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Le ragazze dei sogni

 
Come è nata la sua esperienza come "acchiappatrice" di sogni nel carcere milanese di San Vittore?

L’associazione Bambini senza sbarre, che si interessa dei bambini e delle loro madri in carcere, mi aveva chiesto di tenere una lezione sul "materno" ma personalmente non me la sono sentita. Mi sembrava fuori luogo parlare della bellezza e dell’inquietudine legata alla maternità e dell’importanza della relazione madre-bambino a donne che ne erano private da una carcerazione. Avrebbe solo alimentato pene, senso di esclusione e senso di colpa. Allora ho proposto –  anche in modo incosciente, inizialmente – di organizzare una breve serie di incontri sui sogni. Visto che l’"acchiappatrice" di sogni è il mio mestiere, mi ero detta: "Andiamo a vedere cosa i sogni portano a galla in donne che vivono una realtà così diversa".

E cosa ha visto?

Ho visto le storie di una decina di donne, dai 22 ai 50 anni di età, italiane e straniere, di matrice culturale diversa, che hanno formato da loro il gruppo. Erano quasi tutte madri, alcune con la ferita dei bambini fatti uscire dal carcere dopo tre anni vissuti in simbiosi dietro le sbarre. Della loro storia carceraria non sapevo nulla a priori; quello che ho conosciuto l’ho appreso dall’ascolto dei loro racconti e dei loro sogni, che ci permettono di andare oltre l’esplicito fino ad approdare nel continente oscuro dell’inconscio, libero da schemi culturali di riferimento. Dai sogni emergono le storie raccontate dall’inconscio che mette in fila i pensieri che stanno rintanati e portano alla luce quelle parti di s non rimosse, ma precipitate.

I sogni come via di fuga?

Direi che i sogni ci danno il lasciapassare per parlare degli uomini fuori, degli amori-non amori, dei luoghi amati e perduti, dei figli, delle rabbie e delle delusioni, di quelle miserie sia fisiche sia psichiche che ci accerchiano. Ma allo stesso tempo i sogni indicano nuovi scorci di vita possibile, case future della nostra incessante ricerca. E rappresentano la guida. Soprattutto dentro il carcere, dove tutto è più immediato e trasparente, dove l’assenza dell’amore la si sente addosso e la si percepisce come un lutto vivente, e le donne scoprono nei sogni la guida, il cuore possibile del ritrovamento delle parti di s perdute. Alla fine del percorso, che si è protratto per due anni, una delle donne del gruppo mi ha detto: "Ci ha fatto vivere la libertà, perché nel sogno noi eravamo libere".

Sogno e poesia si intrecciano, provocano visioni: luoghi della memoria, appartenenze e non appartenenze, finestre aperte sulla comunicazione tra mondo del giorno e mondo della notte, comunque sia finestre senza sbarre.
Nel suo "diario di bordo" scrive che, in carcere, i sogni sono un lusso.

Per le donne del "gruppo sogno" è stato un privilegio vivere quest’esperienza che permette a loro di affermare: "Ma allora c’è ancora qualcosa in me di non toccato, su cui posso giocarmi la speranza". Quando si torna a vedere nei sogni la potenza del mondo interno, a sentire la bellezza oltre le sbarre, quando si ricomincia a desiderare e si recupera un’innocenza che prima c’era, il sogno diventa una conquista. La riparazione è possibile soltanto si è in grado di perdonarsi e di accettare che la vita possa ricominciare

"Vedo l’oceano con onde tempestose; ma sulle onde c’è un foglio di carta con un disegno, non va a fondo, galleggia, sul foglio è disegnato un cavallo bianco con le ali."
Come viene vissuta la maternità dietro le sbarre?

Con l’ansia del non sapere, del non esserci e della vita che se ne va. Dominano i sentimenti della perdita, dello smarrimento e del senso di colpa, che vengono a galla nei sogni con quelle contraddizioni proprie del materno e del femminile. Sono contraddizioni che dietro le sbarre vengono amplificate perché la condizione del carcere esaspera, porta nel girone dantesco dell’assoluto qualcosa che nella realtà fa comunque parte di tutti. In molte donne prevale il senso della perdita, insieme al bisogno di riparazione nella relazione con i figli; in altre, invece, dominano i sentimenti di estraneità e di fastidio, e di rifiuto del materno.

Con quali sogni sono state espresse queste contraddizioni?

Certamente nei sogni portati all’ascolto dominava la presenza dei bambini: veri o immaginari, sconosciuti o noti, figli nati o non nati. Rappresentavano i propri figli senza-sbarre, i figli lasciati fuori, di cui si prova una nostalgia lancinante; i figli di cui non si sa come crescono, che si accompagnavano con il pensiero senza poter fare una telefonata e si possono vedere solo durante le visite amministrate dal carcere. Ma rappresentavano anche un’infanzia o un parte di s che può essere rinnovata e su cui viene proiettata quella speranza di una maternità ancora possibile, senza colpe, risanata, interiormente senza sbarre.

"Abitavo in una casa sporca; ci sono dei bambini piccoli sofferenti che sono i miei figli, anche se non hanno la loro faccia. Tutta la settimana ho fatto questo sogno."
Eugenio Borgna scrive che quando abbiamo concluso di leggere il suo libro "Sogni senza sbarre" non siamo più quello che eravamo prima di leggerlo. Per lei cosa ha significato questo lavoro sui sogni?

Come dice Jung "ogni analisi è un lavoro da pionieri, smuove qualcosa nell’altro e smuove qualcosa nell’analista": io mi sono trovata dentro completamente in questo lavoro analitico che era totalmente nuovo per me. È stata un’esperienza straordinaria perché attraverso l’ascolto attento, che io offrivo a queste donne, si scopriva una possibile nuova modalità di rapporto che è quello del non giudizio e dell’ascolto. E molte ipotesi sul femminile e sul materno, con cui per anni ho faticato nella pratica e nella riflessione psicoanalitica, qui hanno avuto nuove aperture, conferme e intuizioni, grazie anche allo spessore e alla profondità psicologica di queste donne dietro le sbarre che ho avuto la fortuna di incontrare.

Sarebbe stato possibile questa esperienza analitica con i sogni in un gruppo del carcere maschile?

Non sarebbe stata la stessa cosa, proprio per l’identificazione empatica con il femminile che forse non mi sarebbe stata possibile in un gruppo uomini. Negli incontri e nei sogni sono venuti fuori vissuti di donne che spesso avevano avuto una storia d’amore sbagliata che le aveva portate poi alla droga e alla prostituzione. Questi vissuti non appartenevano n a me n alla maggior parte delle mie pazienti che ricevo in studio, ma come donna potevo riconoscere quella radice di fondo della dipendenza e del dolore di una storia d’amore sbagliata.

 

17 maggio 2006

Lella Ravasi Bellocchio lavora come analista junghiana. Il suo diario sulla esperienza di lavoro di gruppo nel carcere milanese di San Vittore – "Sogni senza sbarre. Storie di donne in carcere" – è stato pubblicato da Raffaello Cortina Editore  (2006). Nella Prefazione, Eugenio Borgna definisce il libro " una luminosa testimonianza dei valori del femminile e dei valori della maternità, che sopravvivono anche in condizioni di separatezza radicale, come quella della detenzione".

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