La ricerca in Pediatria di oggi è sufficientemente orientata al paziente oppure segue il principio “la ricerca è mia e me la gestisco io”?
La ricerca patient oriented è un tema attuale e da tempo dibattuto. Un primo segnale che la ricerca doveva cambiare con il coinvolgimento dei pazienti lo abbiamo avuto quando nelle sperimentazioni cliniche tra le misure di outcome sono state introdotte le misure della qualità della vita oltre a quelle di efficacia dei trattamenti. Non sono però seguiti dei grossi progressi, purtroppo. Anche pensando ad un ambito che riguarda l’applicazione dei risultati della ricerca scientifica come quello dello sviluppo delle linee-guida, la partecipazione dei pazienti sarebbe obbligatoria ma, almeno in Italia, facciamo ancora fatica ad accettare che i pazienti siano integrati in questi processi. Naturalmente ci sono delle eccezioni a questa regola (e sono eccezioni eccellenti), ma c’è parecchia strada da fare per garantire una ricerca patient oriented.
Perché?
Una delle cause principali è che in molti Paesi – in particolare in Italia – persiste una visione paternalistica della medicina: l’aspetto della cura medica viene vissuto dal paziente come un impegno che deve essere demandato totalmente al medico. Nello stesso tempo, però, sta cambiando pesantemente la possibilità per il paziente di accedere a informazioni in tema di salute e medicina fino a ieri inaccessibili, specialmente attraverso la tecnologia. L’accesso alle informazioni che riguardano la salute e le specifiche malattie apre alla possibilità che il paziente possa partecipare alle scelte che lo riguardano sulla base di informazioni tecniche rilevanti.
Quali sono le difficoltà che voi pediatri incontrate nel coinvolgere i pazienti e i loro genitori? Ci sono degli ostacoli culturali, da parte del cittadino o del professionista della salute?
Gli ostacoli culturali ci sono sicuramente e riguardano sia i pediatri sia le famiglie. Per quanto riguarda il medico hanno origine a monte, considerato che nei corsi di formazione di laurea e di specializzazione non ci sono (per ora) degli spazi dedicati alla medicina partecipativa. I pazienti, da parte loro, vivono la partecipazione alle cure più come un peso e un impegno che una risorsa. Diversa invece è la sensibilità delle Associazioni di famiglie di pazienti con patologie specifiche. Queste ultime raccolgono un gran numero di partecipanti e quindi possono distribuire le responsabilità e gli interlocutori su diversi aspetti. Nel nostro Paese, lavorare con le Associazioni è la frontiera più realistica nel breve periodo.
Mi capita spesso di dover valutare un protocollo di ricerca e solo occasionalmente in questi protocolli viene indicata in modo esplicito la partecipazione dei pazienti o delle loro famiglie. In passato, il coinvolgimento del paziente era vista più come una sorta di rimedio alle possibili procedure difficili da accettare, incluse nei protocolli di ricerca. Oggi, grazie all’estrema facilità nell’accesso alle informazioni, i pazienti possono informarsi e dare un contributo attivo alla ricerca, anche di tipo tecnico. Il paziente è il migliore esperto della sua malattia, più del medico che lo cura.
Ovviamente la ricerca pediatrica si deve avvalere del coinvolgimento ancor prima dei genitori che dei pazienti. In questo modo la ricerca è orientata più ai bisogni dei genitori che dei pazienti? Quando e come è possibile avere la partecipazione del paziente?
Non farei questa differenza perché il target della Pediatria è la famiglia, quindi un gruppo di persone di cui fanno parte anche i pazienti. Pertanto, i genitori devono essere coinvolti a pieno titolo e non ritengo che siano delle contraddizioni nel farlo. Anche gli adolescenti possono dare un loro personale contributo. Mi riferisco in particolare ai pazienti con malattie croniche la cui partecipazione è essenziale per la compliance delle terapie a lungo termine e la valutazione di interventi invasivi che spesso vengono richiesti in queste patologie. In questo ambito, il confronto con il diretto interessato può fare la differenza.
I social media possono essere uno strumento o uno spazio di lavoro per una ricerca patient oriented? Ci sono delle esperienze da prendere come esempio?
Come sottolineavo l’accesso alle informazioni per il paziente gioca un ruolo cruciale per il raggiungimento di una ricerca patient oriented. Nell’accesso alle informazioni le tecnologie (internet, piattaforme sociali, ecc.) hanno un ruolo principe. Un esempio classico è la piattaforma americana Patientslikeme che raggruppa pazienti affetti soprattutto da malattie croniche, anche se di recente il target è stato esteso a pazienti con qualsiasi patologia. In questa piattaforma i pazienti condividono dati che mancano nelle classiche cartelle cliniche perché vengono raccolti durante la vita di tutti i giorni, a casa e non in ospedale. Sono dunque dati preziosi perché rappresentano una parte della realtà del paziente che il medico non valuta.
Sono preziosi anche per l’industria…
Le aziende farmaceutiche sono molto interessate perché questi dati possono dare informazioni sul profilo di tollerabilità di un farmaco su tempi molto lunghi che si possono monitorare su un diario elettronico o non in una sperimentazione clinica. Non a caso il modello di business della piattaforma Patientslikeme è basato sulla condivisione delle informazioni raccolte dai pazienti con l’industria… Però, al di là degli aspetti commerciali, queste piattaforme di scambio e condivisione di informazioni sulla malattia e qualità di vita ci permettono di identificare dei bisogni del paziente che spesso restano invisibili. L’uso di questi sistemi mette in comunicazione diretta il paziente e il suo vissuto, le sue esigenze e le sue richieste, con il meccanismo tradizionale imperniato sulla cartella clinica… Questa è una riflessione che ci costringerà a cambiare rapidamente direzione.
Dunque i social media sono dei catalizzatori di una ricerca patient oriented?
È già in uso il termine di e-patient, cioè del paziente definito elettronico perché utilizza internet e gli strumenti correlati per la propria salute. Navigando su Internet (e frequentando qualche congresso su medicina e tecnologia) è facile imbattersi nella storia dell’e-patient Dave che aveva avuto una comunicazione di una diagnosi infausta per un tumore maligno. Per testardaggine e per la capacità di raccogliere informazioni dirette, Dave è riuscito a modificare radicalmente la prognosi, aiutando il proprio medico a trovare delle soluzioni migliori per curare la malattia. Questo caso è il paradigma della possibilità di una comunicazione diretta medico-paziente, e questa possibilità deve essere sfruttata non solo per la gestione della malattia ma anche come modello per la ricerca perché pure in questo ambito il malato è il vero esperto.
Sentiremo sempre più spesso parlare di e-patient e anche di e-health?
Le tecnologie digitali probabilmente rivoluzioneranno il paradigma o comunque il modello della medicina come viene oggi praticata. Il cardiologo Eric Topol nel suo recente libro The Creative Destruction of Medicine spiega che la medicina è prossima a una rivoluzione simile a quella che la tecnologia digitale ha indotto in ogni ambito. Le tecnologie digitali permettono di monitorare il paziente a distanza, di fornire cure personalizzate, di gestire, raccogliere e condividere una grande quantità di dati, di fare una autodiagnosi, di coinvolgere il paziente.
Questa rivoluzione della medicina cambierà anche il modo di fare la ricerca. Il libro di Topol sta facendo molto rumore nei congressi medici e nella comunità medico-scientifica in particolare all’estero. Ci vorrà un po’ di tempo perché arrivi l’eco da noi. I tempi però sono maturi. Bisogna solo essere un po’ pazienti e soprattutto essere preparati. Il principale ostacolo al cambiamento è di tipo culturale, ma anche questo è superabile specie se la formazione terrà in conto la necessità di aggiornarsi sul tema
29 febbraio 2012
Articoli correlati
- Partecipa(mente). Intervista a Mirella Ruggeri, Dipartimento di Sanità pubblica e Medicina di comunità, Sezione di Psichiatria e Psicologia Clinica, Università di Verona. Pubblicato su Va’ Pensiero n° 513
- Conoscenza al servizio dei pazienti. Intervista a Renata Bortolus, ginecologa, responsabile del progetto di ricerca nazionale Studio Acido Folico, Servizio Promozione della Ricerca, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. Pubblicato su Va’ Pensiero n° 510
- Scelte compartecipate in Sanità. Intervista video a Paola Mosconi, Responsabile Laboratorio Ricerca sul coinvolgimento dei cittadini in Sanità, Istituto Mario Negri. Pubblicato su Va’ Pensiero n° 508
- Per una ricerca patient-oriented. Intervista a Katherine Cowan, consultant e coach, James Lind Alliance, Oxford (UK). Pubblicato su Va’ Pensiero n° 509
In primo piano
La rivoluzione passa dalla rete
La ricerca in Pediatria di oggi è sufficientemente orientata al paziente oppure segue il principio “la ricerca è mia e me la gestisco io”?
La ricerca patient oriented è un tema attuale e da tempo dibattuto. Un primo segnale che la ricerca doveva cambiare con il coinvolgimento dei pazienti lo abbiamo avuto quando nelle sperimentazioni cliniche tra le misure di outcome sono state introdotte le misure della qualità della vita oltre a quelle di efficacia dei trattamenti. Non sono però seguiti dei grossi progressi, purtroppo. Anche pensando ad un ambito che riguarda l’applicazione dei risultati della ricerca scientifica come quello dello sviluppo delle linee-guida, la partecipazione dei pazienti sarebbe obbligatoria ma, almeno in Italia, facciamo ancora fatica ad accettare che i pazienti siano integrati in questi processi. Naturalmente ci sono delle eccezioni a questa regola (e sono eccezioni eccellenti), ma c’è parecchia strada da fare per garantire una ricerca patient oriented.
Perché?
Una delle cause principali è che in molti Paesi – in particolare in Italia – persiste una visione paternalistica della medicina: l’aspetto della cura medica viene vissuto dal paziente come un impegno che deve essere demandato totalmente al medico. Nello stesso tempo, però, sta cambiando pesantemente la possibilità per il paziente di accedere a informazioni in tema di salute e medicina fino a ieri inaccessibili, specialmente attraverso la tecnologia. L’accesso alle informazioni che riguardano la salute e le specifiche malattie apre alla possibilità che il paziente possa partecipare alle scelte che lo riguardano sulla base di informazioni tecniche rilevanti.
Quali sono le difficoltà che voi pediatri incontrate nel coinvolgere i pazienti e i loro genitori? Ci sono degli ostacoli culturali, da parte del cittadino o del professionista della salute?
Gli ostacoli culturali ci sono sicuramente e riguardano sia i pediatri sia le famiglie. Per quanto riguarda il medico hanno origine a monte, considerato che nei corsi di formazione di laurea e di specializzazione non ci sono (per ora) degli spazi dedicati alla medicina partecipativa. I pazienti, da parte loro, vivono la partecipazione alle cure più come un peso e un impegno che una risorsa. Diversa invece è la sensibilità delle Associazioni di famiglie di pazienti con patologie specifiche. Queste ultime raccolgono un gran numero di partecipanti e quindi possono distribuire le responsabilità e gli interlocutori su diversi aspetti. Nel nostro Paese, lavorare con le Associazioni è la frontiera più realistica nel breve periodo.
Mi capita spesso di dover valutare un protocollo di ricerca e solo occasionalmente in questi protocolli viene indicata in modo esplicito la partecipazione dei pazienti o delle loro famiglie. In passato, il coinvolgimento del paziente era vista più come una sorta di rimedio alle possibili procedure difficili da accettare, incluse nei protocolli di ricerca. Oggi, grazie all’estrema facilità nell’accesso alle informazioni, i pazienti possono informarsi e dare un contributo attivo alla ricerca, anche di tipo tecnico. Il paziente è il migliore esperto della sua malattia, più del medico che lo cura.
Ovviamente la ricerca pediatrica si deve avvalere del coinvolgimento ancor prima dei genitori che dei pazienti. In questo modo la ricerca è orientata più ai bisogni dei genitori che dei pazienti? Quando e come è possibile avere la partecipazione del paziente?
Non farei questa differenza perché il target della Pediatria è la famiglia, quindi un gruppo di persone di cui fanno parte anche i pazienti. Pertanto, i genitori devono essere coinvolti a pieno titolo e non ritengo che siano delle contraddizioni nel farlo. Anche gli adolescenti possono dare un loro personale contributo. Mi riferisco in particolare ai pazienti con malattie croniche la cui partecipazione è essenziale per la compliance delle terapie a lungo termine e la valutazione di interventi invasivi che spesso vengono richiesti in queste patologie. In questo ambito, il confronto con il diretto interessato può fare la differenza.
I social media possono essere uno strumento o uno spazio di lavoro per una ricerca patient oriented? Ci sono delle esperienze da prendere come esempio?
Come sottolineavo l’accesso alle informazioni per il paziente gioca un ruolo cruciale per il raggiungimento di una ricerca patient oriented. Nell’accesso alle informazioni le tecnologie (internet, piattaforme sociali, ecc.) hanno un ruolo principe. Un esempio classico è la piattaforma americana Patientslikeme che raggruppa pazienti affetti soprattutto da malattie croniche, anche se di recente il target è stato esteso a pazienti con qualsiasi patologia. In questa piattaforma i pazienti condividono dati che mancano nelle classiche cartelle cliniche perché vengono raccolti durante la vita di tutti i giorni, a casa e non in ospedale. Sono dunque dati preziosi perché rappresentano una parte della realtà del paziente che il medico non valuta.
Sono preziosi anche per l’industria…
Le aziende farmaceutiche sono molto interessate perché questi dati possono dare informazioni sul profilo di tollerabilità di un farmaco su tempi molto lunghi che si possono monitorare su un diario elettronico o non in una sperimentazione clinica. Non a caso il modello di business della piattaforma Patientslikeme è basato sulla condivisione delle informazioni raccolte dai pazienti con l’industria… Però, al di là degli aspetti commerciali, queste piattaforme di scambio e condivisione di informazioni sulla malattia e qualità di vita ci permettono di identificare dei bisogni del paziente che spesso restano invisibili. L’uso di questi sistemi mette in comunicazione diretta il paziente e il suo vissuto, le sue esigenze e le sue richieste, con il meccanismo tradizionale imperniato sulla cartella clinica… Questa è una riflessione che ci costringerà a cambiare rapidamente direzione.
Dunque i social media sono dei catalizzatori di una ricerca patient oriented?
È già in uso il termine di e-patient, cioè del paziente definito elettronico perché utilizza internet e gli strumenti correlati per la propria salute. Navigando su Internet (e frequentando qualche congresso su medicina e tecnologia) è facile imbattersi nella storia dell’e-patient Dave che aveva avuto una comunicazione di una diagnosi infausta per un tumore maligno. Per testardaggine e per la capacità di raccogliere informazioni dirette, Dave è riuscito a modificare radicalmente la prognosi, aiutando il proprio medico a trovare delle soluzioni migliori per curare la malattia. Questo caso è il paradigma della possibilità di una comunicazione diretta medico-paziente, e questa possibilità deve essere sfruttata non solo per la gestione della malattia ma anche come modello per la ricerca perché pure in questo ambito il malato è il vero esperto.
Sentiremo sempre più spesso parlare di e-patient e anche di e-health?
Le tecnologie digitali probabilmente rivoluzioneranno il paradigma o comunque il modello della medicina come viene oggi praticata. Il cardiologo Eric Topol nel suo recente libro The Creative Destruction of Medicine spiega che la medicina è prossima a una rivoluzione simile a quella che la tecnologia digitale ha indotto in ogni ambito. Le tecnologie digitali permettono di monitorare il paziente a distanza, di fornire cure personalizzate, di gestire, raccogliere e condividere una grande quantità di dati, di fare una autodiagnosi, di coinvolgere il paziente.
Questa rivoluzione della medicina cambierà anche il modo di fare la ricerca. Il libro di Topol sta facendo molto rumore nei congressi medici e nella comunità medico-scientifica in particolare all’estero. Ci vorrà un po’ di tempo perché arrivi l’eco da noi. I tempi però sono maturi. Bisogna solo essere un po’ pazienti e soprattutto essere preparati. Il principale ostacolo al cambiamento è di tipo culturale, ma anche questo è superabile specie se la formazione terrà in conto la necessità di aggiornarsi sul tema
Articoli correlati