Dalla poltrona sulla quale passava ormai le sue giornate, verso le sette della sera mio nonno gettava due giornali sul suo letto dalla coperta gialla. Per l’adolescente che ero, finiti i compiti pomeridiani e la tivvù dei ragazzi, uno era una lettura attesa perché vivace (ah, i corsivi di Benelux in prima pagina) e spazio di appartenenza alle ribellioni dei primi anni Settanta; l’altro era odioso soprattutto per la propria dichiarata "indipendenza". Tra il Paese sera e il Giornale d’Italia, infatti, il secondo si faceva preferire solo per una sua certa inclinazione nei confronti della Lazio di Ghio e Ferruccio Mazzola (i peccati di gioventù si confessano giunti ai cinquanta ed è l’ora di iniziare). Ma l’indipendenza no, davvero quella non si riusciva a sopportare. Bastava – e avanzava – un altro giornale romano, Il Tempo, che si definiva quotidiano indipendente sin dalla testata. Da allora, una personale allergia alla parola indipendenza: sospetti fondati perché, come si dice in città, spesso dietro questo termine si nasconde una sòla. Indipendenza da chi? per cominciare. Dal denaro, dalla politica, dal proprio credo religioso, dagli affetti?
Indipendenza che torna in mente proprio perché è all’insegna di questa parola chiave il convegno che si terrà venerdì a Verona, "il primo incontro italiano dei bollettini appartenenti alla Società Internazionale dei Bollettini Indipendenti d’informazione sui farmaci". Il virgolettato è ripreso dall’annuncio del congresso; il termine "indipendente" (addirittura con la iniziale maiuscola) è a dire il vero una precisazione degli organizzatori, dal momento che nella denominazione ufficiale dell’associazione la parola è assente. Più concretamente e con minore evidenza, la International Society of Drug Bulletins (ISDB) tiene a specificare che la propria è indipendenza dai finanziamenti dell’industria farmaceutica. Almeno, in quel caso sappiamo di cosa stiamo parlando.
Il nostro è tra i Paesi al mondo in cui è più alto il numero delle riviste affiliate alla ISDB – e quindi autoproclamatesi indipendenti; però è anche uno dei Paesi in cui questo tipo di rivista è meno conosciuto dai medici e dai farmacisti (intendiamoci: tra pochi anni, anche un settimanale come il Lancet lo conosceranno solo i giovani medici cinefili che l’avranno visto sfogliare sul treno da Frederick Frankenstein/Gene Hackman in Frankestein junior). Le cinque testate indipendenti italiane sopravvivono tutte in Padania: una a Milano, una a Reggio Emilia, una a Modena e ben due a Verona, vera capitale italiana dell’autosufficienza, qualità che non supera la Linea Gotica. Sopravvivono rincorrendo lettori sempre più distratti, più frettolosi, meno sensibili alla necessità dell’approfondimento e del confronto.
E se l’indipendenza fosse un’illusione consolatoria? Come ogni altra proposta editoriale – libro, rivista, web che sia – si tratta in realtà di progetti fortemente dipendenti. In primo luogo dalle convinzioni dei promotori: ideali, culturali, politiche. Poi, dai finanziamenti pubblici che in diversi casi sostengono le riviste; in un caso dal supporto della stessa casa editrice che pubblica la rivista. Giunto a questo punto è il caso di dichiarare serenamente se non la personale condizione di conflitto di interessi di chi scrive, almeno l’essere direttamente parte in causa, come editore di una delle cinque riviste. Difficile non osservare, a voler essere obiettivi, che l’assoluta indipendenza (in altre parole, diretta o indiretta) dall’industria dei medicinali è una condizione probabilmente impossibile; per riviste del genere, ma non solo: basti pensare che gran parte dei meritevoli investimenti nell’informazione dell’Agenzia italiana del farmaco è finanziata da un fondo determinato da una quota parte della spesa pubblicitaria delle aziende farmaceutiche. Ma immaginiamo di raggiungerlo, l’affrancamento dal supporto aziendale: sarebbe una garanzia di per sé? Forse no: la storia recente ha reso evidente come, in ambito sanitario, gli interessi governativi siano spesso più condizionanti di quelli industriali: eppure, qualcuno se la sentirebbe di "estendere la propria indipendenza" allargandola fino a fare a meno dei finanziamenti pubblici?
"Ricominciare a leggere, studiare, capire, parlare, ascoltare, domandare." Questa è la sola condizione dell’indipendenza: è la ricetta proposta da Giovanni De Mauro sull’ultimo numero di Internazionale, e vale per il nostro Paese piegato da mafie e camorre, come per la Sanità: "Le parole sono pericolose. Ma non basta scriverle. Le parole diventano pericolose solo quando qualcuno le legge". Chi legge le parole scritte sulle cinque riviste italiane affiliate alla ISDB? Quanti medici o farmacisti scelgono di spendere in proprio i soldi necessari per abbonarsi almeno ad uno di questi periodici? Pochi, pochissimi. Questa sì che è un’evidenza e dovrebbe obbligare chiunque a interrogarsi sul rischio di un sostanziale, collettivo fallimento. Un’idea potrebbe essere, una volta per tutte, quella di abbandonare il rassicurante sogno dell’indipendenza, sostituendo questa con altre parole chiave: rispetto delle regole e esigenza di trasparenza. Chissà che, in questo modo, non si riesca ad essere più credibili, convincenti e vicini alle sensibilità dei nostri lettori che non ci leggono.
6 maggio 2008
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Indipendente, a chi?
Indipendenza che torna in mente proprio perché è all’insegna di questa parola chiave il convegno che si terrà venerdì a Verona, "il primo incontro italiano dei bollettini appartenenti alla Società Internazionale dei Bollettini Indipendenti d’informazione sui farmaci". Il virgolettato è ripreso dall’annuncio del congresso; il termine "indipendente" (addirittura con la iniziale maiuscola) è a dire il vero una precisazione degli organizzatori, dal momento che nella denominazione ufficiale dell’associazione la parola è assente. Più concretamente e con minore evidenza, la International Society of Drug Bulletins (ISDB) tiene a specificare che la propria è indipendenza dai finanziamenti dell’industria farmaceutica. Almeno, in quel caso sappiamo di cosa stiamo parlando.
Il nostro è tra i Paesi al mondo in cui è più alto il numero delle riviste affiliate alla ISDB – e quindi autoproclamatesi indipendenti; però è anche uno dei Paesi in cui questo tipo di rivista è meno conosciuto dai medici e dai farmacisti (intendiamoci: tra pochi anni, anche un settimanale come il Lancet lo conosceranno solo i giovani medici cinefili che l’avranno visto sfogliare sul treno da Frederick Frankenstein/Gene Hackman in Frankestein junior). Le cinque testate indipendenti italiane sopravvivono tutte in Padania: una a Milano, una a Reggio Emilia, una a Modena e ben due a Verona, vera capitale italiana dell’autosufficienza, qualità che non supera la Linea Gotica. Sopravvivono rincorrendo lettori sempre più distratti, più frettolosi, meno sensibili alla necessità dell’approfondimento e del confronto.
E se l’indipendenza fosse un’illusione consolatoria? Come ogni altra proposta editoriale – libro, rivista, web che sia – si tratta in realtà di progetti fortemente dipendenti. In primo luogo dalle convinzioni dei promotori: ideali, culturali, politiche. Poi, dai finanziamenti pubblici che in diversi casi sostengono le riviste; in un caso dal supporto della stessa casa editrice che pubblica la rivista. Giunto a questo punto è il caso di dichiarare serenamente se non la personale condizione di conflitto di interessi di chi scrive, almeno l’essere direttamente parte in causa, come editore di una delle cinque riviste. Difficile non osservare, a voler essere obiettivi, che l’assoluta indipendenza (in altre parole, diretta o indiretta) dall’industria dei medicinali è una condizione probabilmente impossibile; per riviste del genere, ma non solo: basti pensare che gran parte dei meritevoli investimenti nell’informazione dell’Agenzia italiana del farmaco è finanziata da un fondo determinato da una quota parte della spesa pubblicitaria delle aziende farmaceutiche. Ma immaginiamo di raggiungerlo, l’affrancamento dal supporto aziendale: sarebbe una garanzia di per sé? Forse no: la storia recente ha reso evidente come, in ambito sanitario, gli interessi governativi siano spesso più condizionanti di quelli industriali: eppure, qualcuno se la sentirebbe di "estendere la propria indipendenza" allargandola fino a fare a meno dei finanziamenti pubblici?
"Ricominciare a leggere, studiare, capire, parlare, ascoltare, domandare." Questa è la sola condizione dell’indipendenza: è la ricetta proposta da Giovanni De Mauro sull’ultimo numero di Internazionale, e vale per il nostro Paese piegato da mafie e camorre, come per la Sanità: "Le parole sono pericolose. Ma non basta scriverle. Le parole diventano pericolose solo quando qualcuno le legge". Chi legge le parole scritte sulle cinque riviste italiane affiliate alla ISDB? Quanti medici o farmacisti scelgono di spendere in proprio i soldi necessari per abbonarsi almeno ad uno di questi periodici? Pochi, pochissimi. Questa sì che è un’evidenza e dovrebbe obbligare chiunque a interrogarsi sul rischio di un sostanziale, collettivo fallimento. Un’idea potrebbe essere, una volta per tutte, quella di abbandonare il rassicurante sogno dell’indipendenza, sostituendo questa con altre parole chiave: rispetto delle regole e esigenza di trasparenza. Chissà che, in questo modo, non si riesca ad essere più credibili, convincenti e vicini alle sensibilità dei nostri lettori che non ci leggono.
Il ruolo dell’informazione indipendente
9 maggio 2008, Verona, Sala Marani