità che un matrimonio giunga alla separazione conflittuale, così non possiamo dare la colpa alle Procure per l’escalation che avviene in sanità. E neppure ai giornalisti, che fanno semplicemente da amplificatori di un fenomeno che ha dinamiche profonde.
Soluzioni? Non si può certo chiedere la ricetta ad un semplice epidemiologo di campagna. Di certo ai professionisti della sanità ed all’autorità sanitaria e scientifica non fanno bene: la vendita della propria primogenitura per un piatto di lenticchie, l’inflazione delle prestazioni sanitarie, la mancata analisi critica e profonda del problema, l’analisi superficiale tramite slogan di fenomeni complessi, il degrado dell’editoria scientifica, alcune capitolazioni rispetto al metodo scientifico, la mancata revisione critica dei paradigmi scientifici, il mancato sviluppo dell’approccio critico nel percorso di studio dei professionisti.
G. B.
Servizio di Statistica ed Epidemiologia
Dipartimento innovazione, sviluppo e programmazione
Azienda ULSS n.9 di Treviso
………………
Inviato il: 04.02.2010@09:33
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Credo che pur nella complessità del problema, due sono i punti dai quali potrebbero partire gli operatori sanitari (fatta salva ovviamente, la competenza professionale): acquisire strumenti per gestire la relazione fra operatori e tra gli operatori, il paziente e la sua famiglia; cogliere gli incidenti comunicativi, analizzarli e apportare correzioni, individuando strumenti per la gestione delle comunicazioni. Questi sono a mio parere i punti di partenza per una più efficace gestione del rischio, tenendo presente che il 70% dei contenziosi sono conseguenza di problemi relazionali e comunicativi. In questo senso, le abilità di counselling possono essere un valido strumento di lavoro, ma dopo un iniziale apprendimento devono essere personalizzate dagli operatori all’interno del loro specifico campo di lavoro.
Cordiali saluti.
M. G.
dirigente medico
counsellor sistemico
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Inviato il: 28.01.2010@19.49
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Condivido in tutto quanto detto da Quinto Tozzi. È importante capire come tanti aspetti sono collegati in sanità. Tozzi è riuscito a farlo capire molto bene, quasi "navigando" tra un "link" e l’altro con naturalezza: dalla medicina difensiva si passa all’appropriatezza, da qui alle linee-guida, da qui alla comunicazione con i cittadini, al buon uso delle risorse pubbliche, alle liste di attesa. Un bel contributo! Grazie.
F. B.
Medico igienista
Direzione Sanitaria, Azienda USL di Modena
………………
Inviato il: 28.01.2010@13.39
Da: un lettore di Va’ Pensiero
L’appropriatezza in Medicina è intelligenza e assunzione di responsabilità; l’inappropriatezza in Medicina è ignoranza e deresponsabilizzazione della propria professionalità. Purtroppo la Medicina è una scienza dell’incertezza e un’arte della probabilità, ragion per cui in un mondo dove la scienza ha perso la sua credibilità l’arte diventa praticamente impossibile da praticare in un contesto e setting dominato dalla dura,ferrea, prosperosa legione dell’ignoranza.
M. B.
Medico di medicina generale
Specialista in Medicina interna e Medicina dello sport
………………
Inviato il: 28.01.2010@08.59
Da: un lettore di Va’ Pensiero
La medicina difensiva? Credo che sia un atteggiamento di chi non ha competenze e non vuole assumersi le responsabilità. Le conoscenze in ambito medico richiedono uno studio costante con impegno di energie, ma sopratutto chiedersi costantemente se quello che si fa è giusto! Per fare ciò bisogna avere un po’ di umiltà…
anonimo.
………………
Inviato il: 29.01.2010@01.20
Da: un lettore di Va’ Pensiero
La medicina difensiva è, nella migliore delle ipotesi, conseguenza dell’arroganza del professionista che, unto del signore e quindi dotato di potere taumaturgico (consiglio di leggere "I re taumaturghi" di Marc Bloch), ritiene di operare con l’idea che se le cose vanno bene è suo merito, mentre se vanno male è il corso della natura o colpa della persona. L’arroganza è sostenuta dall’assunzione di un modello biomedico di salute e di un modello paternalistico di relazione. L’evoluzione delle conoscenze e le continue rimesse in discussione delle "certezze" stanno a dimostrare la insostenibilità di tali paradigmi epistemologici. Calare dall’alto le proprie disposizioni e le proprie certezze assiomaticamente indiscutibili al "paziente" poteva andar bene fino a pochi decenni fa. Nell’attuale temperie chi si vede ammutolito dalla saccenteria e invitato a non pensare perché, sotto la tutela del taumaturgo, non ci sta più ad accettare il verdetto negativo del corso della natura. Si innesca allora il circuito vizioso del prescrivere tutto quello che serve per pararsi il di dietro.
Anche perché se la migliore delle ipotesi è l’arroganza del potere e l’orgasmo del dominio (Michel Foucault ha detto cose definitive al riguardo), la peggiore delle ipotesi è l’interesse a fare soldi, tanti soldi, speculando sulla sofferenza e gli esempi della speculazione criminale, dal singolo professionista alle grandi multinazionali non rimangono a lungo nascosti.
Il modello biomedico di salute esprime una rozza visione riduzionista e meccanicistica, ormai incompatibile con la consapevolezza maturata dai fisici dall’inizio del secolo scorso, che tutti i processi, in particolare i processi vitali, non sono prevedibili in modo assoluto ma vanno inquadrati in una prospettiva probabilistica in quanto caratterizzati da complessità non riducibile. I modelli sono quindi riduzioni e non verità da sottoporre sempre alla verifica sperimentale. Si impone la necessità del governo dell’incertezza.
La conseguenza è la necessità di controllare l’autoreferenzialità ineliminabile che si determina quando si traduce in domanda (e sul potere che si esprime in tale traduzione vale ancora il pensiero di Foucault) un bisogno percepito di salute, si dispone la soluzione e si decide dell’efficacia. Per non parlare delle sempre più diffuse manifestazioni di induzione di un bisogno di salute per far emergere la necessità delle domande, dal disease mongering alla promozione di interventi diagnostico terapeutici spacciati per produttori di maggiore sicurezza e/o efficacia, nonostante le prove scientifiche dicano il contrario per alcuni e per altri la sicurezza e/o l’efficacia sono date solo nei pochi casi in cui l’indicazione c’è.
Il punto è che si è nella impossibilità di valutare l’efficacia degli interventi a livello della singola applicazione per il semplice fatto che non si dispone della prova controfattuale: non si può tornare indietro e provare altre soluzioni alternative.
L’efficacia si può valutare solo confrontando gruppi e la disciplina epidemiologica trova fondamento in questa necessità. Tuttavia, la confrontabilità dei gruppi implica l’assunzione di un modello sociale di salute appena si ha contezza che i determinanti sociali siano le cause dietro la cause biologiche degli stati di sofferenza. Ma i determinanti sociali sono dicibili solo dalle persone, e ci vuole l’arte socratica della maieutica per sostenere le persone a sviluppare la competenza a dire di sé e non farsi dire. Ne consegue la necessità di adottare un modello di relazione basato sulla partecipazione e sull’empowerment. Se a un modello biomedico di salute corrisponde un modello di relazione basato sul paternalismo direttivo che mette sotto tutela le persone, a un modello sociale di salute deve corrispondere un modello di relazione basato sulla partecipazione sull’empowerment.
Aiutare le persone a parlare di sé è la prima forma di empowerment, cioè di promozione dell’autonomia, ed è il primo passo della promozione della salute (che la Carta di Ottawa del 1986 giustamente definiva come il processo reale in grado di aumentare la capacità di controllo sul proprio stato di salute delle persone e delle comunità). Oggi si parla di medicina narrativa ma se non è narrativa che medicina è? È concepibile una medicina non narrativa quando si assume un modello sociale di salute?
La valutazione dell’efficacia si rende necessaria e si deve effettuare con il metodo epidemiologico dei confronti tra gruppi per trovare ipotesi scientifiche sui fattori associati alle differenze osservate, perché la natura approssimata dei modelli che si assumono a guida dell’azione implica incertezza, dovuta alla possibile fallacia dei modelli, alle qualità delle modalità operative di applicazione e, ovviamente, alla irriducibile diversità tra le persone coinvolte. Valutare quanto l’osservato dista dall’atteso stimola riflessioni sulla qualità dei modelli operativi, sulla validità dei modelli epidemiologici assunti ed, eventualmente, dei paradigmi epistemologici che li sottendono.
Ecco che la valutazione continua dei processi reali e non soltanto nelle dimensioni sperimentali di "laboratorio" che sono caratterizzate da scarsa rappresentatività rispetto alle situazioni reali, è la modalità indispensabile per parlare di efficacia considerando indicatori che per definizione sono caratteristici delle comunità e non dell’individuo.
Quindi la qualità non si può valutare in linea di principio nella singola applicazione, ma si dimostra attraverso gli indicatori della comunità non differenti per stratificazioni sociali con l’implicazione, tutta politica, di non parlare tanto di health literacy quanto piuttosto di public health literacy perché la comunità e le persone siano validi stakeholder.
Da una parte, riconoscere nella persona competenze potenziali da far emergere, promuovere e valorizzare aumenta la possibilità di successo (a tale riguardo basterebbe riflettere sull’effetto placebo). Dall’altra, riconoscendo il diritto della persona all’ultima parola, dopo che è stato sviluppato il processo di promozione delle competenze, si è nella condizione di far prendere atto delle incertezze e, quindi, dei rischi connessi alle varie alternative in gioco, alla luce delle conoscenze scientifiche (qui risiede la competenza professionale), che sono tali perché le uniche con una probabilità nota di errore; in tali condizioni l’eventuale insuccesso può essere accettato e si evita la richiesta risarcitoria.
M.G.
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La medicina difensiva consiste nel comportamento di quei medici che, per mettersi al riparo da possibili contenziosi con i malati, prescrivono tutto: dagli esami agli screening ai medicinali. Poco importa se servono o no, se funzionano o meno… Abbiamo aperto un dibattito sul “gioco” in difesa nella medicina di oggi. Voi cosa ne pensate?
Partecipate al dibattito inviando un commento.
………………
Inviato il: 15.04.2010@11:49
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Una questione non adeguatamente evidenziata a proposito degli aspetti assicurativi riguarda il caso di trial, a mio parere non etici, che considerano un braccio con placebo anche se esiste un intervento di nota efficacia. Tali trial si organizzano per ragioni più di mercato (drogato: vedi il caso delle “me too drugs”) che per esigenze di conoscenza e di sanità pubblica. La persona esposta casualmente al placebo ci si aspetta che abbia un danno per la mancanza dell’intervento tradizionale e in tal caso non è sostenibile la tesi che comunque, partecipando al trial, riceverebbe cure più accurate. Poiché tali trial si fanno nonostante i protocolli di Helsinki (che, guarda caso, alcuni premono vengano modificati in senso di maggiore libertà nell’uso del placebo anche in presenza di interventi tradizionali efficaci), credo che il problema dell’assicurazione si ponga in modo molto serio.
Per citare due trial non etici basta ricordare quello riguardante i vaccini acellulari antipertosse e quello relativo alla terapia antiretrovirale ridotta per la riduzione della trasmissione verticale dell’infezione HIV, trial promossi e finanziati da agenzie internazionali “prestigiose”. Al tempo, molti scelsero il comportamento delle tre scimmiette.
Riguardo l’intervista a Perucci, concordo pienamente che la valutazione migliora il sistema. Aggiungo che è essenziale scegliere alcuni indicatori di processo, di risultato e di esito ed analizzarli per condizione sociale (basterebbe il livello di istruzione). Quando esistono differenziali per condizione sociale, si può stare certi che la qualità è inferiore rispetto al caso di assenza di differenziali, non solo in generale e per i worst off, ma anche per i better off. In effetti, la sanità pubblica ha ragione di esistere se, e soltanto se, è in grado di ridurre gli effetti sulla salute delle diseguaglianze sociali. Ciascuna persona della comunità può avere un’idea della qualità dei sistemi che operano per la promozione e a tutela della salute, anche semplicemente verificando se esistono differenziali per condizione sociale di opportuni indicatori di processo, di risultato e di esito. E si dovrebbe promuovere la public health literacy, perché a livello individuale è teoricamente impossibile sapere se è stata garantita la migliore qualità, non esistendo la possibilità della prova contro fattuale. Per inciso, il corrispettivo delle tasse che i cittadini pagano non è semplicemente l’accessibilità alle prestazioni, ma la qualità (e Perucci ha brillantemente evidenziato perché la semplice customer satisfaction può essere fuorviante e foriera di danno). E la qualità può essere apprezzata solo a livello di comunità, valutando gli indicatori generali e specifici per condizione sociale. I better off hanno tutto l’interesse, per quanto detto, che gli indicatori siano buoni anche per i worst off. Si può dimostrare che la salute di ciascuna persona dipende dalla salute di tutte le altre, l’esempio luminoso della eradicazione del vaiolo è una dimostrazione della validità di tale assunto. La progressione delle tasse per reddito trova così un valido fondamento.
Per i professionisti, la valutazione è lo strumento essenziale per l’aggiornamento professionale e per il progresso delle conoscenze. Solo con la valutazione, opportunamente condotta, si può controllare l’eccesso di spesa sanitaria conseguente l’impiego di interventi inappropriati o inutili (e, in quanto potenzialmente dannosi, produttori di ulteriore sofferenza e consumo inappropriato di risorse). Solo con la valutazione riferita alla comunità, e da questa conosciuta (public health literacy) con l’attenzione ai differenziali per condizione sociale, si può porre un freno alla medicina difensiva. Solo con la valutazione, che può essere fatta se c’è stata valida programmazione operativa, verrebbero immediatamente alla luce i tentativi di truffa. Solo con la valutazione, seguente una valida programmazione, si può impostare e valutare l’attività di educazione continua (ECM).
M.G.
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Inviato il: 10.03.2010@22:52
Da: un lettore di Va’ Pensiero
La medicina difensiva è ormai presente in tutti i Paesi, con una differenza banale: in Italia, e lo sanno anche i sassi (i cani non li cito perché sono troppo acculturati rispetto allo standard medio) le carriere si fanno con la politica, altre manfrine ed altre disponibilità, mai con la cultura (di base e d’aggiornamento).
Non ho mai sentito finora qualcuno che invochi garanzie relative a questo particolare modo di fare cultura (di base!!) infatti tutti sanno tutto su tutto (d’altronde qui c’è il Papa, erede di Cristo) ma ci sono anche le assicurazioni che sono interessate direttamente,molto direttamente, alla massa di ricorsi e reclami che sorgono dalla massa dolente degli assistiti (invano!!).
Più cresce il numero dei reclami e più le assicurazioni godono! Più l’assistenza è formalmente corretta ma sostanzialmente inefficace per sedare la fame di soccorso e più le assicurazioni trovano ristoro alla loro frenetica fame di quattrini. Il circolo, vizioso per noi ma molto virtuoso per loro, continua ad autoalimentarsi e non credo che qualcuno voglia porvi mano, ma basterebbe la spada di Alessandro Magno.
G. V.
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Inviato il: 25.02.2010@07:42
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Personalmente NON credo che il medico parli poco con il paziente perché non ha tempo.
Penso invece che questo succeda per cause "culturali", legate soprattutto alla formazione e agli esempi forniti con regolarità agli studenti da parte dei loro maestri.
Lo stesso problema sta assumendo dimensioni sempre maggiori anche per la professione infermieristica per la quale invece, a mio avviso, la causa tempo non disponibile conseguente la carenza di infermieri risulta sicuramente determinante.
G. R.
gestione del rischio clinico
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Inviato il: 12.02.2010@15:26
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Parafrasando V. de Moraes potremmo dire che "La medicina è l’arte dell’incontro". Incontro fra saperi, fra poteri, fra persone, un sistema molto complesso e molto ben rappresentato dal collega Quinto Tozzi e dall’epidemiologo di Treviso e dagli altri colleghi intervenuti. La "struttura che connette", quindi la comunicazione e la relazione dal livello più semplice delle singole persone a quello tra sottosistemi e sistemi è il punto critico. I punti di contatto sono quelli che consentono il passaggio di informazioni, ipotesi, prescrizioni, istruzioni, emozioni ed è la relazione che consente questo passaggio e lo caratterizza dandogli un senso. Ciò di cui si parla dalla fiducia, all’empowerment, alla narrazione, al paternalismo è frutto di modalità diverse di gestire le relazioni, queste ultime sono il vero tessuto connettivo del sistema. Nei punti di contatto può avvenire la condivisione o la contrapposizione, qui si confrontano i diversi obiettivi ben evidenziati dai colleghi. Ma il tessuto connettivo che tiene insieme il sistema è soggetto a processi flogistici, degenerativi e anche neoplastici già a partire dai percorsi universitari. Nei sistemi così complessi non vi sono soluzioni semplici ed è rischioso semplificare i termini della questione ma da qualche parte occorre iniziare a cambiare qualcosa. Per questo sostengo che un primo cambiamento può partire dagli operatori del sistema che dovrebbero dotarsi di strumenti di ricerca, di controllo e di correzione dei processi comunicativi e di strumenti più raffinati della buona volontà per gestire le relazioni in modo più efficace e sistemico.
Cordiali saluti,
M. G.
dirigente medico nefrologia
counsellor sistemico
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Inviato il: 04.02.2010@13:32
Da: un lettore di Va’ Pensiero
A mio avviso i comportamenti che si ascrivono alla "medicina difensiva" includono fenomeni diversi. Oggi, per prima cosa, non esiste una sola medicina; intendendo per "medicina" la relazione terapeutica. Tutti possiamo evidenziare che ne esistono di sostanzialmente diverse. Questa è a mio avviso una delle chiavi di lettura delle diverse probabilità di ricevere un avviso di garanzia o una querela tra i professionisti.
Non possiamo fermarci ad osservare il fenomeno nella sua superficie, sulle sue conseguenze, prendendo per buone analisi sommarie. Servono stratificazione della questione, analisi dei determinanti e fattoriale. Secondo me non esiste la "medicina difensiva". Ed ora lo motivo.
La medicina è costituita soprattutto dai suoi paradigmi scientifici e socioculturali, dalle relazioni terapeutiche nella sua pratica, dalla coesione di chi la vive, dalla percezione dei risultati, dal capitale di fiducia che lega i vari attori del sistema alla popolazione, dalla sua delega di ciò che essa percepisce come "salute".
Il capitale di fiducia è forse, la cosa più importante. Il suo spezzarsi revoca la delega ed innesca dinamiche conflittuali, anche indipendentemente da fatti specifici negativi. Esso è influenzato da fattori relativi all’offerta di servizi, alla domanda e allo “scenario”.
Partiamo dai fattori in cui prevalgono le dinamiche relative all’offerta. Essi investono ambiti professionali, organizzativi, scientifici, economici, politici e di comunicazione. Le politiche professionali delle diverse aree specialistiche sono uno di questi. Ad esempio i ginecologi tendono a creare aspettative molto alte tra le loro clienti in termini di risultato. Inoltre, realizzano politiche che promuovono la medicalizzazione di gravidanza e fisiologia femminile. Questo da una parte giustifica dal punto di vista del mercato il willingness to pay delle donne, alimentando un fiorente mercato. Ma vi è un lato più sgradevole, che si manifesta quando tali aspettative, oramai sociali, non vengono soddisfatte. Se alla delega non corrisponde il risultato promesso s’innesca un meccanismo di rivalsa. Ed è solo un esempio.
La prova inversa è che alcuni professionisti con un elevatissimo tasso di insuccessi terapeutici (penso ad esempio ai chirurghi con un’elevata casistica di neoplasie maligne della testa del pancreas o del terzo inferiore dell’esofago) hanno, al contrario, una bassa probabilità d’incorrere in querele, pur con risultati limitati in termini di sopravvivenza dei pazienti e con risultati terapeutici inevitabilmente limitati.
Vi sono poi dei fattori che riguardano direttamente l’organizzazione sanitaria e meccanismi economici: il sistema basato sulle prestazioni o sulla presa in carico (del problema o del paziente) tende a differenziare due sottopopolazioni con un ben diverso rischio di contenzioso con i pazienti. I colleghi, quali i medici di medicina generale (presa in carico del paziente) o gli oncologi (presa in carico del problema) hanno una probabilità ben più bassa.
Un altro importante fattore associato alla struttura è la sua immagine, per lo più oggi derivata dal marketing: la struttura percepita come affidabile ha un minor tasso di contenziosi a pari casistica e a pari attese del paziente. Il suo sistema di qualità e d’accoglienza del paziente, di gestione delle sue istanze, di inclusione del suo punto di vista sono pure fattori di rilievo. Nell’ambito privatistico e non solo si aggiungono le pressioni dell’amministrazione verso obiettivi di tipo economico: l’ortopedico che è spinto a fare protesi d’anca anche a pazienti anziani ed obesi, diabetici e con comorbosità rilevanti correrà dei rischi maggiori di eventi indesiderati, soprattutto infettivi. Anche perché le cliniche private, non di rado, mettono in secondo piano aspetti di sistema, quali le politiche per il controllo delle infezioni ospedaliere. Tali aspetti, infatti, non incidono a breve termine sulla qualità percepita e generano costi non indifferenti, soprattutto per strutture di piccole dimensioni.
Sempre sul lato dell’offerta, non va trascurato che gli studi clinici, oggi, sono spesso uno strumento di marketing delle industrie sanitarie. Un medico, inoltre, difficilmente farà carriera se non è appoggiato dall’industria, in quanto avrà scarsi fondi e reti relazionali per poter pubblicare sulle riviste scientifiche, sarà escluso dalle lobby politico-economiche, avrà scarse contropartite da gestire nella sua rete di relazioni professionali e sociali.
Un fattore strutturale è la pressione del “marketing professional-istituzionale”, non di rado pianificata da chi ha interessi nell’ambito e che in genere, per far aumentare la domanda di mercato, usa la leva dell’esagerazione dei problemi e crea allarme di popolazione. Questo si inserisce nelle politiche di lobbing del mercato globale, fortemente "finanziarizzato", dove i grossi gruppi finanziari programmano le loro politiche operando in modo trasversale. Un caso eclatante lo abbiamo avuto con l "epidemia d’influenza A": in casi come questi, i professionisti "perdono la faccia", credibilità ed autorevolezza. Questo consente ottimi risultati nel breve termine, nel caso specifico in termini di budget industriale, ma intaccano il capitale di credibilità della categoria, diminuendo la fiducia nel target. Gli esempi sono molti. Quello del "caso della pandemia d’influenza A" caratterizza bene il fenomeno dello scollamento tra l’ "autorità sanitaria" e la popolazione. Non dimentichiamo il "fenomeno Di Bella": le caratteristiche della delega data dalla gente alla "scienza", al "corpo scientifico" ed ai professionisti che lo rappresentano hanno cambiato i loro connotati con il finire del secolo passato. Dobbiamo rivedere le chiavi di lettura tradizionali.
La valenza dell’operato dei professionisti ha pure degli effetti: la diminuzione drastica del personale amministrativo nelle strutture pubbliche fa sì che medici e personale sanitario debbano fare le attività amministrative. Questo non causa solo una perdita di risorse qualificate, ma ha implicazioni sulla percezione del paziente, il quale associa alle carte, ai timbri, agli archivi, eccetera, dei significati simbolici di "burocrazia", generando una percezione ambivalente ed equivoca dell’operato del personale sanitario. Ciò è estremamente negativo. I due ambiti debbono essere ben separati, come ben sanno nelle cliniche USA. Questo è un problema di tipo manageriale ed organizzativo, che apparentemente non ha nulla a che vedere con la gestione del rischio quando la si valuti con superficialità. Ad un’analisi seria appare invece evidente.
Vi sono poi, fattori relativi alla domanda di prestazioni sanitarie. Alcuni di contesto, altri più specifici. Ne elenco alcuni. Il capitale di fiducia della sanità pubblica è chiaramente intaccato quando il Ministro della Funzione pubblica definisce pubblicamente "macellai" e "fannulloni" i medici. È come se il Presidente di Confindustria dicesse che i suoi associati sono dei disonesti privi di scrupoli e degli schiavisti. Ma vi sono dinamiche più complesse: far perdere l’"identità" collettiva alle categorie professionali intacca la loro identità collettiva. Il medico-impiegato o il medico-funzionario hanno relazioni assistenziali molto diverse dal medico-clinico. Ma questo dipende solo in minima parte dalla categoria professionale.
Non ultimi intervengono fattori sociali, culturali e legati ai valori generalizzati. Il così detto "scenario". La sanità è semplicemente una funzione all’interno di una società in evoluzione, dove le reti sociali si ridefiniscono rapidamente e il capitale sociale è in diminuzione. Dal punto di vista economico è l’insieme di più segmenti di mercato, dove il peso della finanza e del suo "far soldi" è schiacciante. Vi sono aspetti più generali ed altri più specifici.
Tra le dinamiche specifiche c’è la crescita a dismisura del numero degli avvocati. In Italia ve ne sono, rispetto alla popolazione, molti più che negli altri Paesi europei. Per questi professionisti il settore della malpractice è un segmento di mercato come gli altri. Qui l’Università e le aspettative dei giovani, alimentate da frame culturali e dal marketing degli attori accademici, della scuola in genere, e del mondo della giustizia, hanno importanti ruoli.
La moltiplicazione delle "associazioni di consumatori", che invece di fare da mediatori del conflitto promuovono lo stesso, sono un altro fenomeno rilevante. Se devo trovare un parallelo lo vedo con il matrimonio, dove molte associazioni promuovono come soluzione del conflitto la sua escalation giudiziale in modo sistematico. Normalmente tra queste "associazioni" ed il mondo degli avvocati e dei consulenti dei tribunali esistono rapporti fitti e non trasparenti. E come non possiamo dare la colpa al Tribunale dei Minori sull’alta (e crescente) probabilità che un matrimonio giunga alla separazione conflittuale, così non possiamo dare la colpa alle Procure per l’escalation che avviene in sanità. E neppure ai giornalisti, che fanno semplicemente da amplificatori di un fenomeno che ha dinamiche profonde.
Soluzioni? Non si può certo chiedere la ricetta ad un semplice epidemiologo di campagna. Di certo ai professionisti della sanità ed all’autorità sanitaria e scientifica non fanno bene: la vendita della propria primogenitura per un piatto di lenticchie, l’inflazione delle prestazioni sanitarie, la mancata analisi critica e profonda del problema, l’analisi superficiale tramite slogan di fenomeni complessi, il degrado dell’editoria scientifica, alcune capitolazioni rispetto al metodo scientifico, la mancata revisione critica dei paradigmi scientifici, il mancato sviluppo dell’approccio critico nel percorso di studio dei professionisti.
G. B.
Servizio di Statistica ed Epidemiologia
Dipartimento innovazione, sviluppo e programmazione
Azienda ULSS n.9 di Treviso
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Inviato il: 04.02.2010@09:33
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Credo che pur nella complessità del problema, due sono i punti dai quali potrebbero partire gli operatori sanitari (fatta salva ovviamente, la competenza professionale): acquisire strumenti per gestire la relazione fra operatori e tra gli operatori, il paziente e la sua famiglia; cogliere gli incidenti comunicativi, analizzarli e apportare correzioni, individuando strumenti per la gestione delle comunicazioni. Questi sono a mio parere i punti di partenza per una più efficace gestione del rischio, tenendo presente che il 70% dei contenziosi sono conseguenza di problemi relazionali e comunicativi. In questo senso, le abilità di counselling possono essere un valido strumento di lavoro, ma dopo un iniziale apprendimento devono essere personalizzate dagli operatori all’interno del loro specifico campo di lavoro.
Cordiali saluti.
M. G.
dirigente medico
counsellor sistemico
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Inviato il: 28.01.2010@19.49
Da: un lettore di Va’ Pensiero
Condivido in tutto quanto detto da Quinto Tozzi. È importante capire come tanti aspetti sono collegati in sanità. Tozzi è riuscito a farlo capire molto bene, quasi "navigando" tra un "link" e l’altro con naturalezza: dalla medicina difensiva si passa all’appropriatezza, da qui alle linee-guida, da qui alla comunicazione con i cittadini, al buon uso delle risorse pubbliche, alle liste di attesa. Un bel contributo! Grazie.
F. B.
Medico igienista
Direzione Sanitaria, Azienda USL di Modena
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Inviato il: 28.01.2010@13.39
Da: un lettore di Va’ Pensiero
L’appropriatezza in Medicina è intelligenza e assunzione di responsabilità; l’inappropriatezza in Medicina è ignoranza e deresponsabilizzazione della propria professionalità. Purtroppo la Medicina è una scienza dell’incertezza e un’arte della probabilità, ragion per cui in un mondo dove la scienza ha perso la sua credibilità l’arte diventa praticamente impossibile da praticare in un contesto e setting dominato dalla dura,ferrea, prosperosa legione dell’ignoranza.
M. B.
Medico di medicina generale
Specialista in Medicina interna e Medicina dello sport
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Inviato il: 28.01.2010@08.59
Da: un lettore di Va’ Pensiero
La medicina difensiva? Credo che sia un atteggiamento di chi non ha competenze e non vuole assumersi le responsabilità. Le conoscenze in ambito medico richiedono uno studio costante con impegno di energie, ma sopratutto chiedersi costantemente se quello che si fa è giusto! Per fare ciò bisogna avere un po’ di umiltà…
anonimo.
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Inviato il: 29.01.2010@01.20
Da: un lettore di Va’ Pensiero
La medicina difensiva è, nella migliore delle ipotesi, conseguenza dell’arroganza del professionista che, unto del signore e quindi dotato di potere taumaturgico (consiglio di leggere "I re taumaturghi" di Marc Bloch), ritiene di operare con l’idea che se le cose vanno bene è suo merito, mentre se vanno male è il corso della natura o colpa della persona. L’arroganza è sostenuta dall’assunzione di un modello biomedico di salute e di un modello paternalistico di relazione. L’evoluzione delle conoscenze e le continue rimesse in discussione delle "certezze" stanno a dimostrare la insostenibilità di tali paradigmi epistemologici. Calare dall’alto le proprie disposizioni e le proprie certezze assiomaticamente indiscutibili al "paziente" poteva andar bene fino a pochi decenni fa. Nell’attuale temperie chi si vede ammutolito dalla saccenteria e invitato a non pensare perché, sotto la tutela del taumaturgo, non ci sta più ad accettare il verdetto negativo del corso della natura. Si innesca allora il circuito vizioso del prescrivere tutto quello che serve per pararsi il di dietro.
Anche perché se la migliore delle ipotesi è l’arroganza del potere e l’orgasmo del dominio (Michel Foucault ha detto cose definitive al riguardo), la peggiore delle ipotesi è l’interesse a fare soldi, tanti soldi, speculando sulla sofferenza e gli esempi della speculazione criminale, dal singolo professionista alle grandi multinazionali non rimangono a lungo nascosti.
Il modello biomedico di salute esprime una rozza visione riduzionista e meccanicistica, ormai incompatibile con la consapevolezza maturata dai fisici dall’inizio del secolo scorso, che tutti i processi, in particolare i processi vitali, non sono prevedibili in modo assoluto ma vanno inquadrati in una prospettiva probabilistica in quanto caratterizzati da complessità non riducibile. I modelli sono quindi riduzioni e non verità da sottoporre sempre alla verifica sperimentale. Si impone la necessità del governo dell’incertezza.
La conseguenza è la necessità di controllare l’autoreferenzialità ineliminabile che si determina quando si traduce in domanda (e sul potere che si esprime in tale traduzione vale ancora il pensiero di Foucault) un bisogno percepito di salute, si dispone la soluzione e si decide dell’efficacia. Per non parlare delle sempre più diffuse manifestazioni di induzione di un bisogno di salute per far emergere la necessità delle domande, dal disease mongering alla promozione di interventi diagnostico terapeutici spacciati per produttori di maggiore sicurezza e/o efficacia, nonostante le prove scientifiche dicano il contrario per alcuni e per altri la sicurezza e/o l’efficacia sono date solo nei pochi casi in cui l’indicazione c’è.
Il punto è che si è nella impossibilità di valutare l’efficacia degli interventi a livello della singola applicazione per il semplice fatto che non si dispone della prova controfattuale: non si può tornare indietro e provare altre soluzioni alternative.
L’efficacia si può valutare solo confrontando gruppi e la disciplina epidemiologica trova fondamento in questa necessità. Tuttavia, la confrontabilità dei gruppi implica l’assunzione di un modello sociale di salute appena si ha contezza che i determinanti sociali siano le cause dietro la cause biologiche degli stati di sofferenza. Ma i determinanti sociali sono dicibili solo dalle persone, e ci vuole l’arte socratica della maieutica per sostenere le persone a sviluppare la competenza a dire di sé e non farsi dire. Ne consegue la necessità di adottare un modello di relazione basato sulla partecipazione e sull’empowerment. Se a un modello biomedico di salute corrisponde un modello di relazione basato sul paternalismo direttivo che mette sotto tutela le persone, a un modello sociale di salute deve corrispondere un modello di relazione basato sulla partecipazione sull’empowerment.
Aiutare le persone a parlare di sé è la prima forma di empowerment, cioè di promozione dell’autonomia, ed è il primo passo della promozione della salute (che la Carta di Ottawa del 1986 giustamente definiva come il processo reale in grado di aumentare la capacità di controllo sul proprio stato di salute delle persone e delle comunità). Oggi si parla di medicina narrativa ma se non è narrativa che medicina è? È concepibile una medicina non narrativa quando si assume un modello sociale di salute?
La valutazione dell’efficacia si rende necessaria e si deve effettuare con il metodo epidemiologico dei confronti tra gruppi per trovare ipotesi scientifiche sui fattori associati alle differenze osservate, perché la natura approssimata dei modelli che si assumono a guida dell’azione implica incertezza, dovuta alla possibile fallacia dei modelli, alle qualità delle modalità operative di applicazione e, ovviamente, alla irriducibile diversità tra le persone coinvolte. Valutare quanto l’osservato dista dall’atteso stimola riflessioni sulla qualità dei modelli operativi, sulla validità dei modelli epidemiologici assunti ed, eventualmente, dei paradigmi epistemologici che li sottendono.
Ecco che la valutazione continua dei processi reali e non soltanto nelle dimensioni sperimentali di "laboratorio" che sono caratterizzate da scarsa rappresentatività rispetto alle situazioni reali, è la modalità indispensabile per parlare di efficacia considerando indicatori che per definizione sono caratteristici delle comunità e non dell’individuo.
Quindi la qualità non si può valutare in linea di principio nella singola applicazione, ma si dimostra attraverso gli indicatori della comunità non differenti per stratificazioni sociali con l’implicazione, tutta politica, di non parlare tanto di health literacy quanto piuttosto di public health literacy perché la comunità e le persone siano validi stakeholder.
Da una parte, riconoscere nella persona competenze potenziali da far emergere, promuovere e valorizzare aumenta la possibilità di successo (a tale riguardo basterebbe riflettere sull’effetto placebo). Dall’altra, riconoscendo il diritto della persona all’ultima parola, dopo che è stato sviluppato il processo di promozione delle competenze, si è nella condizione di far prendere atto delle incertezze e, quindi, dei rischi connessi alle varie alternative in gioco, alla luce delle conoscenze scientifiche (qui risiede la competenza professionale), che sono tali perché le uniche con una probabilità nota di errore; in tali condizioni l’eventuale insuccesso può essere accettato e si evita la richiesta risarcitoria.
M.G.