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Il pediatra dei giovani adulti

La relazione adolescente-adulto: quanta attenzione viene data alla fase adolescenziale nelle cure pediatriche?

Storicamente in Italia c’è sempre stata una grande attenzione al bambino, ma non altrettanta per l’adolescente. Nella stessa formazione dei pediatri l’età adolescenziale è lasciata in secondo piano.
Eppure questa fase della crescita è delicata, complessa e richiede competenze e conoscenze specifiche, che è difficile apprendere sul campo. Credo che una maggiore competenza in materia di adolescenti sia un bisogno condiviso tra pediatri e medici in generale.

Che cosa cambia nel rapporto del pediatra con l’adolescente?

Non so dire se cambia qualcosa rispetto al passato, forse oggi c’è maggiore coscienza del fatto che si tratta di un rapporto complesso e allo stesso tempo arricchente. Gli adolescenti di oggi hanno scarsa fiducia negli adulti e quindi c’è bisogno di disponibilità all’ascolto empatico, ma anche di estremo rispetto delle loro richieste. Quando un adolescente mi racconta i suoi problemi, disagi, timori, mi sento partecipe della profondità e del pudore con cui vive i cambiamenti del suo corpo o la sua malattia, e credo che questo mi aiuti nella relazione. Ma bisogna fare attenzione a non esagerare con l’empatia, si rischia di banalizzare o, peggio, di scadere nel paternalismo. L’atteggiamento più proficuo credo sia rispettare le esigenze di una personalità in crescita e le sue peculiarità, lasciando all’adolescente il tempo per decidere quando e se comunicare col suo pediatra. Peccato che il rapporto si interrompa col pediatra proprio a 14 anni, quando si è nel pieno della evoluzione adolescenziale. Qualche volta i miei “vecchi” pazienti tornano, magari solo per parlare.

Quali sono le principali difficoltà nel costruire una relazione con il giovane paziente che fa il suo ingresso nella fase adolescenziale?

Nella mia personale esperienza riconosco due ordini di problematiche. Da un lato la necessità di confrontarsi con la scarsa di fiducia che l’adolescente spesso ha nei confronti dell’adulto, come rappresentante dell’autorità e delle regole, unitamente al desiderio di contrapporsi, di discutere e magari di rifiutare l’autorità genitoriale. Il pediatra può essere vissuto come un alter ego genitoriale e rifiutato tout court o tutt’al più ignorato. Dall’altro lato possiamo incontrare invece una condizione quasi opposta, di richiesta totale di aiuto, magari anche alle spalle del genitore. Nel primo caso ritengo sia importante cercare di far capire al ragazzo che il pediatra è prima di tutto l’advocat del suo paziente (e non del genitore), facendo bene attenzione comunque ad evitare la captatio benevolentia, che lo farebbe allontanare subito. Guadagnarsi la fiducia è complesso, io cerco di spiegare il mio ruolo nel modo più semplice, con tutti i limiti delle mie possibilità di azione, sottolineando la mia disponibilità all’ascolto, magari anche su Facebook. Nel secondo caso, la richiesta di aiuto a cui accennavo è forse ancora più complessa. Capita infatti che l’adolescente si avvicini al pediatra da solo, per chiedere aiuto per problemi che non vuole far conoscere ai genitori.

In questi casi, come rispondere alla richiesta di aiuto?

Non è semplice, innanzitutto perché il pediatra ha anche un rapporto di fiducia con i genitori, cui ottemperare. Mi è successo, ad esempio, che una mia giovane paziente credeva di essere incinta e mi ha chiesto aiuto di nascosto dai genitori. Con tutta onestà e sincerità le ho spiegato che presto o tardi avrei dovuto informarli e che se lei non era d’accordo mi sarebbe stato molto difficile aiutarla. In genere, gli adolescenti apprezzano la franchezza e così è stato: alla fine ne abbiamo ne parlato prima lei ed io e poi ho informato i genitori insieme alla ragazza. Non è stato semplice, ma alla fine tutto è andato bene.

Prima accennava alla sua disponibilità di essere contattata via email o su Facebook… I social network rappresentano dei luoghi dove prendersi cura dei propri pazienti?

Come pediatra di base ho sperimentato che la comunicazione attraverso i social network è importante perché è una possibilità in più per entrare in relazione con l’adolescente. La comunicazione verbale dell’adolescente spesso è lacunosa e, in presenza del genitore, può essere pilotata, cioè il ragazzo dice solo quello che ci si aspetta che debba dire, oppure non parla. Mi è capitato di avere pazienti in chiusura verbale totale che invece, attraverso l’“approccio virtuale”, hanno superato il blocco aprendosi e raccontando tanto di se stessi e questo è stato di aiuto per loro, per me e per i genitori. Ho potuto verificare che in questi ambiti un ragazzo è più disposto a parlare dei suoi problemi e delle sue paure. Il rapporto diventa molto diretto, ricco, coinvolgente e anche più facile. Anche in questo caso però bisogna fare attenzione ad evitare che diventi un rapporto troppo personale: il pediatra non è un altro adolescente e non è il genitore. Talvolta ho avuto bisogno di consultarmi con la collega psicologa, che lavora con me a studio, per capire come gestire situazioni in cui avevo il timore di oltrepassare questo labile confine.

Nel momento in cui il pediatra si relaziona con il paziente si interfaccia anche con il genitore che è una figura spesso conflittuale nella fase di crescita adolescenziale. In questa relazione a tre adolescente-genitore-pediatra quali sono le problematiche che si incontrano e che possono poi influire anche nel prendersi cura, nell’avviare un percorso di cura per il ragazzo con problemi psicologici o psicosi?

Un triangolo è sempre un problema e la relazione pediatra-genitore-adolescente non fa eccezione. È soprattutto una questione di sensibilità e di equilibrio. Al pediatra spetta lasciare spazio alla personalità dell’adolescente che si va formando, ma anche sostenere la figura genitoriale, anche se spesso il genitore delega: “Ti porto dal dottore che ti spiega lui come si fanno le cose”; oppure consegna direttamente al pediatra il problema che incontra con il figlio: “Guardi io non riesco a parlarci, ci parli lei, con lei magari si apre”. Se poi il ragazzo ha problemi psicologici seri la richiesta di aiuto e la sensazione di inadeguatezza diventa ovviamente più pressante. In questo caso le capacità di equilibrio e di mediazione del pediatra diventano ancora più importanti, perché entrano in gioco altre figure, essenziali per le loro competenze, come lo psicologo e il neuropsichiatra e la relazione diventa più complessa. Spesso anche il pediatra si sente inadeguato e tende alla delega, ma è un rischio da evitare, perché di fronte ad un adolescente che ha bisogno di aiuto, il risultato migliore viene solo dalla collaborazione attiva di tutti.

coverNel libro La relazione adolescenti-adulti viene sottolineata la necessità della costruzione di una rete per i ragazzi con problemi psicologici o di psicosi legati anche alla crescita o alla relazione che non funziona con l’adulto. Una rete allargata che coinvolga le diverse figure di operatori sanitari o educatori che vengono a contatto con gli adolescenti, anche i pediatri.

Condivido pienamente la necessità di una rete perché i problemi degli adolescenti non possono e non devono essere gestiti da un solo specialista, pediatra, neuropsichiatra o altro che sia. D’altro canto in tempi di crisi di budget come questi il bisogno di reti di aiuto si scontra con la scarsa disponibilità sul territorio di servizi efficienti e adeguati e di personale formato. Ci sono numerosi progetti, privati o pubblici, che funzionano piuttosto bene, ma sono una goccia nel mare. Nella mia esperienza quotidiana le reti allargate si riescono a costruire soprattutto sulla disponibilità delle persone, genitori, psicologi, neuropsichiatri e pediatri, motivate a lavorare per i loro figli e pazienti, spesso oltre la burocrazia. Certo la buona volontà personale di tutte le figure che cercano di fare rete per il sostegno dei ragazzi è fondamentale e può dare risultati brillanti, anche se è un lavoro molto faticoso. Però non è auspicabile continuare a basarsi solo su questo, vanno reperite maggiori risorse per un bisogno così diffuso e mi preme sottolineare che buona parte di queste vanno impiegate per la formazione continua delle professionalità coinvolte.

31 ottobre 2012

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