In primo piano

Il web sociale fa bene alla medicina

  • La filosofia alla base
  • Gli ostacoli
  • La saggezza della folla
  • Gli esempi

    La filosofia alla base

    Cosa si intende con ‘web sociale’?

    Il web sociale è l’individuazione di luoghi analoghi a quelli che una volta erano le piazze; dove la gente si incontra. Con un vantaggio: non ci sono barriere spazio-temporali.
    La vera novità, di cui la gente comincia pian piano a rendersi conto, è la possibilità di scambiarsi materiali e idee sia in modo sincrono sia in modo asincrono; sia a distanza breve sia a distanza grande. Se la popolarità del social networking è dovuta principalmente al suo uso e alla sua diffusione nel tempo libero, non bisogna sottovalutare il fatto che esistono moltissime applicazioni che dimostrano come l’aggregazione di persone attraverso questi strumenti fa una certa differenza, anche sul piano professionale.

    Ma i medici usano i social network?

    La mia esperienza è che i medici non li usano. Almeno quelli italiani e sicuramente i pediatri. Diverso è quando si guarda agli altri paesi.
    Mi è capitato, abbastanza di recente, in occasione di un congresso di Pediatria di tenere una relazione sugli strumenti del web 2.0 per il miglioramento della qualità delle cure. La prima risposta che ho avuto dalla platea è stata: "hai sbagliato pubblico. Dovevi parlare agli informatici non ai medici".
    È necessario, invece, far capire anche al professionista della salute come questi strumenti possono davvero radicalmente cambiare il modo di lavorare.

    Cioè fargli smettere di pensare che siano strumenti adatti solo al tempo libero?

    Sì. Limitarsi a questa percezione è un errore grave, perché il grande fermento intorno agli strumenti del web sociale offre anche un’apertura verso discipline nuove. Ad esempio, io stesso mi sono iscritto ad un corso di bioinformatica all’Università di Portland che prevede una parte a distanza e una parte frontale. Negli Stati Uniti si ricerca molto in questa direzione e si investono fondi.
    Ma, paradossalmente, in Italia potremmo essere avvantaggiati da questo ritardo, evitando lo sviluppo selvaggio di strumenti per la salute basati sul web al quale si è assistito negli Stati Uniti. Da noi, essendo pochi gli interlocutori, non dovrebbe essere complicato trovare un filo conduttore nello sviluppo e nell’applicazione di queste tecnologie.

    Gli ostacoli

    Quali sono allora gli ostacoli all’utilizzo degli strumenti del web sociale?

    Sicuramente ad ostacolare la rapidità dello sviluppo di queste tecnologie vi è l’abitudine radicata a lavorare per settori. Questo anche negli ospedali più aperti alle novità.
    Il web sociale funziona se si è disposti a mescolare le competenze, in un clima colloquiale/informale necessario allo scambio di idee. Si devono incontrare i tecnici con i clinici, ma anche con le persone che stanno dall’altra parte come le famiglie dei pazienti.

    Che ci guadagnerebbe il medico ricredendosi sulle potenzialità di questi strumenti?

    La possibilità di aggregare le competenze diverse e contemporaneamente sfruttare anche elementi tecnologici con grandi potenzialità è il primo grande vantaggio che deriva dall’uso degli strumenti del web sociale. Mi vengono in mente gli strumenti che permettono la georeferenziazione degli eventi. Tra questi un esempio tra tutti è la rappresentazione delle malattie su una base geografica, possibile con pochissimo sforzo.
    Poi, non bisogna dimenticare che la partecipazione di molte persone alle discussioni su determinati argomenti è una ricchezza rara.
    L’abbattimento delle barriere che riguardano le competenze è uno degli altri aspetti importanti. Si ha l’abitudine a lavorare con gruppi omogenei di persone, mentre questi strumenti abbattono tutte le barriere specialistiche. Di conseguenza, intorno ad argomenti che possono sembrare specialistici si trovano a ragionare persone con competenze estremamente diverse. Questo è un valore, non ancora percepito, ma tra i più interessanti.

    Cosa fare per aprire gli orizzonti del medico?

    Parlare di questi argomenti su una newsletter come Va’ Pensiero è un passo importante.
    Poi c’è il libro di Eugenio Santoro, Web 2.0 e Medicina, fondamentale per capire che il Web 2.0 è una novità che non riguarda soltanto il mondo degli adolescenti "smanettoni", ma anche l’ambito sanitario.

    Il passo successivo?

    Organizzare la formazione su questi temi. Non è necessario che si faccia la solita lezione frontale: lo stesso meccanismo che è alla base del web 2.0 può essere utilizzato per creare strumenti di formazione diversi. Perché non ci pensate voi?

    Intanto, qualche esempio da tenere d’occhio?

    Sicuramente il Center for Global ehealth innovation gruppo dell’Università canadese di Toronto che è riuscito a mettere insieme dei gruppi di lavoro secondo la logica alla base del social networking. Sarà che il fondatore è un noto epidemiologo…
    Invece di lavorare solo con specialisti di tecnologia o clinici, hanno creato dei gruppi completamente eterogenei. Ad esempio, nel gruppo che si occupa di oncologia ci sono gli informatici, i clinici, gli psicologi. Un valore poco percepito e poco sfruttato, ma sicuramente una delle ricadute più importanti del web sociale.

    La saggezza della folla

    Lei crede nella saggezza della folla (wisdom of crowd)?

    Recentemente (mi trovavo negli Stati Uniti), mi sono imbattuto casualmente in un libro "The cult of amateur" dove si parla proprio del ruolo dell’esperto in contrapposizione con la saggezza della folla. La posizione dell’autore è molto critica verso la folla. In controcorrente: si afferma che ci siamo arresi alla logica della saggezza della folla per rinunciare alla guida dell’esperto e per perdere di conseguenza le possibilità di approfondimento.

    È d’accordo?

    Non proprio. A mio avviso, l’esperto è necessario per la sua visione comprensiva di determinati argomenti. Ma l’unione dell’esperienza con tanti punti di vista dell’esperto fa la differenza.
    Non si tratta di distribuire equamente la saggezza tra tutti i livelli, ma è importante creare dei gruppi in cui siano rappresentati tutti i punti di vista, compreso quello dell’esperto.

    Ha ancora senso parlare di qualità dei contenuti all’epoca del web 2.o?

    Tra le sue riflessioni Jacob Nielsen parla di una legge che chiama legge 90:9:1 e che riguarda la partecipazione ai social media ed in generale agli strumenti del web 2.0.
    In queste strutture sociali, in cui vengono condivise le diverse esperienze delle persone che hanno un contatto con questi strumenti, il 90 per cento sta a guardare. Il 9 per cento partecipa qualche volta. E l’1 per cento fa quasi tutto. Questo è vero. Il punto è che in genere quell’1% è  rappresentato dall’esperto, ma il 9% che fa gli interventi saltuari fa la grande differenza, e l’altro 90% pure. Perché se è vero che non ha un ruolo attivo, è vero anche che giudica.
    Si tende a semplificare troppo il concetto di ‘wisdom of crowd’ che invece deve essere riportato alla possibilità di mettere in collegamento persone che hanno livelli molto eterogenei di competenze, anche dal punto di vista del settore. E questo è un vero passo avanti per la qualità.

    Gli esempi

    Un esempio di web sociale interessante?

    Il primo che mi viene in mente è LinkedIn. Una piattaforma molto utilizzata dai professionisti che ha lo scopo dichiarato di mettere in relazione le persone per nuove opportunità di collaborazione o di lavoro, però ha anche lo scopo di distribuire informazioni specialistiche.
    Io personalmente sono iscritto ad alcuni gruppi che riguardano il web 2.0. Inoltre le associazioni che lavorano allo sviluppo di strumenti utilizzabili in medicina sono molto attive su queste piattaforme. In questi luoghi il collegamento tra professionisti è efficace e anche inatteso. Capita di ricevere commenti o proposte di collaborazione oppure, di entrare in discussioni che arrivano da ogni continente. In particolare, l’interesse per questi temi è vivo nei paesi emergenti: i Paesi Arabi o asiatici.

    Un esempio anche trendy?

    Sicuramente Twitter. Viene molto enfatizzata la possibilità di utilizzare questo strumento per monitorare in tempo reale le conferenze. Il fatto singolare e interessante è che gli utenti possono scambiarsi solo messaggi molto brevi. In alcuni congressi americani ci sono dei canali dedicati per chi commenta quello che sta succedendo.

    La novità più squisitamente medica?

    Doc2doc. L’apertura di una piattaforma collaborativa sulle pagine del British Medical Journal che ha tutte le caratteristiche di una piattaforma per il social networking con espliciti scopi medici. Non ci sono ancora moltissimi utenti. E per questo i giovani che lavorano con me sono stati obbligati all’iscrizione.
    Alla base della piattaforma ci sono i meccanismi che sono più vicini al medico. Se il dottore è in difficoltà la prima cosa che fa è quella di consultare un altro medico, un amico: "come ti comporteresti in questo caso?", "come decideresti di intervenire?"

    Che effetto farebbero domande di questo tipo all’interno di una comunità di specialisti?

    In Italia, stiamo provando a realizzare un esperimento con una piattaforma del genere in una branca specialistica della Pediatria, siamo abbastanza vicini al lancio. Anche in questo caso c’è un grandissimo potenziale accanto ad una scarsa consapevolezza di quello che si potrebbe fare.
    Ma è solo questione di tempo perché qui valgono le regole del marketing virale: una volta che ci sono due o tre utilizzatori entusiasti (i cosiddetti ‘power user’) questi impiegano poco per trasmettere l’informazione a molti altri.

    A proposito di strumenti virali: stare su Facebook può aiutare il pediatra a comunicare con i genitori dei bambini?

    È possibile avere un canale diretto con i pazienti. Anche se Facebook non ha esattamente tutti i requisiti che servirebbero ad un tradizionale rapporto tra medico e paziente. Su Facebook tutti si fanno i fatti di tutti, dunque è  agli antipodi rispetto al concetto di mantenimento della privacy. òci sono due grandi potenzialità. Facebook raggiunge grandissimi numeri di persone, quindi è un ottimo strumento per la promozione della salute. Da tempo coltivo interesse per questa disciplina e mi stupisco di come sia le organizzazioni sia le società scientifiche non utilizzino tecniche che invece sono ampiamente utilizzate nella promozione commerciale.

    Promuovere la salute con tutti i mezzi?

    Se l’azienda che produce detersivi utilizza dei mezzi efficaci per trasmettere l’informazione, ma perché non utilizzarli anche per trasmettere informazioni sulla salute? I mezzi ci sono, sono formalizzati, funzionano, ma per la salute non vengono minimamente utilizzati.
    Nella scienza del marketing, il marketing dei servizi – il marketing sociale – si sviluppa sempre di più. Una parte importante di questa attività riguarda la diffusione dell’informazione nei social network come Facebook. Non a caso si scrivono e si vendono libri su come fare marketing su Facebook e su YouTube.

    Questo è un aspetto. L’altra potenzialità di Facebook?

    L’altro aspetto, ancora poco considerato ma che potrebbe essere molto potente, è la possibilità di costruire comunità di pazienti che sono accomunati dallo stesso problema.
    Questo già succede anche nella parte italiana di Facebook, dove alcuni gruppi, pochi, ci sono. Io penso che la possibilità di unire questo tipo di strumenti ad altri come quelli che consentono l’organizzazione dei dati clinici da parte del paziente stesso (personal health record) potrebbero creare delle commistioni molto potenti.

    Collegare le informazioni cliniche e i social network?

    C’è qualche esperienza negli altri paesi, come la piattaforma PatientsLikeMe in cui ci sono comunità di pazienti che mettono in comune dati clinici e discutono di terapie, di accesso ai servizi e di altri problemi comuni.
    Un’esperienza che fa la differenza soprattutto per quelli che come me sono abituati a ragionare con le regole della medicina basata sulle prove e hanno una frustrazione antica: sono pieni di belle e valide raccomandazioni, con la grande difficoltà di passare dalla raccomandazione alla pratica.
    Siamo troppo poco attenti alle esigenze dei pazienti e delle famiglie e fare emergere queste esigenze significa trovare la strada per far applicare bene le raccomandazioni.

    18 febbraio 2009

  • Lascia un commento

    Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *