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La medicina basata sulle evidenze nella valutazione dei Test Diagnostici

Introduzione

Nel corso degli ultimi vent’anni la diffusione di tecnologie avanzate ha contribuito a trasformare il procedimento diagnostico in una crescente richiesta di tests di laboratorio e strumentali [1], stimolando un’accanimento poco professionale e scientifico, e che riveste anche aspetti etici ed economici di grande rilievo sociale.
Dal 1995 il finanziamento degli ospedali è regolato dal rimborso secondo il numero e la tipologia dei ricoveri effettuati, classificati secondo un sistema isorisorse, i DRGs (Diagnosis Related Groups) o ROD (Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi). Tale sistema rende intollerabile l’uso inappropriato di procedure diagnostico-terapeutiche ed impone un rigoroso monitoraggio delle prestazioni erogate per contenere i costi non necessari e rientrare nelle tariffe previste. Il medico seleziona i tests diagnostici, prescrive i farmaci, decide l’opportunità di un ricovero ospedaliero e ne programma la durata della degenza, e rappresenta quindi un gestore di risorse che, oltre a definire le strategie cliniche per un’assistenza sanitaria efficace, de-ve contribuire a garantire l’efficienza aziendale.
Tali nuove responsabilità, non previste dalla formazione universitaria [2] né dalle scuole post-laurea, fanno temere che una riduzione delle risorse disponibili possa determinare variazioni significative nella condotta clinica, in particolare della qualità delle prestazioni erogate; tuttavia le stesse leggi [3] che regolano il sistema dei DRGs prevedono, attraverso sistematiche iniziative di audit medico, la continua verifica e revisione della qualità dell’assistenza prestata (VRQ).
Si impone pertanto un’attenta revisione delle metodologie di lavoro affinché, con l’utilizzo di procedure diagnostico-terapeutiche di documentata efficacia e con l’abbandono di quelle obsolete, venga favorita una migliore distribuzione delle risorse e sia mantenuta la qualità dell’assistenza ad un livello ottimale.

L’abuso dei tests diagnostici: le motivazioni socio-culturali

L’uso indiscriminato di indagini diagnostiche dà luogo ad un meccanismo a cascata che ha gravi ripercussioni sull’efficacia e sull’efficienza dell’assistenza ospedaliera [1]: il numero elevato di indagini richieste, talora invasive, determina una congestione dei servizi con allungamento sia dei tempi di degenza (risultati falsi-positivi, diagnosi ritardate, eventuali danni iatrogeni) che di quelli di attesa.
Ad eccezione del beneficio psicologico nel rassicurare medico e paziente, l’abuso di tests diagnostici è anche fonte di informazioni ridondanti. L’utilità clinica non riflette l’entusiasmo e la celerità con cui nuove indagini si diffondono, con conseguente lievitamento dei costi e rischio di errori specie se il test è poco accurato o scarsamente riproducibile. Purtroppo il numero di esami è in costante aumento nella pratica clinica, perché alla disponibilità del medico ad accettare le novità, anche in assenza di dimostrata utilità, si contrappone la sua ostinata riluttanza ad abbandonare i tests obsoleti, anche quando rigorose valutazioni ne dimostrano l’inutilità clinica, talvolta relegandoli nella storia della Medicina.
Le motivazioni che conducono all’abuso dei tests diagnostici sono molteplici: Lundberg [4], attraverso un’indagine condotta tra i medici, ne riporta ben 34, alcune più importanti di altre.

  • Gli stimoli allo sviluppo tecnologico, oltre a derivare dal progresso scientifico, sono fortemente influenzati dall’interesse delle industrie a conquistare consistenti spazi di mercato.
  • La disinformazione del medico sulle caratteristiche dei tests (sensibilità, specificità, valore predittivo, costi), come conseguenza di una formazione universitaria [2] e di un aggiornamento professionale poco adeguati.
  • L’insicurezza del medico: trascurando il fatto che i dati clinici generano spesso ipotesi diagnostiche più efficaci [5] dei tests diagnostici, egli ritiene che all’aumento delle indagini richieste corrispondano maggiori probabilità di una diagnosi corretta.
  • La mania di grandezza culturale, spesso mista a pura curiosità, che mira al completamento totale delle indagini con la scusa di uno studio completo del paziente.
  • L’eccesso di prudenza del medico per tutelarsi dal punto di vista medico-legale. Quanti sono i medici che valutano accuratamente la probabilità pre-test di malattia cerebrovascolare [6] e richiedono la TAC cerebrale solo quando il sospetto clinico è adeguato?
  • L’insistenza del paziente e la disponibilità del medico ad assecondare le sue richieste, quasi sempre conseguenti all’informazione troppo poco scientifica dei mass-media.
  • La mancata rigorosa valutazione [7] dei tests prima di una loro diffusione su larga scala. Per la maggior parte dei tests diagnostici, le riviste biomediche pubblicano studi di valutazione a livelli differenti, per cui spesso un nuovo test si diffonde nella pratica clinica senza una valutazione adeguata. Per contro, indagini di utilità clinica dimostrata sono talvolta poco utilizzate per lo scarso interesse editoriale e/o commerciale che ne limita la diffusione [8].

L’utilizzo clinico dei tests diagnostici

Il criterio fondamentale per decidere quando e quale test utilizzare è costituito dalla sua utilità clinica, definita come la capacità intrinseca di un test, qualunque sia il risultato, di modificare la decisione del medico in senso diagnostico, prognostico o terapeutico. La finalità delle indagini di laboratorio e strumentali non è esclusivamente diagnostica, in quanto le informazioni ottenute possono essere utilizzate per altri obiettivi: lo screening/case finding, la prognosi, il monitoraggio della malattia e/o del trattamento.

Screening e case-finding

L’utilizzo dei tests per l’identificazione precoce di malattie in pazienti asintomatici ha l’obiettivo di diagnosticare quelle patologie la cui morbilità e mortalità possono essere ridotte da un trattamento precoce. Affinché ciò sia possibile è necessario che la malattia, oltre ad essere abbastanza diffusa da giustificarne la diagnosi precoce, sia gravata da un’importante morbilità/mortalità se non trattata; inoltre l’efficacia del trattamento dev’essere superiore nei pazienti asintomatici rispetto a quello dei pazienti inizialmente sintomatici[8]. In ogni caso lo screening deve modificare favorevolmente la storia naturale della malattia, non solo anticipando il momento della diagnosi, ma migliorando la qualità di vita e/o la sopravvivenza; altrimenti le uniche conseguenze della diagnosi precoce sono relative all’aumento dei costi ed ai risvolti psicologici sul paziente ed i suoi familiari. In base a tali presupposti il test di screening, generalmente unico e mirato all’identificazione di una sola malattia, può essere applicato sia alla popolazione generale (screening per la fenilchetonuria nei neonati), sia in particolari sottogruppi a rischio (dosaggio del colesterolo nei soggetti con familiarità per cardiopatia ischemica).
La non corretta interpretazione del concetto di screening attraverso l’utilizzo dei cosiddetti esami di routine si è progressivamente identificata nel case-finding, ossia nel tentativo di identificare una malattia asintomatica, o un dato patologico, a seguito dell’esecuzione di un numero di indagini più o meno ampio. Tuttavia i risultati sono molto deludenti: per numerose indagini, ECG [9-10], radiografia del torace [11-12], emocromo [13-15], formula leucocitaria [15-18], profili biochimici [19-21], esame delle urine [22], è stato dimostrato che la loro richiesta senza sospetto clinico è di scarsa utilità, perché raramente conduce a nuove diagnosi e quasi mai a nuovi trattamenti. Inoltre i risultati falsi-positivi, la cui frequenza cresce esponenzialmente con il numero dei tests richiesti [19], scatenano una cascata di ulteriori indagini inutili [1] e peripezie diagnostiche, configurando la cosiddetta sindrome di Ulisse [23], causa di incremento dei costi e fonte di apprensione per il paziente.
In definitiva la richiesta di tests diagnostici senza uno specifico sospetto clinico, alla ricerca di dati patologici che possano guidare la diagnosi, non è supportata da alcuna evidenza, è poco efficiente, dispendiosa e può determinare anche clamorosi errori.

Diagnosi

La strategia esaustiva concepisce il processo diagnostico in due fasi [5]: nella prima viene costruito in maniera acritica ed afinalistica il database del paziente, quindi, sulla base della mole di dati raccolti, si inizia il ragionamento diagnostico. è ovvio che l’esaustività che regola la raccolta dei dati clinici si riflette, con gravi conseguenze economiche, sulla richiesta dei tests diagnostici, per cui tale strategia, tipica del medico principiante ed invalidata da numerosi studi, dovrebbe essere definitivamente abbandonata [5].
Il metodo che meglio si accorda con il concetto di efficienza diagnostica, cioè l’identificazione della malattia utilizzando il minor numero di indagini, è quello ipotetico-deduttivo: i primi dati del paziente (sintomi/segni principali, età, sesso, fattori di rischio) suggeriscono precocemente una o più ipotesi diagnostiche [24], che indirizzano l’ulteriore ricerca dei dati clinici, di laboratorio e strumentali; la loro progressiva acquisizione rimodella l’ipotesi iniziale ed indirizza la ricerca di nuovi elementi sino alla formulazione della diagnosi corretta. Secondo tale strategia, i tests sono utili quando il grado di certezza diagnostica derivante dalla storia e dall’esame obiettivo è insufficiente per prendere decisioni cliniche [8].
Tuttavia la capacità intrinseca di un test di ridurre questi margini di incertezza è ampiamente variabile [25], per cui la sua richiesta a scopi diagnostici deve risultare dalla valutazione di numerosi fattori.

  • Probabilità pre-test di malattia: se la probabilità di malattia prima di eseguire un test diagnostico risulta troppo bassa o troppo alta, il suo risultato non modifica significativamente la probabilità post-test e quindi la decisione clinica: ad esempio, in una giovane donna con sospetta infezione non complicata delle vie urinarie, sostenute prevalentemente da germi Gram-negativi, l’urinocoltura ha un ruolo limitato [26] perché raramente modifica la scelta dell’antibiotico; analogamente, nella valutazione di una paziente con una sfumata sintomatologia articolare, la positività agli anticorpi antinucleo (ANA) aumenta la probabilità di LES [8] solo dal 2 al 10%.
  • Sensibilità e specificità del test: sono caratteristiche proprie di ciascun test, che riflettono le informazioni attese in pazienti con o senza la malattia presa in esame. Un risultato positivo non fornisce la certezza assoluta di malattia, considerato che può esserlo sia in pazienti malati, proporzionalmente alla sua sensibilità, sia in soggetti sani, in relazione inversa alla sua specificità; analogamente la negatività di un test, proporzionale alla sua specificità in un soggetto sano ed in relazione inversa alla sensibilità nei soggetti malati, non è sempre associata all’assenza di malattia.
    Pertanto i tests molto sensibili sono utili per escludere, se negativi, una malattia, mentre quelli ad elevata specificità, quando positivi, servono per confermare l’ipotesi diagnostica.
    Considerato che per una buona parte dei tests di laboratorio i risultati si dispongono lungo una scala di valori numerici, è opportuno distinguerli in tre gruppi: quelli che rientrano nel range di normalità[*] indicano verosimilmente l’assenza di malattia; quelli nettamente patologici, ed una fascia intermedia che dev’essere adeguatamente interpretata in relazione al contesto clinico del paziente. In quest’ultimo gruppo rientrano infatti molti risultati falso-positivi, che per un fenomeno puramente statistico risultano normali ad una determinazione successiva (regressione verso la media).
    La sensibilità e la specificità di un test sono influenzati dal variare del cut-off considerato, perché allontanandosi dal risultato di normalità aumenta la specificità del test, ma si riduce la sua sensibilità: ad esempio, per la diagnosi di epatite virale acuta [8] ad un valore di transaminasi inferiore a 200 U/L corrispondono una sensibilità del 99% ed una specificità dell’81%; mentre per valori superiori a 1000 U/L la sensibilità si riduce al 28%, ma la specificità raggiunge il 100%. Tali variazioni, espresse graficamente mediante le curve ROC (Receiver Operating Characteristic), sono di grande utilità clinica nel determinare il valore soglia idoneo da utilizzare per il singolo paziente: ad esempio, nella valutazione di un sospetto infarto del miocardio una diagnosi “falsamente negativa” ha conseguenze ben più gravi di una “falsamente positiva”, per cui è opportuno abbassare la soglia di normalità della creatinkinasi (CK-MB), massimizzandone la sensibilità anche se questo comporta una riduzione della sua specificità.
    Un altro indice di accuratezza dei tests diagnostici è costituito dal rapporto di verosimiglianza, Likelihood Ratio (LR), che indica la verosimiglianza della presenza o dell’assenza di malattia e corrisponde al rapporto veri positivi/falsi positivi per un test positivo ed al rapporto veri negativi/falsi negativi, per un test negativo.
  • Accettabilità del test in relazione al vantaggio diagnostico: un’attenta valutazione del rischio, dell’invasività e dei costi del test può suggerire l’ipotesi di prendere una decisione terapeutica senza eseguirlo.
  • Effetti del test sulla decisione clinica: se si prevede che questa non venga modificata dal risultato del test è inutile eseguirlo, specie se costoso e/o invasivo: in un paziente di 60 anni con diagnosi ecografica di epatocarcinoma diffuso e valori di alfa-fetoproteina superiori a 500 ng/ml la TAC non riveste alcuna utilità, considerato che non esiste alcuna prospettiva di trattamento.
  • Escludere una malattia diversa da quella sospettata per la quale gli effetti del trattamento precoce sono estremamente vantaggiosi: in un giovane paziente con ipertransaminasemia l’ipotesi di epatite virale cronica è quella più verosimile; tuttavia è opportuno dosare la ferritina e la ceruloplasmina, considerato che sia l’emocromatosi che la malattia di Wilson progrediscono inesorabilmente verso la cirrosi in assenza di trattamento.

Monitoraggio della malattia

è rivolto all’identificazione di nuove alterazioni fisiopatologiche non rilevabili soggettivamente né obiettivamente, e può richiedere l’utilizzo di tests diagnostici; tuttavia solo un’accurata conoscenza della storia naturale della malattia può consentire un loro adeguato utilizzo, sia nella scelta qualitativa che nella frequenza del follow-up. Ad esempio, non esiste alcun razionale nel prescrivere ripetute e numerose indagini biochimiche in pazienti con cirrosi compensata, nei quali è sufficiente, in concomitanza con lo screening semestrale per l’epatocarcinoma con ecografia ed a1-fetoproteina, un follow-up limitato a pochi tests [27]: quelli volti a rilevare la comparsa di segni di ipersplenismo (leucociti, piastrine), e quelli relativi alla funzionalità epatica (albumina, attività di protrombina, bilirubina).

Monitoraggio della terapia

Monitorare gli effetti di un trattamento ha un duplice obiettivo: verificare se la risposta terapeutica è adeguata e rilevare precocemente l’eventuale comparsa di effetti collaterali. Molto spesso gli indici di monitoraggio della risposta terapeutica sono clinici: ad esempio, in un paziente con polmonite pneumococcica in trattamento antibiotico non è di alcuna utilità ripetere ogni 2-3 giorni una radiografia del torace, visto che la risposta clinica è più precoce del miglioramento radiologico [8].
Un singolo test può essere impiegato per il monitoraggio sia della terapia che degli effetti collaterali (ad esempio l’attività protrombinica durante la terapia con dicumarolici), ma più frequentemente sono utili tests diversi, sia contemporaneamente che in momenti differenti: ad esempio, durante il trattamento dell’epatite virale cronica con a-interferone, la riduzione dei valori delle transaminasi (efficacia della terapia) non si osserva generalmente prima di 4-8 settimane di trattamento, mentre una severa piastrinopenia (effetti collaterali) è descritta anche dopo le prime somministrazioni del farmaco.

Prognosi

L’utilizzo dei tests diagnostici fornisce anche informazioni prognostiche, anzi talvolta essi vengono utilizzati con questo obiettivo primario; se infatti si postula che [28], talvolta la necessità di una prognosi adeguata, specie se è il paziente a richiederla, impone l’esecuzione di tests anche invasivi. è piuttosto recente l’evidenza [29] che in soggetti anti-HCV positivi viremici, con valori di transaminasi sempre normali, senza alcuna evidenza clinica, bio-chimica o ecografica di malattia cronica di fegato, l’istologia mostra spesso quadri variabili di epatite cronica sino alla cirrosi. In questo caso le evidenze scientifiche possono motivare la biopsia epatica più a fini prognostici che terapeutici, considerato che i dati disponibili [30-31] sull’efficacia del trattamento con a-interferone sono insufficienti e contrastanti.

Le evidenze scientifiche

La Medicina basata sulle evidenze, evidence-based medicine (EBM) [32], costituisce un modello di pratica clinica nella quale [33]. Un’integrazione tra esperienza ed evidenze scientifiche è indispensabile per garantire un’assistenza sanitaria efficace per il paziente ed efficiente per l’azienda: senza l’esperienza clinica, anche le migliori evidenze disponibili non sono applicabili al singolo paziente, mentre senza l’apporto delle evidenze scientifiche la pratica clinica diventa presto datata, sia riguardo alla mancata introduzione di procedure efficaci, sia per il continuo utilizzo di procedure inefficaci o addirittura dannose per il paziente [33].
A parte una serie di difficoltà sollevate da chi ne ostacola la diffusione [34] e da chi espande oltre i limiti la zona grigia [35], definita da quelle aree dove non esistono sufficienti evidenze sui benefici/rischi di un intervento sanitario, l’EBM ha il potenziale scientifico per consentire una metamorfosi dell’arte della Medicina e trasformare la formazione e la pratica delle prossime generazioni di medici [32].
Nella selezione di un test diagnostico [36], il grado di evidenza costituisce un criterio valido di scelta perché oggettivo, verificato e riproducibile; tuttavia per una valutazione adeguata della letteratura scientifica relativamente ai tests diagnostici, è necessario considerare alcuni standard metodologici che gli studi clinici devono possedere già al momento della loro pianificazione [7]:

  • Composizione del campione: si è visto come l’accuratezza diagnostica di un test è misurata dalla sua sensibilità, specificità oppure dal rapporto di verosimiglianza. Queste caratteristiche, spesso considerate omogenee, variano invece considerevolmente quando applicate a popolazioni con caratteristiche differenti, sia demografiche (età e sesso) che cliniche (durata e severità della malattia, comorbidità); pertanto se il campione di soggetti studiati non è dettagliatamente descritto il test può avere una utilità clinica limitata.
  • Analisi dei sottogruppi: anche quando il campione di pazienti è adeguatamente descritto è possibile che gli indici di accuratezza costituiscano solo dei valori medi e di conseguenza la performance del test diagnostico può variare considerevolmente nei diversi sottogruppi. Un esempio paradigmatico è costituito dall’entusiasmo che seguì la scoperta dell’antigene carcinoembrionario (CEA) come marker precoce di carcinoma del colon: l’analisi dei sottogruppi ha dimostrato che la sensibilità del test negli stadi più avanzati (Dukes D) supera il 60%, mentre nello stadio iniziale di malattia (Dukes A), quando avrebbe una rilevante utilità clinica, è inferiore al 3%.
  • Comparazione del test con un gold standard: un nuovo test dev’essere confrontato con una metodica diagnostica standard (con sensibilità e specificità ~ 100%) che stabilisca con certezza la diagnosi: ad esempio, l’accuratezza diagnostica di un ECG da sforzo può essere determinata solo dal confronto con la coronarografia. Negli studi clinici accade spesso che il confronto venga eseguito solo nei pazienti con risultato positivo (o negativo) a seconda delle circostanze, con conseguente distorsione (workup bias) degli indici di accuratezza: infatti se la coronarografia viene eseguita solo nel gruppo dei pazienti con test da sforzo positivo, la sensibilità del test risulta falsata, considerato che un certo numero di pazienti con test da sforzo negativo (falsi negativi), potrebbe avere lesioni coronariche significative. Se il gold standard è costituito da un’indagine che presenta rischi elevati, può essere sostituito da un adeguato monitoraggio clinico che tuttavia, specie per le malattie croniche, non costituisce un indice affidabile, considerato che durante il periodo di follow-up gli eventi clinici attesi possono non manifestarsi.
  • Evitare i review bias: la valutazione di un nuovo test dev’essere fatta indipendentemente e separatamente da quella del gold standard, specie se quest’ultimo viene eseguito per primo, per evitare che venga influenzata l’interpretazione del test in studio.
  • Precisione dei risultati per l’accuratezza del test: è necessario che gli intervalli di confidenza vengano accuratamente riportati, considerata la variabilità degli indici di accuratezza in relazione alla numerosità del campione di pazienti studiato.
  • Presentazione dei risultati indeterminati: nella pratica clinica, quando il risultato di un test diagnostico è equivoco o indeterminato e pertanto “non diagnostico”, sono necessarie ulteriori indagini. Un’elevata frequenza di tali risultati rende un nuovo test di limitata efficacia clinica: infatti il rapporto costo/beneficio del test aumenta perché sono necessarie altre indagini e gli indici di accuratezza sono distorti perché calcolati solo sui risultati chiaramente positivi o negativi.
  • Riproducibilità del test: considerato che spesso il risultato di un test dipende dalla variabilità dell’osservatore (imaging, istologia) o dalla standardizzazione delle procedure di laboratorio, la sua riproducibilità è un elemento indispensabile per valutarne gli indici di accuratezza diagnostica.
    Una recente valutazione metodologica [7] della ricerca clinica relativa ai tests diagnostici ha esaminato, secondo questi criteri, articoli pubblicati dal 1978 al 1993 su quattro prestigiose riviste (New England Journal of Medicine, Journal of American Medical Association, British Medical Journal, Lancet). è apparso che solo 1/112 soddisfaceva i 7 criteri, e 62/112 ne soddisfacevano meno di 3. Una rigorosa valutazione di nuovi tests diagnostici è in effetti ancora poco diffusa, soprattutto in relazione al livello metodologico raggiunto dalle sperimentazioni cliniche controllate (RCTs) e dalle meta-analisi per valutare l’efficacia dei trattamenti: sino al giugno del 1992 erano disponibili ben 435 meta-analisi di RCTs [38], mentre Irwig et al [39], dal gennaio 1990 al dicembre 1991, ne hanno identificato solo 11 relative ai tests diagnostici. Va aggiunto che le metodologie appropriate per realizzarle sono state definite solo recentemente [39-40].

Una rigida valutazione sistematica dei tests diagnostici prima dell’introduzione nella pratica clinica potrebbe invece offrire numerosi vantaggi.

  • Limitare l’introduzione di nuovi tests privi di utilità clinica prima che una diffusione su larga scala ne renda difficile l’abbandono: ad esempio, nonostante da diversi anni si sia dimostrato che il dosaggio dell’ammoniemia non riveste alcun ruolo nella diagnosi e nel monitoraggio dell’encefalopatia epatica, il test non è stato abbandonato.
  • Migliorare la qualità dell’informazione clinica: l’uso appropriato dei tests diagnostici viene facilitato se gli indici di accuratezza e di riproducibilità vengono riportati per i vari sottogruppi di pazienti studiati.
  • Ridurre i costi e migliorare la gestione del paziente: anche se non esistono evidenze dirette, l’efficacia e l’efficienza dell’assistenza migliorano se non vengono utilizzati tests inadeguati che, oltre ai costi diretti, impongono il trattamento di “falsi-malati” e non consentono quello di malattie non correttamente diagnosticate [41].

Conclusioni

La grande variabilità nell’utilizzo di procedure diagnostico-terapeutiche, la crisi della professione medica e la difficoltà di gestire in maniera efficiente le strutture sanitarie dipendono in buona parte dal fatto che in molte aree della Medicina si continua ad operare in condizioni di incertezza [42], utilizzando spesso con metodi empirici strumenti tecnologici molto avanzati, a testimonianza dell’insufficiente comunicazione tra ricerca e pratica. Considerato che le nuove regole istituzionali impongono al medico di erogare un’assistenza sanitaria efficace per il paziente ed efficiente per l’azienda, si dovrebbero utilizzare solo interventi diagnostico-terapeutici di efficacia documentata ed abbandonare quelli inutili, obsoleti o rischiosi per il paziente. Tutto ciò richiede un rapido trasferimento dei risultati della ricerca alla pratica clinica, attualmente inadeguato ed insufficiente a modificarla: il volume di informazioni, la mancanza di competenze metodologiche da parte dei medici ed il “linguaggio” della ricerca, sono fattori che ostacolano notevolmente questo processo.
Tale consapevolezza ha stimolato la ricerca di nuovi strumenti di lavoro, primo tra tutti le linee-guida [42], intese come ù appropriate in specifiche circostanze cliniche” [43]. Le linee-guida, spesso viste dalla classe medica come un’imposizione di ricette preconfezionate, sicuramente non costituiscono la soluzione per i mali della Medicina moderna, ma sono uno strumento indispensabile per facilitare il trasferimento dei risultati della ricerca alla pratica clinica, compito molto arduo per il singolo medico, ma reso d’obbligo anche dal Codice deontologico [44].

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