Un amico pittore ha scritto che l’individuo è nel volto. Non so disegnare, ma penso sia vero. L’espressione del viso di Gianni Grassi era il risultato di un’esistenza convinta, sempre alla ricerca di qualcosa che confermasse che il giorno che arriva non potrà che rivelarsi nuovo. “Sto per scoprire qualcosa di straordinariamente importante: come si muore”, mi disse l’ultima volta che ci incontrammo. Ricordo con tenerezza tanto i suoi occhi quanto lo sguardo interrogativo del giovane redattore che aveva intercettato quella frase nel corridoio della casa editrice. Era venuto a trovarmi, Grassi, solo pochi giorni prima che la malattia impedisse per sempre i suoi movimenti. Lui a trovare me, con l’incredibile naturalezza di chi pensa che un mondo capovolto sia ancora possibile.
Pochi mesi prima avevo provato a fargli cambiare idea: possibile dirsi “paziente esigente”? La parola “paziente” a me così invisa era la più adatta al suo sorriso. Come fai ad essere così sereno? ho pensato ogni volta che ci siamo incontrati o parlati. Serenità conquistata con una vita intensa, serenità costosa, come mi scrisse una settimana prima di morire: “La mattina all’alba, mentre mi risveglio chiedendomi ‘che giornata sarà? sarà valsa la pena?’, a lei posso dire che tuttora mi faccio dei bei pianti consolatori / riparatori / preparatori alla fatica – a volte – di mostrarsi normale, soddisfatto, quanto meno rassegnato”. La quieta inquietudine di chi è riuscito ad essere consapevole di se stesso nel mondo – nel proprio quartiere, nei luoghi familiari di appartenenza politica, nel proprio paese – con l’intelligenza di chi è diventato capace di acquistare una misura di distanza dal proprio corpo senza mai cessare di amarlo.
La parola “paziente” non ha voluto abbandonarla perché sapeva, evidentemente, di averne a pacchi, di pazienza. Indispensabile nel lavoro quotidiano per una medicina più umana; che non fosse chiamata a ripristinare condizioni “naturali”, piuttosto laicamente esortata a sostituire la tecnologia con le coccole. Nell’essere “paziente” era la naturalezza di non nascondere l’infermità, di non considerare la malattia un’alterazione quanto piuttosto il manifestarsi della verità della vita. Il giorno che sentii il gioco di parole da lui inventato – e divenuto una sorta di manifesto-programmatico dei suoi ultimi anni – ebbi la conferma della possibilità di offrire soluzioni semplici a problemi troppe volte resi artificialmente complessi: all’accanimento terapeutico andava sostituito l’aggattimento terapeutico. Nel morire si ha bisogno di tenerezze, di calore, di fusa.
Rientrando in casa la sera del 6 febbraio ho intruppato su uno scaffale della libreria ed è caduta la vecchia copia di “Lettera a una professoressa”, della Scuola di Barbiana. C’è chi legge nei fondi di bicchiere e chi nei libri per trovare risposte. “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. La generosità di Gianni era sì umana, ma anche profondamente politica. La generosità estrema di chi non riesce a pensare di risparmiare se stesso.
In primo piano
La generosità politica del paziente esigente
Pochi mesi prima avevo provato a fargli cambiare idea: possibile dirsi “paziente esigente”? La parola “paziente” a me così invisa era la più adatta al suo sorriso. Come fai ad essere così sereno? ho pensato ogni volta che ci siamo incontrati o parlati. Serenità conquistata con una vita intensa, serenità costosa, come mi scrisse una settimana prima di morire: “La mattina all’alba, mentre mi risveglio chiedendomi ‘che giornata sarà? sarà valsa la pena?’, a lei posso dire che tuttora mi faccio dei bei pianti consolatori / riparatori / preparatori alla fatica – a volte – di mostrarsi normale, soddisfatto, quanto meno rassegnato”. La quieta inquietudine di chi è riuscito ad essere consapevole di se stesso nel mondo – nel proprio quartiere, nei luoghi familiari di appartenenza politica, nel proprio paese – con l’intelligenza di chi è diventato capace di acquistare una misura di distanza dal proprio corpo senza mai cessare di amarlo.
La parola “paziente” non ha voluto abbandonarla perché sapeva, evidentemente, di averne a pacchi, di pazienza. Indispensabile nel lavoro quotidiano per una medicina più umana; che non fosse chiamata a ripristinare condizioni “naturali”, piuttosto laicamente esortata a sostituire la tecnologia con le coccole. Nell’essere “paziente” era la naturalezza di non nascondere l’infermità, di non considerare la malattia un’alterazione quanto piuttosto il manifestarsi della verità della vita. Il giorno che sentii il gioco di parole da lui inventato – e divenuto una sorta di manifesto-programmatico dei suoi ultimi anni – ebbi la conferma della possibilità di offrire soluzioni semplici a problemi troppe volte resi artificialmente complessi: all’accanimento terapeutico andava sostituito l’aggattimento terapeutico. Nel morire si ha bisogno di tenerezze, di calore, di fusa.
Rientrando in casa la sera del 6 febbraio ho intruppato su uno scaffale della libreria ed è caduta la vecchia copia di “Lettera a una professoressa”, della Scuola di Barbiana. C’è chi legge nei fondi di bicchiere e chi nei libri per trovare risposte. “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. La generosità di Gianni era sì umana, ma anche profondamente politica. La generosità estrema di chi non riesce a pensare di risparmiare se stesso.