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La ricetta per una ricerca perfetta?

È difficile stimare l’effetto che le modeste differenze nell’apporto alimentare dei diversi nutrienti possono avere sulla popolazione: è vero?

Valutare con precisione l’effetto dei nutrienti è tutt’altro che semplice. Le persone non mangiano nutrienti, ma cibi. Ecco perché è preferibile studiare i cosiddetti pattern alimentari che considerano l’insieme degli alimenti consumati quotidianamente dalle persone. Anche in questo campo, ci sono diversi approcci. Uno stabilisce a priori cosa è giusto mangiare, l’altro invece osserva cosa la gente realmente mangia, le combinazioni più frequenti dei vari cibi, e viene detto a posteriori. Sono entrambi validi e ciascuno ha un punto di forza rispetto all’altro. Entrambi comunque non “isolano” nutrienti ma considerano la dieta come un insieme in cui ogni cibo interagisce in qualche modo con l’altro. Un altro aspetto degli studi sull’alimentazione sono le piccole variazioni con cui i ricercatori sono chiamati a fare i conti. Può accadere ad esempio che le differenze di adesione ad un modello alimentare o nel consumo di un particolare cibo o nutriente siano davvero minime. Avere casistiche numerose consente proprio di valutare in maniera più precisa e sensata le differenze, per quanto piccole, che vengano riscontrate di volta in volta.

In campo nutrizionistico, i dati sono raccolti per lo più attraverso questionari: possiamo fidarci delle risposte?

Anche in questo caso, la ricerca tende alla precisione, ma non è in grado di raggiungerla perfettamente. Le informazioni raccolte attraverso questionari alimentari sono fornite dalle persone, per cui c’è sempre un filtro soggettivo. Il rischio classico a cui si va incontro è quello della sovrastima o anche della sottostima. Più recentemente, però, i metodi di rilievo si sono notevolmente evoluti per avvicinarsi quanto più possibile alla realtà. Per prima cosa, è necessario che i questionari siano validati e riproducibili e che l’estrazione dei dati sui nutrienti sia fatta utilizzando tabelle accurate e rappresentative dei consumi nazionali specifici. Ad esempio, è errato usare le tabelle prodotte negli Stati Uniti per valutare i consumi italiani. Non solo. I riferimenti nutrizionali devono anche essere aggiornati, dal momento che il contenuto in nutrienti dei cibi varia col tempo e quindi potremmo riscontrare dei cambiamenti importanti, come minore contenuto di sale nel pane oppure carni più magre. Lo studio EPIC, un grande progetto epidemiologico condotto in Europa per studiare i rapporti tra alimentazione e tumori, è un esempio di buona metodologia: non a caso la struttura del questionario alimentare è stata poi presa a modello da altri studi di questo tipo. Il progetto Moli-sani, lo studio epidemiologico condotto su 25mila persone della regione Molise e rappresentativo della popolazione italiana, ha però compiuto un ulteriore passo in avanti, avvalendosi di nuovi mezzi informatici e di evidenze scientifiche innovative. Nel Moli-sani, infatti, i soggetti sono stati intervistati direttamente dai ricercatori con un sistema informatico che consentiva loro di indicare anche la dimensione delle porzioni. È di certo un passo in avanti per la stima alimentare. Meno precisi sono invece i questionari telefonici o quelli in cui le persone devono indicare ciò che mangiano senza assistenza da parte di ricercatori specializzati. Tuttavia esistono dei controlli per verificare la coerenza dei dati riportati, ad esempio analizzando dei biomarcatori specifici che segnalano la quantità di alcune sostanze nel sangue o nelle urine. Ad esempio, se dal questionario emerge che la persona assume una buona quantità di frutta e verdura, ci si aspetta di ritrovare un riscontro anche nelle analisi di laboratorio che quindi dovranno rivelare una certa misura di antiossidanti nei campioni biologici di interesse. Un recente lavoro di Klatsky e colleghi (Klatsky AL et al. Cancer Causes Control., 2014 Apr 2) ha evidenziato ad esempio che il rischio di tumore associato ad un consumo moderato di alcol si riscontra soltanto in quei soggetti che riferiscono consumi di alcol inferiori alla realtà (fenomeno della sottostima). Insomma, le modalità di controllo non mancano e non è escluso che la tecnologia potrà fornire nuovi mezzi per migliorare la precisione della raccolta delle informazioni, magari grazie all’uso dei telefonini.

Quasi ogni nutriente ha almeno una pubblicazione indicizzata che lo lega a un esito, positivo o negativo. Clamoroso il caso del caffè con oltre 35 mila record in PubMed: quanti di questi studi sono decenti?

In realtà bisogna fare una distinzione tra dati originali e rielaborazioni di più studi che vengono messi insieme successivamente, utilizzando dati raccolti da altri ricercatori. Una pratica che si chiama revisione sistematica oppure metanalisi. L’abbondanza di studi su un particolare argomento, come nel caso del caffè, di fatto spiega l’uso ricorrente di questa metodologia. In pratica, i ricercatori mettono insieme un numero generalmente molto grande di studi su un tema specifico e ne tirano fuori una sorta di stato dell’arte. Questo perché non tutte le ricerche producono risultati uguali, mentre a volte sono anche contrastanti. E le metanalisi o le revisioni aiutano a fare il punto. Proprio il caffè aiuta a capire che la qualità delle ricerche non è certo universale. Una revisione del 2012 a firma di un gruppo di ricerca italiano (Di Castelnuovo A et al. Eur J Intern Med. 2012;23:15-25) ha identificato e ritenuto validi solo una ventina di studi sull’argomento tra centinaia disponibili. Questo perché abbondanza non è affatto sinonimo di qualità.

Prendiamo il caso del cancro: quanti fattori di confondimento possono alterare i possibili effetti di una specifica dieta sull’insorgenza o sulla protezione da un tumore?

Come in tutti gli studi, che si occupino di cancro o di malattie cardiovascolari o di altre patologie ancora, c’è un fenomeno che gli addetti ai lavori chiamano bias di causa. In pratica, soprattutto per le malattie croniche degenerative, è difficile stabilire esattamente il rapporto causa-effetto tra stili di vita e presenza della patologia. Non è raro constatare che persone con una malattia cardiovascolare, ad esempio, abbiano un’alimentazione più corretta rispetto invece a soggetti sani. Ma questo è il classico esempio di bias. Sostanzialmente, quando viene fatta una diagnosi di malattia, le persone tendono naturalmente a modificare il loro stile di vita, provando a migliorare l’alimentazione ad esempio, oppure praticando più attività fisica. Ecco perché, per arginare questo fenomeno diffuso, esistono gli studi prospettici che invece sono in grado di stabilire con precisione il rapporto di causa ed effetto. Ovviamente, tutte le ricerche devono testare le associazioni accertandosi che l’effetto osservato non sia dovuto ad altri fattori, cosiddetti confondenti. Un esempio classico è proprio quello del caffè, il cui consumo è stato originariamente associato al rischio di malattie cardiovascolari perché non si teneva conto del confondimento del fumo; in pratica, i fumatori tendono a bere più caffè e quindi l’effetto negativo sulla salute non è da attribuire al consumo di caffè bensì alle sigarette.

Accanto a molti studi aneddotici, le sperimentazioni su popolazioni più ampie sembrano promettenti ma servono lunghi follow-up, casistiche molto numerose e registri costantemente aggiornati: possiamo contare su finanziamenti indipendenti per portare avanti progetti del genere?

Ciò che rende il dato più vero è proprio il fatto di ottenerlo da grandi numeri. Ecco perché si fa sempre più strada l’idea conosciuta come “big science”. Un approccio già praticato in altri campi scientifici, come la fisica. Anche in medicina, e nell’alimentazione soprattutto, poter contare su popolazioni di grandi dimensioni sarebbe un enorme passo in avanti. Ovviamente, i finanziamenti pubblici sono gli unici a poter garantire esperimenti di tali dimensioni, oltre alla necessaria indipendenza dei risultati della ricerca e di chi la conduce. Tuttavia, anche a livello europeo, si continuano a finanziare studi relativamente piccoli che, per quanto utili, non riescono a garantire quel balzo in avanti di cui avremmo bisogno. Questo per quanto riguarda il trend generale. Ma è pur vero che esistono casi virtuosi da prendere ad esempio e lo studio EPIC è uno di questi. Con oltre mezzo milione di persone studiate, questo grande progetto epidemiologico che coinvolge 23 centri europei sta passando al setaccio migliaia di informazioni proprio per capire meglio i rapporti che intercorrono tra alimentazione e tumori. Si tratta di un enorme sforzo scientifico che ha chiamato a raccolta le più grandi personalità del campo, aprendo di fatto una strada importante che permetterà avanzamenti significativi nell’ambito della ricerca sull’alimentazione.

Abitudini alimentari, inattività fisica, fumo di tabacco: Ioannidis sostiene che siano quasi sempre derivanti da un fattore di rischio primario, cioè il basso reddito e le condizioni di vita scadenti. Sono più urgenti politiche sanitarie o strategie di promozione sociale?

Reddito e istruzione, e in generale lo stato socioeconomico, condizionano pesantemente la salute. Non solo sono strettamente associati alle patologie, ma anche a tutti i fattori di rischio come alimentazione, fumo, attività fisica. Tutti questi fattori hanno di fatto un gradiente socioeconomico. Recentemente il progetto Moli-sani ha messo in evidenza che il fattore economico è strettamente associato all’adesione alla dieta mediterranea (Bonaccio M et al BMJ Open. 2012 Nov 19;2(6) In pratica, chi ha un basso reddito segue meno questo modello alimentare ed è anche più obeso di chi invece ha una situazione economica migliore. Per quanto importante, tuttavia, lo stato socioeconomico non riesce a spiegare interamente il rapporto che sussiste tra alimentazione e insorgenza delle malattie.
Di fatto, la salute è un affare complesso e come tale non è un problema che può essere affrontato con un unico intervento. Essendo il prodotto di molte cause che interagiscono fra loro, richiede anche soluzioni trasversali. In questo senso, non è un problema che può essere affrontato soltanto dal ministero della salute. Facciamo un esempio concreto. Se per prevenire le malattie cardiovascolari è consigliato aumentare il livello di attività fisica, è anche necessario avere occasioni di poterla praticare. Ma se non posso andare in palestra, di questi tempi poi, dovrò organizzarmi per fare delle passeggiate all’aperto. E se le strade sono piene di buche e la sicurezza non è proprio ideale, come si può pensare che i cittadini possano davvero portare a termine i buoni propositi? O ancora, il caso dell’alimentazione. Che la dieta mediterranea sia uno scudo protettivo contro le principali malattie croniche lo sanno praticamente tutti. Ma se verdura, frutta, olio d’oliva e pesce hanno raggiunto prezzi stellari, come si può continuare a dire alla gente che deve mangiare mediterraneo? La scienza, dal canto suo, ci ha già messo in guardia. È chiaro che prima della crisi, seguire la dieta mediterranea non era legata all’avere un reddito alto, ma già dal 2007 si apre una crepa nella società italiana e chi ha maggiori mezzi economici aderisce di più a questo modello alimentare, garantendosene di fatto i benefici (Bonaccio M et al. Nutr Metab Cardiovasc Dis., March 2014).
Ormai, e soprattutto con la crisi che avanza, occorre ripensare seriamente alle politiche di promozione della salute in maniera corale. Perché la salute è un affare di tutti e prima lo si comprende, più possibilità ci saranno di contenere i danni di una deriva che rischia di avere pesanti ripercussioni per l’intera società.

14 maggio 2014

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