Cosa le viene in mente sentendo parlare di "rischi per la salute"?
Per cominciare, quanto siano veloci i cambiamenti culturali.
Una trentina d’anni fa, allorché a proposito di rischio si parlava di comunicazione e di prevenzione, quello che nell’immaginario collettivo dominava era il rischio ambientale. Il pubblico lo andava scoprendo attraverso due vie principali: la diffusione del pensiero ecologico (e dello stesso termine "ecologia") dall’ambito scientifico a quello più generalmente culturale; e le lotte operaie per la salute negli ambienti di lavoro, la cui nocività e pericolosità veniva resa nota al pubblico da episodi gravi o gravissimi, prevalenti nell’industria chimica (IPCA, Montedison) ed estrattiva, ma non solo in esse.
Appariva chiaro lo scontro tra due epistemologie contrapposte: da una parte l’industria tendeva a ignorare, a sottovalutare o a monetizzare il rischio in nome della competitività e del profitto; dall’altra i lavoratori diventavano via via consapevoli dell’importanza e della gravità effettiva dei rischi ambientali per la salute loro e dei loro familiari.
Trent’anni fa, il rischio era dunque visto come problema essenzialmente ambientale?
Quella ambientale era una concezione del rischio largamente diffusa, o almeno quella di cui si parlava di più. Essa aveva fautori e detrattori accesi e scatenava furiose battaglie non sempre e non solo verbali. È chiaro che una siffatta idea del rischio, e quindi della sua prevenzione, mette in discussione l’intero modello di sviluppo occidentale, che è poi quello prevalente. È facile affermare (ed è stato affermato) che interventi intesi a ridurre il rischio basati sulle linee descritte, se applicati in un solo paese, lo porterebbero fuori dal progresso, lo sospingerebbero verso un mondo arcaico e lo renderebbero di fatto succube delle nazioni sviluppate. Quindi: o nessuno o tutti; e siccome tutti non ci stanno (si vedano i tentativi fallimentari dei diversi forum sull’ambiente e le perplessità o il rifiuto da parte di molti Paesi di applicare il Protocollo di Kyoto per la salvaguardia del clima), allora nessuno. Insomma, se vogliamo il progresso "becchiamoci" i suoi effetti collaterali: in fondo nelle civiltà contadine di un tempo si viveva in media assai meno di oggi, e pure peggio: o no?
Così il peso dei fattori ambientali sui rischi legati alla salute finisce col restare sullo sfondo…
Non è che siano ignorati: i giornali ne parlano, e perfino le televisioni; e tuttavia appaiono lontani, come sfumati sullo sfondo: in ultima analisi si finisce con l’accettare i rischi ambientali come un destino inevitabile, come un prezzo da pagare al progresso. Sappiamo tutti benissimo, per fare un esempio, che l’inquinamento urbano dovuto alle automobili è un fattore di rischio molto serio, e tuttavia provate a pedonalizzare qualche strada del centro: vedrete che levata di scudi… E non ha senso moralizzare sull’egoismo dei commercianti: saremmo i primi a levarli noi stessi, gli scudi, se avessimo un negozio ben avviato in quelle strade o se ci obbligassero a usare soltanto i mezzi pubblici.
Analogamente, il modello di sviluppo che tutti accettiamo implica la produzione di scorie e di rifiuti più o meno tossici; visto che il modello nessuno lo vuole modificare, si pone il problema del trattamento e dello stoccaggio di quei materiali. Tutti d’accordo sul principio ma, intendiamoci, mica nel nostro Comune! Qualsiasi altro posto va bene, meglio ancora se nel Terzo mondo, ma qui da noi no e poi no.
Insomma il rischio è mio e lo gestisco io…
I modelli culturali sono decisamente cambiati in tre decenni; per quanto riguarda la prevenzione del rischio (e non solo) siamo passati dal livello sociale a quello individuale, perfino eccessivamente individuale: le lotte collettive per ridurre i rischi ambientali appaiono così fuori moda, così rétro, fanno tanto sessantotto, e poi i condoni sistemano tutto, le soglie di rischio si possono modificare per legge… E diciamocelo, se dobbiamo assumerci individualmente la responsabilità e la colpa dei nostri comportamenti e delle loro conseguenze in tema di salute, non si vede perché dovremmo poi accettare obblighi e intralci sull’uso della nostra automobile, no?
Abbiamo l’impressione che lei non sia d’accordo, non è vero?
Il fatto è (e anche questo è un rischio) che con lo spostamento dalla visione sociale a quella individuale si perde il senso ecologico, sistemico della stretta relazione esistente tra gli individui umani e tra uomo e ambiente; si dimentica che la nostra salute (e la nostra stessa esistenza) è indissolubilmente legata a quella di tutti gli altri, e che difendendo o danneggiando la nostra salute difendiamo o danneggiamo la salute di tutti.
Nessun uomo è un’isola…
Si, siamo tutti penisole. Intendiamoci: il pensiero liberale (e quello romantico) che afferma la centralità dell’individuo è una radice fondante della nostra cultura, e sarebbe impossibile (oltre che sciocco) rifiutarlo o negarlo. Ma quando (come avviene attualmente) l’accentuazione sui vantaggi individuali rispetto a quelli della collettività è tale da configurare una esasperata egocentrica parodia dell’autentico liberalismo, allora termini come "partecipazione" o "solidarietà" (la rivoluzionaria "fraternité", che non può essere dissociata dalla libertà e dalla eguaglianza) vengono a perdere ogni significato.
Se la parola "solidarietà" perde significato cosa accade?
Il risultato è quello che in inglese viene definito "effetto NIMBY": acronimo per "Not In My BackYard", non nel mio cortile.
Comunità alloggio? Ottima cosa, ma non nel mio cortile. Punti d’incontro per immigrati? Non nel mio cortile. Strutture di accoglienza per donne maltrattate? Giusto, purché non nel mio cortile.
Un’ipotesi gradevole, quella che i rischi si possano eliminare esportandoli in casa d’altri. Peccato che la "casa d’altri" non esista: tutti i cortili del mondo sono il nostro cortile.
È in questo contesto (e nonostante questo contesto), che nella nostra veste professionale dobbiamo comunicare sul rischio.
Cosa significherebbe riportare l’attenzione sugli aspetti ambientali e collettivi del rischio?
L’attenzione agli aspetti ambientali del rischio ha sulla cultura effetti di grande rilievo. L’ambiente non è più visto, come è stato per secoli, una semplice somma di risorse da sfruttare a vantaggio della specie umana. L’ambiente non è quindi "la casa dell’uomo": l’uomo non "abita" l’ambiente ma dell’ambiente è parte integrante, elemento costitutivo; e si evolve e si modifica assieme ad esso, in continua reciproca comunicazione. Si potrebbe dire che se l’uomo abita l’ambiente, l’ambiente abita l’uomo. Da ciò consegue una visione non più lineare ma circolare dei rapporti tra uomo e ambiente: l’uomo modifica l’ambiente e le modifiche si ripercuotono a loro volta sull’uomo, creando nuove e spesso impreviste situazioni destinate a venire a loro volta modificate in una continua mutevole danza. In una visione sistemica quale è quella ecologica, la coscienza di questa inscindibile relazione dovrebbe condurre a una cooperazione tra specie umana e ambiente, evitando una escalation conflittuale tra l’una e l’altro, potenzialmente distruttiva per ambedue.
Questo cambiamento di prospettiva favorirebbe la percezione "reticolare" dei diversi fattori che determinano il rischio?
L’identificazione dei fattori di rischio con l’obiettivo di abbatterli o almeno di ridurne l’importanza porta con sé conseguenze di notevole rilevanza sociale: il passaggio da una concezione causale a una concezione di tipo statistico probabilistico degli effetti, che deve tener conto anche dell’interazione tra fattori di rischio. Ciò significa modificare la propria visione da lineare a sistemica: un cambiamento epistemologico radicale rispetto al pensiero occidentale, tuttora legato all’idea aristotelica di causa efficiente.
La sua esperienza, così vicina alle cure primarie, cosa suggerisce a proposito dei "fattori di rischio" di cui molto si discute?
In primo luogo è necessario classificare in qualche modo i fattori di rischio per definire delle priorità di intervento. Tale classificazione può apparire più agevole allorché si valutino elementi misurabili in termini quantitativi come il clima (temperatura, umidità, ecc.) o la presenza di sostanze nocive nell’ambiente.
Esistono però altri fattori di rischio meno oggettivi ma altrettanto dannosi: si pensi alla fatica ad esempio, al furto del tempo della vita o alla percezione del malessere e del disagio che, per essere soggettiva e variabile da persona a persona, non è perciò meno pericolosa: stress e burnout esistono, e hanno serie conseguenze sulla salute fisica e mentale (ha presente Charlot in Tempi Moderni?). Quando parliamo di ambiente parliamo di tutti questi aspetti, non solo di quelli fisici.
Ci spieghi meglio…
Diventa centrale ogni intervento inteso a modificare non l’ambiente ma la relazione tra noi e l’ambiente: non più con lo scopo di sfruttarlo al massimo a nostro vantaggio ma con l’obiettivo di renderlo compatibile con la salute e con il benessere di tutti, di farlo diventare cioè, se si può dire, "amichevole". La collaborazione tra uomo e ambiente è vantaggiosa per l’uno e per l’altro, e sembra essere l’unica strada sensata percorribile.
È necessario, in questo contesto, non lasciarsi convincere dalle parole di taluni sinistri profeti di sventura che predicono, talora anche utilizzando strumenti apparentemente scientifici, l’approssimarsi di una ineluttabile apocalisse dell’umanità. Se presi alla lettera, messaggi del genere hanno effetti negativi, in quanto inducono a rinunciare ad ogni ipotesi di cambiamento, e possono spingere verso l’indifferenza o verso i molteplici più o meno pittoreschi aspetti di fuga dalla realtà.
Il rischio (è il caso di dirlo) è, come sempre, una falsa dicotomia: o la rivoluzione globale o nessun intervento. Il risultato è l’abbandono di una filosofia, quella della riduzione del rischio e del danno come azione sociale e collettiva, a favore di una concezione interamente basata sulla responsabilità individuale, proprio come nel caso delle cuffie protettive contro il rumore.
Anche da parte del cittadino è necessario, quindi, entrare nell’ottica contro tendenza di un intervento collettivo sui fattori che aumentano il rischio?
La prevenzione del rischio ambientale ha valenza sociale e richiede interventi collettivi da parte dei cittadini e dei lavoratori. Ciò implica che, per identificare e abbattere i fattori di rischio, i cittadini ad essi esposti scelgano di lavorare insieme: sia per ottenere le informazioni necessarie (spesso deliberatamente celate), sia per agire congiuntamente in funzione di obiettivi condivisi concreti e realizzabili.
Restando invece sul piano individuale?
È facile che prevalgano i bisogni contingenti (accettando ad esempio che il rischio venga monetizzato) o gli interventi protettivi parziali: ad esempio, per proteggere gli operai dal rumore non si modificano le macchine che lo producono ma ci si limita a dotare i lavoratori di cuffie protettive (senz’altro utili, intendiamoci); intervento quest’ultimo meno costoso, che per di più rigetta sui lavoratori stessi ogni responsabilità: se diventano sordi è colpa loro che non si sono protetti correttamente.
Raccontava Giulio Maccacaro, uno dei primi scienziati che si sia occupato in Italia di prevenzione ambientale, che ciò che lo aveva indirizzato in quella direzione era stata l’osservazione di un operaio: "Tutto sommato, in fabbrica la prevenzione coincide con l’impiantistica". Ciò è tuttora vero e pure attuale, e non solo in fabbrica, se si considera quanto difficile e spesso impossibile sia l’applicazione del D.L.vo 626/1994 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Se davvero esso venisse applicato alla lettera bisognerebbe chiudere immediatamente un grandissimo numero di ospedali, di attività produttive, di strutture di assistenza e di cura, di scuole, di laboratori…
I decaloghi che ogni giorno i cittadini leggono sui giornali cosa le fanno pensare?
Vediamo: di che cosa si muore oggi nei nostri paesi? Di malattie cardiovascolari e di cancro. Quali sono le armi con cui combattono il cancro e l’infarto? Lo sappiamo bene:
- non fumare
- mantenere il peso ideale
- svolgere attività fisica
- mangiare tanta frutta e verdura
- poco sale
- poco zucchero
- moderazione nell’alcool
- pochi grassi animali, meglio i grassi poliinsaturi
- mangiare pesce (omega3!) piuttosto che carne
- dieta mediterranea
- controlli clinici regolari (pressione, glicemia, pap test, mammografia, PSA…)
- assumere solo i farmaci sicuramente utili e sotto stretto controllo medico.
Ecco proprio così, c’è qualcosa che non va?
Così si ristruttura la classica rassicurante divisione di competenze: da un lato gli esperti (i medici, gli scienziati) che hanno il compito di:
- individuare e classificare i rischi
- definire gli interventi opportuni
- comunicare ai cittadini (direttamente, tramite mass media o campagne educative ecc.) cosa devono fare per combattere i rischi (e forse, chissà, per diventare un giorno immortali…).
Dall’altro lato i singoli cittadini che hanno il compito (o il dovere) di:
- obbedire alle prescrizioni, magari anche con l’aiuto di qualche piccola coercizione (per il loro bene, ovviamente)
- assumersi individualmente l’intera responsabilità e quindi tutte le conseguenze dei loro comportamenti
- sentirsi molto in colpa se non ce la fanno a comportarsi bene…
Allora come comunicherebbe il rischio?
Le comunicazioni possono essere rivolte sia alla cittadinanza in generale, sia a gruppi di cittadini con particolare esposizione a rischi, sia a singoli individui.
Le comunicazioni devono, come sempre, essere:
- chiare
- comprensibili: la comprensibilità ha a sua volta due aspetti: (1) che chi parla e chi ascolta utilizzino per comunicare termini e parole note ad entrambi e (2) che l’uno e l’altro diano ad esse il medesimo significato
- accettabili sul piano culturale
- concretamente applicabili nella vita reale di chi riceve la comunicazione
- circolari o bidirezionali, nel senso che nella comunicazione si confrontano due esperienze e due conoscenze che possono essere anche molto diverse ma che sono entrambe sensate e rilevanti; tra esse è indispensabile (questo significa comunicare) individuare e costruire momenti di condivisione, di lavoro comune, di azione collettiva.
Spesso le mode ritornano, e non solo nell’abbigliamento, come sta a dimostrare l’attuale nostalgico revival dell’Italia degli anni Trenta. Questo ci induce a sperare che anche termini come "non delega agli esperti", "solidarietà", "partecipazione" possano in un futuro non troppo lontano riacquistare diritto di cittadinanza presso di noi. L’oblio di concetti del genere è la madre di tutti i rischi.
9 giugno 2004
In primo piano
Il rischio è (solo) mio e lo gestisco (solo) io?
Cosa le viene in mente sentendo parlare di "rischi per la salute"?
Per cominciare, quanto siano veloci i cambiamenti culturali.
Una trentina d’anni fa, allorché a proposito di rischio si parlava di comunicazione e di prevenzione, quello che nell’immaginario collettivo dominava era il rischio ambientale. Il pubblico lo andava scoprendo attraverso due vie principali: la diffusione del pensiero ecologico (e dello stesso termine "ecologia") dall’ambito scientifico a quello più generalmente culturale; e le lotte operaie per la salute negli ambienti di lavoro, la cui nocività e pericolosità veniva resa nota al pubblico da episodi gravi o gravissimi, prevalenti nell’industria chimica (IPCA, Montedison) ed estrattiva, ma non solo in esse.
Appariva chiaro lo scontro tra due epistemologie contrapposte: da una parte l’industria tendeva a ignorare, a sottovalutare o a monetizzare il rischio in nome della competitività e del profitto; dall’altra i lavoratori diventavano via via consapevoli dell’importanza e della gravità effettiva dei rischi ambientali per la salute loro e dei loro familiari.
Trent’anni fa, il rischio era dunque visto come problema essenzialmente ambientale?
Quella ambientale era una concezione del rischio largamente diffusa, o almeno quella di cui si parlava di più. Essa aveva fautori e detrattori accesi e scatenava furiose battaglie non sempre e non solo verbali. È chiaro che una siffatta idea del rischio, e quindi della sua prevenzione, mette in discussione l’intero modello di sviluppo occidentale, che è poi quello prevalente. È facile affermare (ed è stato affermato) che interventi intesi a ridurre il rischio basati sulle linee descritte, se applicati in un solo paese, lo porterebbero fuori dal progresso, lo sospingerebbero verso un mondo arcaico e lo renderebbero di fatto succube delle nazioni sviluppate. Quindi: o nessuno o tutti; e siccome tutti non ci stanno (si vedano i tentativi fallimentari dei diversi forum sull’ambiente e le perplessità o il rifiuto da parte di molti Paesi di applicare il Protocollo di Kyoto per la salvaguardia del clima), allora nessuno. Insomma, se vogliamo il progresso "becchiamoci" i suoi effetti collaterali: in fondo nelle civiltà contadine di un tempo si viveva in media assai meno di oggi, e pure peggio: o no?
Così il peso dei fattori ambientali sui rischi legati alla salute finisce col restare sullo sfondo…
Non è che siano ignorati: i giornali ne parlano, e perfino le televisioni; e tuttavia appaiono lontani, come sfumati sullo sfondo: in ultima analisi si finisce con l’accettare i rischi ambientali come un destino inevitabile, come un prezzo da pagare al progresso. Sappiamo tutti benissimo, per fare un esempio, che l’inquinamento urbano dovuto alle automobili è un fattore di rischio molto serio, e tuttavia provate a pedonalizzare qualche strada del centro: vedrete che levata di scudi… E non ha senso moralizzare sull’egoismo dei commercianti: saremmo i primi a levarli noi stessi, gli scudi, se avessimo un negozio ben avviato in quelle strade o se ci obbligassero a usare soltanto i mezzi pubblici.
Analogamente, il modello di sviluppo che tutti accettiamo implica la produzione di scorie e di rifiuti più o meno tossici; visto che il modello nessuno lo vuole modificare, si pone il problema del trattamento e dello stoccaggio di quei materiali. Tutti d’accordo sul principio ma, intendiamoci, mica nel nostro Comune! Qualsiasi altro posto va bene, meglio ancora se nel Terzo mondo, ma qui da noi no e poi no.
Insomma il rischio è mio e lo gestisco io…
I modelli culturali sono decisamente cambiati in tre decenni; per quanto riguarda la prevenzione del rischio (e non solo) siamo passati dal livello sociale a quello individuale, perfino eccessivamente individuale: le lotte collettive per ridurre i rischi ambientali appaiono così fuori moda, così rétro, fanno tanto sessantotto, e poi i condoni sistemano tutto, le soglie di rischio si possono modificare per legge… E diciamocelo, se dobbiamo assumerci individualmente la responsabilità e la colpa dei nostri comportamenti e delle loro conseguenze in tema di salute, non si vede perché dovremmo poi accettare obblighi e intralci sull’uso della nostra automobile, no?
Abbiamo l’impressione che lei non sia d’accordo, non è vero?
Il fatto è (e anche questo è un rischio) che con lo spostamento dalla visione sociale a quella individuale si perde il senso ecologico, sistemico della stretta relazione esistente tra gli individui umani e tra uomo e ambiente; si dimentica che la nostra salute (e la nostra stessa esistenza) è indissolubilmente legata a quella di tutti gli altri, e che difendendo o danneggiando la nostra salute difendiamo o danneggiamo la salute di tutti.
Nessun uomo è un’isola…
Si, siamo tutti penisole. Intendiamoci: il pensiero liberale (e quello romantico) che afferma la centralità dell’individuo è una radice fondante della nostra cultura, e sarebbe impossibile (oltre che sciocco) rifiutarlo o negarlo. Ma quando (come avviene attualmente) l’accentuazione sui vantaggi individuali rispetto a quelli della collettività è tale da configurare una esasperata egocentrica parodia dell’autentico liberalismo, allora termini come "partecipazione" o "solidarietà" (la rivoluzionaria "fraternité", che non può essere dissociata dalla libertà e dalla eguaglianza) vengono a perdere ogni significato.
Se la parola "solidarietà" perde significato cosa accade?
Il risultato è quello che in inglese viene definito "effetto NIMBY": acronimo per "Not In My BackYard", non nel mio cortile.
Comunità alloggio? Ottima cosa, ma non nel mio cortile. Punti d’incontro per immigrati? Non nel mio cortile. Strutture di accoglienza per donne maltrattate? Giusto, purché non nel mio cortile.
Un’ipotesi gradevole, quella che i rischi si possano eliminare esportandoli in casa d’altri. Peccato che la "casa d’altri" non esista: tutti i cortili del mondo sono il nostro cortile.
È in questo contesto (e nonostante questo contesto), che nella nostra veste professionale dobbiamo comunicare sul rischio.
Cosa significherebbe riportare l’attenzione sugli aspetti ambientali e collettivi del rischio?
L’attenzione agli aspetti ambientali del rischio ha sulla cultura effetti di grande rilievo. L’ambiente non è più visto, come è stato per secoli, una semplice somma di risorse da sfruttare a vantaggio della specie umana. L’ambiente non è quindi "la casa dell’uomo": l’uomo non "abita" l’ambiente ma dell’ambiente è parte integrante, elemento costitutivo; e si evolve e si modifica assieme ad esso, in continua reciproca comunicazione. Si potrebbe dire che se l’uomo abita l’ambiente, l’ambiente abita l’uomo. Da ciò consegue una visione non più lineare ma circolare dei rapporti tra uomo e ambiente: l’uomo modifica l’ambiente e le modifiche si ripercuotono a loro volta sull’uomo, creando nuove e spesso impreviste situazioni destinate a venire a loro volta modificate in una continua mutevole danza. In una visione sistemica quale è quella ecologica, la coscienza di questa inscindibile relazione dovrebbe condurre a una cooperazione tra specie umana e ambiente, evitando una escalation conflittuale tra l’una e l’altro, potenzialmente distruttiva per ambedue.
Questo cambiamento di prospettiva favorirebbe la percezione "reticolare" dei diversi fattori che determinano il rischio?
L’identificazione dei fattori di rischio con l’obiettivo di abbatterli o almeno di ridurne l’importanza porta con sé conseguenze di notevole rilevanza sociale: il passaggio da una concezione causale a una concezione di tipo statistico probabilistico degli effetti, che deve tener conto anche dell’interazione tra fattori di rischio. Ciò significa modificare la propria visione da lineare a sistemica: un cambiamento epistemologico radicale rispetto al pensiero occidentale, tuttora legato all’idea aristotelica di causa efficiente.
La sua esperienza, così vicina alle cure primarie, cosa suggerisce a proposito dei "fattori di rischio" di cui molto si discute?
In primo luogo è necessario classificare in qualche modo i fattori di rischio per definire delle priorità di intervento. Tale classificazione può apparire più agevole allorché si valutino elementi misurabili in termini quantitativi come il clima (temperatura, umidità, ecc.) o la presenza di sostanze nocive nell’ambiente.
Esistono però altri fattori di rischio meno oggettivi ma altrettanto dannosi: si pensi alla fatica ad esempio, al furto del tempo della vita o alla percezione del malessere e del disagio che, per essere soggettiva e variabile da persona a persona, non è perciò meno pericolosa: stress e burnout esistono, e hanno serie conseguenze sulla salute fisica e mentale (ha presente Charlot in Tempi Moderni?). Quando parliamo di ambiente parliamo di tutti questi aspetti, non solo di quelli fisici.
Ci spieghi meglio…
Diventa centrale ogni intervento inteso a modificare non l’ambiente ma la relazione tra noi e l’ambiente: non più con lo scopo di sfruttarlo al massimo a nostro vantaggio ma con l’obiettivo di renderlo compatibile con la salute e con il benessere di tutti, di farlo diventare cioè, se si può dire, "amichevole". La collaborazione tra uomo e ambiente è vantaggiosa per l’uno e per l’altro, e sembra essere l’unica strada sensata percorribile.
È necessario, in questo contesto, non lasciarsi convincere dalle parole di taluni sinistri profeti di sventura che predicono, talora anche utilizzando strumenti apparentemente scientifici, l’approssimarsi di una ineluttabile apocalisse dell’umanità. Se presi alla lettera, messaggi del genere hanno effetti negativi, in quanto inducono a rinunciare ad ogni ipotesi di cambiamento, e possono spingere verso l’indifferenza o verso i molteplici più o meno pittoreschi aspetti di fuga dalla realtà.
Il rischio (è il caso di dirlo) è, come sempre, una falsa dicotomia: o la rivoluzione globale o nessun intervento. Il risultato è l’abbandono di una filosofia, quella della riduzione del rischio e del danno come azione sociale e collettiva, a favore di una concezione interamente basata sulla responsabilità individuale, proprio come nel caso delle cuffie protettive contro il rumore.
Anche da parte del cittadino è necessario, quindi, entrare nell’ottica contro tendenza di un intervento collettivo sui fattori che aumentano il rischio?
La prevenzione del rischio ambientale ha valenza sociale e richiede interventi collettivi da parte dei cittadini e dei lavoratori. Ciò implica che, per identificare e abbattere i fattori di rischio, i cittadini ad essi esposti scelgano di lavorare insieme: sia per ottenere le informazioni necessarie (spesso deliberatamente celate), sia per agire congiuntamente in funzione di obiettivi condivisi concreti e realizzabili.
Restando invece sul piano individuale?
È facile che prevalgano i bisogni contingenti (accettando ad esempio che il rischio venga monetizzato) o gli interventi protettivi parziali: ad esempio, per proteggere gli operai dal rumore non si modificano le macchine che lo producono ma ci si limita a dotare i lavoratori di cuffie protettive (senz’altro utili, intendiamoci); intervento quest’ultimo meno costoso, che per di più rigetta sui lavoratori stessi ogni responsabilità: se diventano sordi è colpa loro che non si sono protetti correttamente.
Raccontava Giulio Maccacaro, uno dei primi scienziati che si sia occupato in Italia di prevenzione ambientale, che ciò che lo aveva indirizzato in quella direzione era stata l’osservazione di un operaio: "Tutto sommato, in fabbrica la prevenzione coincide con l’impiantistica". Ciò è tuttora vero e pure attuale, e non solo in fabbrica, se si considera quanto difficile e spesso impossibile sia l’applicazione del D.L.vo 626/1994 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Se davvero esso venisse applicato alla lettera bisognerebbe chiudere immediatamente un grandissimo numero di ospedali, di attività produttive, di strutture di assistenza e di cura, di scuole, di laboratori…
I decaloghi che ogni giorno i cittadini leggono sui giornali cosa le fanno pensare?
Vediamo: di che cosa si muore oggi nei nostri paesi? Di malattie cardiovascolari e di cancro. Quali sono le armi con cui combattono il cancro e l’infarto? Lo sappiamo bene:
Ecco proprio così, c’è qualcosa che non va?
Così si ristruttura la classica rassicurante divisione di competenze: da un lato gli esperti (i medici, gli scienziati) che hanno il compito di:
Dall’altro lato i singoli cittadini che hanno il compito (o il dovere) di:
Allora come comunicherebbe il rischio?
Le comunicazioni possono essere rivolte sia alla cittadinanza in generale, sia a gruppi di cittadini con particolare esposizione a rischi, sia a singoli individui.
Le comunicazioni devono, come sempre, essere:
Spesso le mode ritornano, e non solo nell’abbigliamento, come sta a dimostrare l’attuale nostalgico revival dell’Italia degli anni Trenta. Questo ci induce a sperare che anche termini come "non delega agli esperti", "solidarietà", "partecipazione" possano in un futuro non troppo lontano riacquistare diritto di cittadinanza presso di noi. L’oblio di concetti del genere è la madre di tutti i rischi.