La ricerca in psicoterapia costituisce uno dei settori più interessanti e ricchi di implicazioni cliniche delle scienze del comportamento. Analogamente agli studi controllati a doppio cieco in medicina ha una storia piuttosto recente. Convenzionalmente se ne fa datare l’inizio alla comparsa dell’articolo-provocazione di Eysenck sulla efficacia della psicoterapia nel 1952, anche se esistevano esempi di studi controllati già in precedenza (Eysenck, 1952).
In una prima fase del suo sviluppo (1952-1980) è caratterizzata dalla necessità di dimostrare che la psicoterapia non è solo un costoso placebo, come sosteneva Eysenck. Per ottenere questa dimostrazione vengono effettuati centinaia di studi controllati. La metodologia è la più svariata e subisce una notevole evoluzione. All’interno del modello sperimentale estensivo si introducono gruppi di controllo non sottoposti ad alcun trattamento, in lista di attesa, sottoposti ad altri trattamenti, o di tipo attenzione placebo. All’interno del disegno intensivo, invece, si fanno strada metodologie per lo studio di pazienti singoli. Progressivamente emergono altri importanti dettagli metodologici come l’uso di valutatori in cieco (blind raters) sia degli esiti che dell’integrità del trattamento (in modo da verificare la possibilità che il terapeuta inavvertitamente tenda a deviare dal protocollo stabilito). Altri ambiti della ricerca in psicoterapia riguardano il processo stesso e le variabili in grado di influenzarlo (paziente, atteggiamento del terapeuta, numero di sedute, tipo di interpretazioni, ecc.). Sostanzialmente si riesce a dimostrare che la psicoterapia non è semplice placebo e che molti trattamenti producono effetti superiori a quelli di gruppi di controllo (Smith et al., 1980). Quando si passa a confrontare tipi di psicoterapia diversi (psicodinamica, comportamentale, ecc.) i risultati destano però notevoli perplessità, in quanto non sembrano registrare grosse differenze. Emerge la consapevolezza della potenza di fattori non specifici come l’attenzione, la possibilità per il paziente di manifestare il proprio disagio ed il fornire delle spiegazioni per i disturbi (interpretazioni).
Questa prima fase della ricerca passa pressoch inosservata in Italia sia nell’ambito della psicologia che in quello della psichiatria. come d’altronde molte altre cose a livello internazionale.
Nel 1980 la pubblicazione del DSM-III segna una svolta fondamentale. Fino a quel momento la ricerca clinica in psicoterapia utilizzava campioni di pazienti estremamente eterogenei, spesso costituiti da studenti universitari volontari o da un insieme di disturbi nevrotici. Ben presto ci si rende conto che non è più possibile. Occorre verificare l’efficacia della psicoterapia nell’ambito di specifici disturbi psichiatrici (depressione maggiore, agorafobia, ecc.). Lo stesso ambito nel quale si muove la ricerca psicofarmacologica. Ed iniziano gli studi controllati effettuati su campioni di pazienti con disturbi psichiatrici specifici. L’ambito nel quale maggiormente si sviluppano è quello dei disturbi affettivi (ansiosi e depressivi). Il caso dell’agorafobia con attacchi di panico è forse il più indicativo (Fava, 1988). È attraverso una serie di studi controllati che emerge l’ingrediente essenziale della terapia dell’agorafobia (l’esposizione in vivo) e si ottiene una semplificazione terapeutica considerevole rispetto alla tecnica comportamentale originaria basata sulla desensibilizzazione sistematica. In questo processo il contributo di un ricercatore inglese, Isaac Marks, risulta fondamentale. Ed è proprio dal gruppo di Marks che viene effettuato uno degli studi controllati più belli nell’ambito della ricerca in psicoterapia, lo studio Londra-Toronto (Marks et al., 1993). Un elemento fondamentale di questo studio è il ricorso a quattro gruppi terapeutici (alprazolam + esposizione; placebo + esposizione; alprazolam + rilassamento; placebo + rilassamento). In questo modo è possibile valutare separatamente il contributo sia di un farmaco e del suo placebo, che di una terapia psicologica (esposizione) e del suo placebo (rilassamento). Ma altri elementi essenziali sono la sua effettuazione in due centri separati (Londra e Toronto), l’uso di valutatori blind, la valutazione dei risultati anche ad una certa distanza dalla fine dello studio.
In tutti questi studi controllati effettuati dagli anni ’80 in poi viene dimostrata l’efficacia della psicoterapia (essenzialmente ad orientamento cognitivo-comportamentale) in numerosi disturbi psichiatrici. Non solo: in molti casi questa efficacia è pari, se non maggiore, a quella di una appropriata farmacoterapia.
Purtroppo da questo panorama è sostanzialmente esclusa la ricerca italiana. Perch? Un primo livello di risposta è molto semplice: si tratta del cronico, generale ritardo della ricerca italiana nell’ambito delle scienze del comportamento (Fava & Montanari, 1996). Se si trattasse semplicemente di questo non si spiegherebbe, però, come mai la ricerca italiana stia invece dando importanti contributi in altri campi (ad esempio, la psicopatologia e farmacoterapia dei disturbi affettivi). E non sarebbe possibile capire come nell’anno 1996 vengano ancora organizzati convegni sulla possibilità di misurare gli esiti della psicoterapia (siamo indietro di 40 anni?).
È evidente che la risposta è più complessa e va ricercata in un insieme di fattori, che possono comprendere:
a) il fatto che l’orientamento prevalente dei potenziali ricercatori nell’ambito della psicoterapia sia in Italia ancora di tipo psicodinamico, a differenza della maggior parte dei paesi europei e nordamericani;
b) la difficoltà a trovare finanziamenti per questo tipo di studi (a differenza di quelli di tipo farmacologico);
c) l’estrema complessità delle ricerche in psicoterapia (sia per la loro gestione che per il training degli psicoterapeuti che vi collaborano), che richiedono un’impostazione ad alto livello nell’ambito della psicologia clinica;
d) il clima imperante in ambito psichiatrico di ipersemplificazione biologica (o farmaceutica), che contrappone ai successi di ricerca e clinici dell’approccio neurobiologico la vaghezza dell’approccio psicoanalitico;
e) la convinzione che l’approccio psicoterapico sia in fondo un optional, che può al massimo integrare favorevolmente quello farmacologico, ma che non è in grado di porsi come sua alternativa, quando si parli di specifici disturbi psichiatrici (convinzione che non è affatto suffragata dall’evidenza scientifica);
f) la mancanza per la ricerca in psicoterapia di una cassa di risonanza come quella farmaceutica, in grado di manipolare (e non solo in Italia) convegni ed aggiornamento.
A questo punto può sorgere spontaneo un interrogativo: potrà mai esserci un filone di ricerca dedicato alla psicoterapia in Italia?
L’esperienza del mio gruppo di ricerca negli ultimi dieci anni prova che questo è possibile, soprattutto qualora ci si orienti verso il fatto che confrontare trattamenti diversi in pazienti con una determinata diagnosi psichiatrica non è l’unica forma di ricerca in psicoterapia. Il disegno controllato può essere anche utilizzato in ambiti selezionati, come il trattamento dei sintomi residui in pazienti trattati con successo dal punto di vista farmacologico per depressione maggiore (Fava et al., 1994; 1996). Oppure in quello dei pazienti che non rispondono s terapie standardizzate, come abbiamo analizzato nel disturbo di panico con un disegno sperimentale di tipo cross-over bilanciato a tre gruppi (imipramina, esposizione, psicoterapia cognitiva) (Fava et al., 1997). Il vantaggio di questo tipo di studi è quello di poter utilizzare campioni di modesta numerosità (malgrado questo richiedono anni di lavoro). Il disegno sperimentale di tipo controllato non è tuttavia l’unica forma di ricerca in psicoterapia. Abbiamo, ad esempio, esaminato con l’analisi della sopravvivenza il decorso di 81 pazienti con disturbo di panico associato ad agorafobia e che non presentavano più attacchi di panico (Fava et al., 1995). Il follow-up dei pazienti variava dai 2 ai 9 anni. Anche questo tipo di studi, che possono essere maggiormente assimilati alle metodiche della epidemiologia psichiatrica, può fornire delle indicazioni importanti (ad esempio, sul fatto che i pazienti ansiosi trattati con psicoterapia comportamentale abbiano un decorso nettamente più favorevole, per quanto riguarda le ricadute, di quelli trattati con metodi farmacologici). Questi studi dimostrano che la ricerca in psicoterapia è possibile anche in Italia, pur tra notevoli difficoltà. A patto che si smetta di domandarsi se essa sia concettualmente possibile e ci si muova in un contesto europeo, dove da anni è praticata e verificata.
Bibliografia
- Eysenck H.J. (1952). The effects of psychotherapy. Journal of Consulting Psychology 16, 319-324.
- Fava G.A. (1988). Il Trattamento delle Fobie. Patron: Bologna.
- Fava G.A. & Montanari A. (1996). National trends of research in behavioral and medical sciences. Psychotherapy and Psychosomatics 65, 281-292.
- Fava G.A., Grandi S., Zielezny M, Canestrari R. & Morphy M.A. (1994). Cognitive behavioral treatment of residual symptoms in primary major depressive disorder. American Journal of Psychiatry 151, 1295-1299.
- Fava G.A., Zielezny M., Savron G. & Grandi S. (1995). Long-term effects of behavioural treatment of panic disorder with agoraphobia. British Journal of Psychiatry 166, 87-92.
- Fava G.A., Grandi S., Zielezny M., Rafanelli C. & Canestrari R. (1996). Four-year outcome for cognitive-behavioral treatment of residual symptoms in major depression. American Journal of Psychiatry 153, 945-947.
- Fava G.A., Savron G., Zielezny M., Grandi S., Rafanelli C. & Conti S. (1997). Overcoming resistance to exposure in panic disorder with agoraphobia. Acta Psychiatrica Scandinavica.
- Marks I.M., Swinson R.P., Basoglu M., Kuch K., Noshirvani H., O’Sullivan G., Lelliott P., Kirby G., McNamee G., Sengem S. & Wickwire K. (1993). Alprazolam and exposure alone and combined in panic disorder with agoraphobia. British Journal of Psychiatry 162, 776-787.
- Smith M.L., Glass G.V. & Miller T.I. (1980). The Benefits of Psychotherapy. Johns Hopkins University Press: Baltimore.
In primo piano
La ricerca in psicoterapia: perché in Italia è così poca?
La ricerca in psicoterapia costituisce uno dei settori più interessanti e ricchi di implicazioni cliniche delle scienze del comportamento. Analogamente agli studi controllati a doppio cieco in medicina ha una storia piuttosto recente. Convenzionalmente se ne fa datare l’inizio alla comparsa dell’articolo-provocazione di Eysenck sulla efficacia della psicoterapia nel 1952, anche se esistevano esempi di studi controllati già in precedenza (Eysenck, 1952).
In una prima fase del suo sviluppo (1952-1980) è caratterizzata dalla necessità di dimostrare che la psicoterapia non è solo un costoso placebo, come sosteneva Eysenck. Per ottenere questa dimostrazione vengono effettuati centinaia di studi controllati. La metodologia è la più svariata e subisce una notevole evoluzione. All’interno del modello sperimentale estensivo si introducono gruppi di controllo non sottoposti ad alcun trattamento, in lista di attesa, sottoposti ad altri trattamenti, o di tipo attenzione placebo. All’interno del disegno intensivo, invece, si fanno strada metodologie per lo studio di pazienti singoli. Progressivamente emergono altri importanti dettagli metodologici come l’uso di valutatori in cieco (blind raters) sia degli esiti che dell’integrità del trattamento (in modo da verificare la possibilità che il terapeuta inavvertitamente tenda a deviare dal protocollo stabilito). Altri ambiti della ricerca in psicoterapia riguardano il processo stesso e le variabili in grado di influenzarlo (paziente, atteggiamento del terapeuta, numero di sedute, tipo di interpretazioni, ecc.). Sostanzialmente si riesce a dimostrare che la psicoterapia non è semplice placebo e che molti trattamenti producono effetti superiori a quelli di gruppi di controllo (Smith et al., 1980). Quando si passa a confrontare tipi di psicoterapia diversi (psicodinamica, comportamentale, ecc.) i risultati destano però notevoli perplessità, in quanto non sembrano registrare grosse differenze. Emerge la consapevolezza della potenza di fattori non specifici come l’attenzione, la possibilità per il paziente di manifestare il proprio disagio ed il fornire delle spiegazioni per i disturbi (interpretazioni).
Questa prima fase della ricerca passa pressoch inosservata in Italia sia nell’ambito della psicologia che in quello della psichiatria. come d’altronde molte altre cose a livello internazionale.
Nel 1980 la pubblicazione del DSM-III segna una svolta fondamentale. Fino a quel momento la ricerca clinica in psicoterapia utilizzava campioni di pazienti estremamente eterogenei, spesso costituiti da studenti universitari volontari o da un insieme di disturbi nevrotici. Ben presto ci si rende conto che non è più possibile. Occorre verificare l’efficacia della psicoterapia nell’ambito di specifici disturbi psichiatrici (depressione maggiore, agorafobia, ecc.). Lo stesso ambito nel quale si muove la ricerca psicofarmacologica. Ed iniziano gli studi controllati effettuati su campioni di pazienti con disturbi psichiatrici specifici. L’ambito nel quale maggiormente si sviluppano è quello dei disturbi affettivi (ansiosi e depressivi). Il caso dell’agorafobia con attacchi di panico è forse il più indicativo (Fava, 1988). È attraverso una serie di studi controllati che emerge l’ingrediente essenziale della terapia dell’agorafobia (l’esposizione in vivo) e si ottiene una semplificazione terapeutica considerevole rispetto alla tecnica comportamentale originaria basata sulla desensibilizzazione sistematica. In questo processo il contributo di un ricercatore inglese, Isaac Marks, risulta fondamentale. Ed è proprio dal gruppo di Marks che viene effettuato uno degli studi controllati più belli nell’ambito della ricerca in psicoterapia, lo studio Londra-Toronto (Marks et al., 1993). Un elemento fondamentale di questo studio è il ricorso a quattro gruppi terapeutici (alprazolam + esposizione; placebo + esposizione; alprazolam + rilassamento; placebo + rilassamento). In questo modo è possibile valutare separatamente il contributo sia di un farmaco e del suo placebo, che di una terapia psicologica (esposizione) e del suo placebo (rilassamento). Ma altri elementi essenziali sono la sua effettuazione in due centri separati (Londra e Toronto), l’uso di valutatori blind, la valutazione dei risultati anche ad una certa distanza dalla fine dello studio.
In tutti questi studi controllati effettuati dagli anni ’80 in poi viene dimostrata l’efficacia della psicoterapia (essenzialmente ad orientamento cognitivo-comportamentale) in numerosi disturbi psichiatrici. Non solo: in molti casi questa efficacia è pari, se non maggiore, a quella di una appropriata farmacoterapia.
Purtroppo da questo panorama è sostanzialmente esclusa la ricerca italiana. Perch? Un primo livello di risposta è molto semplice: si tratta del cronico, generale ritardo della ricerca italiana nell’ambito delle scienze del comportamento (Fava & Montanari, 1996). Se si trattasse semplicemente di questo non si spiegherebbe, però, come mai la ricerca italiana stia invece dando importanti contributi in altri campi (ad esempio, la psicopatologia e farmacoterapia dei disturbi affettivi). E non sarebbe possibile capire come nell’anno 1996 vengano ancora organizzati convegni sulla possibilità di misurare gli esiti della psicoterapia (siamo indietro di 40 anni?).
È evidente che la risposta è più complessa e va ricercata in un insieme di fattori, che possono comprendere:
a) il fatto che l’orientamento prevalente dei potenziali ricercatori nell’ambito della psicoterapia sia in Italia ancora di tipo psicodinamico, a differenza della maggior parte dei paesi europei e nordamericani;
b) la difficoltà a trovare finanziamenti per questo tipo di studi (a differenza di quelli di tipo farmacologico);
c) l’estrema complessità delle ricerche in psicoterapia (sia per la loro gestione che per il training degli psicoterapeuti che vi collaborano), che richiedono un’impostazione ad alto livello nell’ambito della psicologia clinica;
d) il clima imperante in ambito psichiatrico di ipersemplificazione biologica (o farmaceutica), che contrappone ai successi di ricerca e clinici dell’approccio neurobiologico la vaghezza dell’approccio psicoanalitico;
e) la convinzione che l’approccio psicoterapico sia in fondo un optional, che può al massimo integrare favorevolmente quello farmacologico, ma che non è in grado di porsi come sua alternativa, quando si parli di specifici disturbi psichiatrici (convinzione che non è affatto suffragata dall’evidenza scientifica);
f) la mancanza per la ricerca in psicoterapia di una cassa di risonanza come quella farmaceutica, in grado di manipolare (e non solo in Italia) convegni ed aggiornamento.
A questo punto può sorgere spontaneo un interrogativo: potrà mai esserci un filone di ricerca dedicato alla psicoterapia in Italia?
L’esperienza del mio gruppo di ricerca negli ultimi dieci anni prova che questo è possibile, soprattutto qualora ci si orienti verso il fatto che confrontare trattamenti diversi in pazienti con una determinata diagnosi psichiatrica non è l’unica forma di ricerca in psicoterapia. Il disegno controllato può essere anche utilizzato in ambiti selezionati, come il trattamento dei sintomi residui in pazienti trattati con successo dal punto di vista farmacologico per depressione maggiore (Fava et al., 1994; 1996). Oppure in quello dei pazienti che non rispondono s terapie standardizzate, come abbiamo analizzato nel disturbo di panico con un disegno sperimentale di tipo cross-over bilanciato a tre gruppi (imipramina, esposizione, psicoterapia cognitiva) (Fava et al., 1997). Il vantaggio di questo tipo di studi è quello di poter utilizzare campioni di modesta numerosità (malgrado questo richiedono anni di lavoro). Il disegno sperimentale di tipo controllato non è tuttavia l’unica forma di ricerca in psicoterapia. Abbiamo, ad esempio, esaminato con l’analisi della sopravvivenza il decorso di 81 pazienti con disturbo di panico associato ad agorafobia e che non presentavano più attacchi di panico (Fava et al., 1995). Il follow-up dei pazienti variava dai 2 ai 9 anni. Anche questo tipo di studi, che possono essere maggiormente assimilati alle metodiche della epidemiologia psichiatrica, può fornire delle indicazioni importanti (ad esempio, sul fatto che i pazienti ansiosi trattati con psicoterapia comportamentale abbiano un decorso nettamente più favorevole, per quanto riguarda le ricadute, di quelli trattati con metodi farmacologici). Questi studi dimostrano che la ricerca in psicoterapia è possibile anche in Italia, pur tra notevoli difficoltà. A patto che si smetta di domandarsi se essa sia concettualmente possibile e ci si muova in un contesto europeo, dove da anni è praticata e verificata.
Bibliografia