Raccontare è essenzialmente condividere. E chi si incammina lungo la via della medicina presto scopre il potere balsamico della condivisione. Non bisogna fare molta strada tra i corridoi degli ospedali per imbattersi in un coetaneo malato di un tumore inguaribile, o rispecchiarsi in un figlio o una figlia (come te) che piange il proprio genitore; fratelli e sorelle, sposi, amici tutti che si portano addosso la zampata inattesa della malattia. Ti dicono che le risposte sono nascoste nello studio, nella scienza, ma più sfogli quei libri che ti porti sempre appresso, più ti accorgi che non ci sono ricette per la sofferenza, non ci sono formule chimiche per il dolore dell’anima. Parlarne con chi percorre la tua stessa strada forse è l’unico modo per diluire quell’acido che piano piano ti sembra erodere il tuo spirito, la tua volontà, le tue motivazioni. Scoprirsi in biblioteca o in aula a raccontare di quella ragazza che è rimasta paraplegica e poi poco dopo organizzare la serata al cinema o in pizzeria. Perché in fondo la vita, la tua e quella dei tuoi compagni di studio, va avanti, deve essere vissuta. E forse proprio perché siete stati tutti toccati dall’immensità, allora merita proprio dare significato a ciò che si ha. Carpe diem, è proprio il caso di dirlo.
Arriva un giorno, e ti accorgi che è molto tempo che non parli più di quello che vedi e senti e incontri in ospedale.
Ma non è sempre così. Arriva un giorno, e ti accorgi che è molto tempo che non parli più di quello che vedi e senti e incontri in ospedale. Non sai quando hai smesso di raccontare. Forse quando hai iniziato a lavorare, e non sei più studente in mezzo ad altri studenti, ma un giovane assistente in mezzo a molti medici esperti. Uno che deve far emergere il suo valore e la sua forza, non le sue debolezze, uno che deve ingoiare e non lasciarsi prendere dalla nausea. Poi la famiglia, un marito o una moglie che fanno un altro lavoro, che dormono a casa tutte le notti, sono a casa il sabato e la domenica e si godono le feste comandate, loro no, non capiscono cosa vuol dire. Oppure se fanno il tuo stesso lavoro alla fine è meglio non parlarne, lasciare fuori casa tutte le brutture del mondo. Ritagliarsi un angolo sicuro e pulito dove magari mettere al mondo dei figli e andare avanti.
E forse questa tecnica funziona. Per un po’, di sicuro. Ma se guardi attentamente, ti accorgi che a forza di ingoiare, e arginare, di rinchiudere e non lasciare uscire, si è creato un vuoto, una voragine di solitudine che non aspetta altro che di raggiungere la superficie e frantumare le fragili pareti del tuo essere. Ed ecco che qualcuno si inventa un sito, o un blog, o una rubrica virtuale, dove è possibile raccontarsi di nuovo, come quando si era studenti, ascoltare e condividere, rispondere, commentare. Finalmente un modo per non sentirsi completamente soli. E ancora meglio quando ti puoi incontrare con i tuoi colleghi senza la divisa dell’ospedale, senza quei colori che talvolta sembrano più ispirare una guerriglia fra bande che non la semplice suddivisione di compiti e competenze.
Ti accorgi che a forza di ingoiare, e arginare, di rinchiudere e non lasciare uscire, si è creato un vuoto.
Questo sono io, senza la paura di sbagliare, o la voglia di primeggiare, o la stanchezza della notte insonne. Sono io, con i miei limiti e i miei difetti, ma anche con le mie qualità e le mie doti.
Sono io, navigatore solitario, in un intreccio di rotte amiche.
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La navigazione solitaria del medico
Raccontare è essenzialmente condividere. E chi si incammina lungo la via della medicina presto scopre il potere balsamico della condivisione. Non bisogna fare molta strada tra i corridoi degli ospedali per imbattersi in un coetaneo malato di un tumore inguaribile, o rispecchiarsi in un figlio o una figlia (come te) che piange il proprio genitore; fratelli e sorelle, sposi, amici tutti che si portano addosso la zampata inattesa della malattia. Ti dicono che le risposte sono nascoste nello studio, nella scienza, ma più sfogli quei libri che ti porti sempre appresso, più ti accorgi che non ci sono ricette per la sofferenza, non ci sono formule chimiche per il dolore dell’anima. Parlarne con chi percorre la tua stessa strada forse è l’unico modo per diluire quell’acido che piano piano ti sembra erodere il tuo spirito, la tua volontà, le tue motivazioni. Scoprirsi in biblioteca o in aula a raccontare di quella ragazza che è rimasta paraplegica e poi poco dopo organizzare la serata al cinema o in pizzeria. Perché in fondo la vita, la tua e quella dei tuoi compagni di studio, va avanti, deve essere vissuta. E forse proprio perché siete stati tutti toccati dall’immensità, allora merita proprio dare significato a ciò che si ha. Carpe diem, è proprio il caso di dirlo.
Ma non è sempre così. Arriva un giorno, e ti accorgi che è molto tempo che non parli più di quello che vedi e senti e incontri in ospedale. Non sai quando hai smesso di raccontare. Forse quando hai iniziato a lavorare, e non sei più studente in mezzo ad altri studenti, ma un giovane assistente in mezzo a molti medici esperti. Uno che deve far emergere il suo valore e la sua forza, non le sue debolezze, uno che deve ingoiare e non lasciarsi prendere dalla nausea. Poi la famiglia, un marito o una moglie che fanno un altro lavoro, che dormono a casa tutte le notti, sono a casa il sabato e la domenica e si godono le feste comandate, loro no, non capiscono cosa vuol dire. Oppure se fanno il tuo stesso lavoro alla fine è meglio non parlarne, lasciare fuori casa tutte le brutture del mondo. Ritagliarsi un angolo sicuro e pulito dove magari mettere al mondo dei figli e andare avanti.
E forse questa tecnica funziona. Per un po’, di sicuro. Ma se guardi attentamente, ti accorgi che a forza di ingoiare, e arginare, di rinchiudere e non lasciare uscire, si è creato un vuoto, una voragine di solitudine che non aspetta altro che di raggiungere la superficie e frantumare le fragili pareti del tuo essere. Ed ecco che qualcuno si inventa un sito, o un blog, o una rubrica virtuale, dove è possibile raccontarsi di nuovo, come quando si era studenti, ascoltare e condividere, rispondere, commentare. Finalmente un modo per non sentirsi completamente soli. E ancora meglio quando ti puoi incontrare con i tuoi colleghi senza la divisa dell’ospedale, senza quei colori che talvolta sembrano più ispirare una guerriglia fra bande che non la semplice suddivisione di compiti e competenze.
Questo sono io, senza la paura di sbagliare, o la voglia di primeggiare, o la stanchezza della notte insonne. Sono io, con i miei limiti e i miei difetti, ma anche con le mie qualità e le mie doti.
Sono io, navigatore solitario, in un intreccio di rotte amiche.
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