In pochi sarebbero disposti a sostenere che le singole persone non sono responsabili delle decisioni e dei comportamenti che riguardano il proprio benessere; eppure, c’è chi non vede di buon occhio l’enfasi eccessiva posta sulla responsabilità individuale in tema di salute. Lei cosa ne pensa?
Innanzitutto, vorrei ricordare come molte di queste voci critiche sono motivate da un argomento che considero importante: sottolineare eccessivamente la responsabilità personale "espone la vittima al biasimo", ignorando il contesto sociale nel quale l’individuo prende una decisione e in cui avvengono gli stessi comportamenti collegati alla nostra salute. Come ha scritto Rob Crawford, l’ideologia colpevolizzante "da una parte ignora tutto ciò che si sa del comportamento umano, dall’altra minimizza l’importanza di ciò che è noto a tutti sull’assalto ambientale alla salute. Istruisce la gente ad essere responsabile individualmente proprio quando stiamo diventando meno capaci – come persone – a tenere sotto controllo la salubrità dell’ambiente". (1)
Chi ha la responsabilità di prendere decisioni in campo sanitario dovrebbe dunque considerare con più attenzione il contesto sociale in cui i cittadini prendono le proprie decisioni…
Esattamente. Credo che l’ambiente culturale nel quale noi tutti ci assumiamo le nostre responsabilità, beninteso riguardanti la salute, debba essere tenuto nella massima considerazione. Il bambino-medio in età scolare, solo per fare un esempio, guarda alla televisione diecimila spot commerciali ogni anno; inoltre, mentre vengono spesi milioni di dollari per la pubblicità di cereali zuccherati, bibite gassate e fast food, davvero pochissime risorse sono investite per finanziare l’educazione alimentare nelle scuole. Paradossalmente, per sostenere i corsi, molte scuole fanno affidamento sui fondi che ottengono vendendo gli spazi degli istituti proprio ai gestori dei fast food. L’obesità ha raggiunto proporzioni epidemiche tra i bambini statunitensi e, come conseguenza, la prevalenza del diabete in età infantile sta crescendo in misura allarmante.
Il concetto di responsabilità sanitaria individuale può contribuire senza volerlo a trasmettere messaggi che rinforzano pregiudizi esistenti; a questo riguardo, la sua opinione non è cambiata rispetto a quanto espresso in alcuni suoi scritti recenti? (2)
Sì, a mio giudizio questa è un’altra dimensione importante della potenziale colpevolizzazione di cui parlavamo prima; nello stabilire un’equivalenza tra "essere malato" e "essere colpevole" rischiamo di stigmatizzare involontariamente il disabile, l’anziano, le persone in sovrappeso e ogni altro gruppo sociale la cui immagine sanitaria sia, per così dire, svalutata.
Aggiungerei che, dal punto di vista epidemiologico, dall’incoraggiare il cambiamento dei comportamenti a livello individuale possiamo aspettarci un impatto davvero limitato sulla distribuzione delle malattie nella popolazione.
Per quale ragione?
Ottenere che una persona mantenga nel tempo abitudini più sane in esito ad un mutamento dei propri comportamenti è molto difficile. Questo vale per chi cerca di ridurre l’assunzione alimentare di grassi o di cibi molto calorici, come per chi inizia un programma di attività fisica: la metà delle persone che iniziano a fare esercizio con finalità dietetiche smette entro sei mesi. Sappiamo anche che le diete iniziate ciclicamente da persone che ripetutamente non riescono a raggiungere i propri obiettivi hanno conseguenze rilevanti sia come impatto negativo sull’autostima, sia in termini strettamente fisiologici.
Disponiamo di studi che hanno dimostrato un aumento notevole di disturbi cardiovascolari e di mortalità complessiva in quelli che negli Stati Uniti definiamo i "weight cycles", anche quando altri fattori di rischio, per esempio il fumo, sono tenuti sotto controllo.
Tutto ciò mette in evidenza la complessità del quadro comportamentale sul quale occorrerebbe intervenire se una persona dovesse, per esempio, calare di peso, smettere di fumare o non iniziare a farlo.
Detto questo, basandosi sulle evidenze scientifiche, cosa proporrebbe?
Gli epidemiologi fanno rilevare che, data la assoluta prevalenza di patologie quali il cancro del polmone, le malattie cardiovascolari e l’ictus, le soluzioni basate sulla responsabilità individuale del cambiamento è improbabile abbiano molto effetto. Al contrario, disponiamo di un numero crescente di prove che interventi a livello macro o effettuati sul piano ambientale, radicati al concetto di responsabilità sociale per la salute, possono tradursi in spinte potenti al cambiamento degli stili di vita su larga scala.
Qualche esempio?
Un aumento del 10 per cento nel prezzo delle sigarette, per esempio, si è dimostrato capace di ridurre del 14 per cento l’abitudine al fumo negli adolescenti. Se un pacchetto di sigarette costasse due dollari in più, l’uso del tabacco nei teenager calerebbe del 46 per cento. Allo stesso modo, i nuovi limiti di velocità fissati a 55 miglia orarie e l’obbligo delle cinture di sicurezza hanno portato ad una riduzione della mortalità per incidenti stradali molto superiore a quanto ottenuto con anni di campagne educazionali. Solo concentrandoci sulle più ampie dinamiche ambientali possiamo sperare di incidere sulla distribuzione sociale delle malattie.
È necessario equilibrare la nozione di responsabilità individuale con l’impegno ad accrescere la " respons-abilità" individuale e della comunità: rispettando la capacità personale di fare delle scelte; sostenendo la partecipazione dei cittadini alla assunzione di decisioni di politica sanitaria volte a definire in cosa consiste il bene comune; dando priorità ai problemi delle persone che vivono in condizioni che le pongono a rischio più elevato; perseguendo la giustizia sociale attraverso la prevenzione della discriminazione e riducendo le ineguaglianze.
28 luglio 2004
Per saperne di più…
- Crawford R. You are dangerous to your health. Int J Health Services 1977; 4:671.
- Minkler M. Personal responsibility for health: Context and controversies. In: Callahan D, ed. Promoting healthy behavior. Washington: Georgetown University Press, 2000.
In primo piano
Il rischio per la salute: dalla responsabilità individuale alla “respons-abilità” della comunità
In pochi sarebbero disposti a sostenere che le singole persone non sono responsabili delle decisioni e dei comportamenti che riguardano il proprio benessere; eppure, c’è chi non vede di buon occhio l’enfasi eccessiva posta sulla responsabilità individuale in tema di salute. Lei cosa ne pensa?
Innanzitutto, vorrei ricordare come molte di queste voci critiche sono motivate da un argomento che considero importante: sottolineare eccessivamente la responsabilità personale "espone la vittima al biasimo", ignorando il contesto sociale nel quale l’individuo prende una decisione e in cui avvengono gli stessi comportamenti collegati alla nostra salute. Come ha scritto Rob Crawford, l’ideologia colpevolizzante "da una parte ignora tutto ciò che si sa del comportamento umano, dall’altra minimizza l’importanza di ciò che è noto a tutti sull’assalto ambientale alla salute. Istruisce la gente ad essere responsabile individualmente proprio quando stiamo diventando meno capaci – come persone – a tenere sotto controllo la salubrità dell’ambiente". (1)
Chi ha la responsabilità di prendere decisioni in campo sanitario dovrebbe dunque considerare con più attenzione il contesto sociale in cui i cittadini prendono le proprie decisioni…
Esattamente. Credo che l’ambiente culturale nel quale noi tutti ci assumiamo le nostre responsabilità, beninteso riguardanti la salute, debba essere tenuto nella massima considerazione. Il bambino-medio in età scolare, solo per fare un esempio, guarda alla televisione diecimila spot commerciali ogni anno; inoltre, mentre vengono spesi milioni di dollari per la pubblicità di cereali zuccherati, bibite gassate e fast food, davvero pochissime risorse sono investite per finanziare l’educazione alimentare nelle scuole. Paradossalmente, per sostenere i corsi, molte scuole fanno affidamento sui fondi che ottengono vendendo gli spazi degli istituti proprio ai gestori dei fast food. L’obesità ha raggiunto proporzioni epidemiche tra i bambini statunitensi e, come conseguenza, la prevalenza del diabete in età infantile sta crescendo in misura allarmante.
Il concetto di responsabilità sanitaria individuale può contribuire senza volerlo a trasmettere messaggi che rinforzano pregiudizi esistenti; a questo riguardo, la sua opinione non è cambiata rispetto a quanto espresso in alcuni suoi scritti recenti? (2)
Sì, a mio giudizio questa è un’altra dimensione importante della potenziale colpevolizzazione di cui parlavamo prima; nello stabilire un’equivalenza tra "essere malato" e "essere colpevole" rischiamo di stigmatizzare involontariamente il disabile, l’anziano, le persone in sovrappeso e ogni altro gruppo sociale la cui immagine sanitaria sia, per così dire, svalutata.
Aggiungerei che, dal punto di vista epidemiologico, dall’incoraggiare il cambiamento dei comportamenti a livello individuale possiamo aspettarci un impatto davvero limitato sulla distribuzione delle malattie nella popolazione.
Per quale ragione?
Ottenere che una persona mantenga nel tempo abitudini più sane in esito ad un mutamento dei propri comportamenti è molto difficile. Questo vale per chi cerca di ridurre l’assunzione alimentare di grassi o di cibi molto calorici, come per chi inizia un programma di attività fisica: la metà delle persone che iniziano a fare esercizio con finalità dietetiche smette entro sei mesi. Sappiamo anche che le diete iniziate ciclicamente da persone che ripetutamente non riescono a raggiungere i propri obiettivi hanno conseguenze rilevanti sia come impatto negativo sull’autostima, sia in termini strettamente fisiologici.
Disponiamo di studi che hanno dimostrato un aumento notevole di disturbi cardiovascolari e di mortalità complessiva in quelli che negli Stati Uniti definiamo i "weight cycles", anche quando altri fattori di rischio, per esempio il fumo, sono tenuti sotto controllo.
Tutto ciò mette in evidenza la complessità del quadro comportamentale sul quale occorrerebbe intervenire se una persona dovesse, per esempio, calare di peso, smettere di fumare o non iniziare a farlo.
Detto questo, basandosi sulle evidenze scientifiche, cosa proporrebbe?
Gli epidemiologi fanno rilevare che, data la assoluta prevalenza di patologie quali il cancro del polmone, le malattie cardiovascolari e l’ictus, le soluzioni basate sulla responsabilità individuale del cambiamento è improbabile abbiano molto effetto. Al contrario, disponiamo di un numero crescente di prove che interventi a livello macro o effettuati sul piano ambientale, radicati al concetto di responsabilità sociale per la salute, possono tradursi in spinte potenti al cambiamento degli stili di vita su larga scala.
Qualche esempio?
Un aumento del 10 per cento nel prezzo delle sigarette, per esempio, si è dimostrato capace di ridurre del 14 per cento l’abitudine al fumo negli adolescenti. Se un pacchetto di sigarette costasse due dollari in più, l’uso del tabacco nei teenager calerebbe del 46 per cento. Allo stesso modo, i nuovi limiti di velocità fissati a 55 miglia orarie e l’obbligo delle cinture di sicurezza hanno portato ad una riduzione della mortalità per incidenti stradali molto superiore a quanto ottenuto con anni di campagne educazionali. Solo concentrandoci sulle più ampie dinamiche ambientali possiamo sperare di incidere sulla distribuzione sociale delle malattie.
È necessario equilibrare la nozione di responsabilità individuale con l’impegno ad accrescere la " respons-abilità" individuale e della comunità: rispettando la capacità personale di fare delle scelte; sostenendo la partecipazione dei cittadini alla assunzione di decisioni di politica sanitaria volte a definire in cosa consiste il bene comune; dando priorità ai problemi delle persone che vivono in condizioni che le pongono a rischio più elevato; perseguendo la giustizia sociale attraverso la prevenzione della discriminazione e riducendo le ineguaglianze.
Per saperne di più…