In un mondo ideale, se un cittadino dovesse fare un delicato intervento chirurgico, potrebbe scegliere la struttura migliore a cui rivolgersi sulla base di informazioni validate, piuttosto che sul passaparola. Esiste in Italia una classifica trasparente di valutazione delle strutture, che consenta a chiunque di effettuare una scelta informata?
In questo momento, a livello nazionale non esiste ancora. Il Ministro della Salute ha lanciato recentemente, attraverso Age.Na.S, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, un programma che dovrebbe rendere disponibili informazioni sugli esiti, qualcuno le chiama performance, dei diversi servizi sanitari e delle diverse autorità di tutela, cioè le aziende sanitarie locali. Per capire meglio è necessario fare un passo indietro; in alcuni contesti, come quello americano per esempio, sono disponibili anche sul web, informazioni di due tipi: una è sui risultati degli interventi dei diversi "provider", come gli ospedali (un esempio è HealthGrades, un sito privato che su un numero cospicuo di prestazioni e di malattie fa vedere i risultati degli ospedali americani accreditati con Medicare); l’altro tipo di informazione – ripeto, in un contesto come quello americano – riguarda gli assicuratori: cioè, quali sono le performance di diverse compagnie di assicurazione o HMO, nei confronti dei propri assicurati. In Italia, avremmo bisogno di due tipi di valutazione: la prima dovrebbe rispondere alla domanda "come è tutelato nella propria salute un cittadino residente in una data ASL?" e dovrebbe rilevare i risultati della tutela della salute e della cura delle malattie in queste popolazioni, indipendentemente da dove vanno a farsi curare i cittadini. In altre parole, per valutare il direttore generale della ASL di Palermo, devo sapere qual è il livello di tutela nei confronti dei suoi cittadini, senza tenere conto del fatto che poi, un cittadino possa usare servizi sanitari a Messina o a Torino.
La seconda è la valutazione comparativa tra servizi, soprattutto ospedali. Proprio a questo mira il programma voluto dal Ministro della Salute; un programma che sostanzialmente, con alcune modifiche legate al contesto nazionale, riprende l’esperienza condotta nel Lazio con il Programma Regionale di Valutazione degli Esiti degli interventi sanitari (P.Re.Val.E).
Di cosa si tratta?
Il programma P.Re.Val.E., approvato dalla Giunta regionale del Lazio nel 2006, prevede la stima di numerosi indicatori di esito sia delle aziende sanitarie sia degli ospedali e la pubblicazione dei dati. La Giunta regionale del Lazio ha scelto di pubblicare queste valutazioni sul web (dopo alcuni anni di sperimentazione non pubblicizzata): sul sito dell’ASP Lazio, sono disponibili i dati del programma relativi, per il momento, al biennio 2006 – 2007. Credo che entro maggio, saranno disponibili anche quelli del biennio 2008 – 2009.
E qual è il livello di qualità dei servizi che emerge dai dati?
I dati mostrano una straordinaria eterogeneità nella qualità dell’assistenza, sia rispetto alla popolazione residente, sia tra i diversi provider di servizi. Le sorprese sono molte e in particolare, dimostrano che la reputazione sulla base del "si dice", le parole dette dall’amico, dal collega o dal medico amico, non sempre corrispondono esattamente ai risultati di valutazione delle strutture ospedaliere.
Su quali basi avete potuto cogliere tali non corrispondenze rispetto al "si dice"?
Qualche anno fa i colleghi dell’Emilia Romagna, Roberto Grilli e i suoi collaboratori, hanno confrontato i risultati del primo programma di valutazione comparativa di esito condotto in Italia, lanciato dall’ex ministro Sirchia limitatamente alle cardiochirurgie (valutate attraverso un indicatore aggiustato di mortalità a trenta giorni dopo intervento di by-pass aorto-coronarico), con una pubblicazione del settimanale Panorama, che valutava le cardiochirurgie italiane sulla base di un indice di reputazione. Tale indice era stato ottenuto intervistando i medici di medicina generale e chiedendo loro quali fossero – dal loro punto di vista – le migliori cardiochirurgie in Italia.
Dal confronto è emerso un classico paradosso in questo campo: le cardiochirurgie con la migliore reputazione avevano le peggiori performance, quelle con la peggiore reputazione avevano le migliori performance.
Come va interpretato questo risultato?
Credo che sia molto importante capire come i cittadini vedono i servizi sanitari: nel suo complesso il sistema sanitario non è un sistema di mercato perfetto, perché soffre di uno straordinario problema di asimmetria informativa tra il venditore e il compratore.
Per acquistare un’automobile, non andiamo da un rivenditore qualunque a chiedere una macchina qualunque, ma scegliamo il rivenditore, il modello, la cilindrata, il colore etc., insomma siamo dei clienti qualificati. Se invece, abbiamo un infarto, prima di tutto è difficile che si faccia a tempo a scegliere l’ospedale in cui essere inviati. Poi, arrivati all’ospedale, di certo non chiediamo: "per favore, mi faccia un’angioplastica percutanea della coronaria tal dei tali e mi metta uno stent medicato con il farmaco x e poi mi somministri il farmaco y alla dose z, etc."; semmai, diciamo "sto male, voglio essere curato", o meglio "io non voglio morire" e tutto quello che ci viene "venduto" dipende dal "venditore". In altre parole, il sistema sanitario è dominato dall’offerta.
Nella valutazione della qualità dell’assistenza, qual è il ruolo del paziente?
Tutti i sistemi che tentano di misurare l’efficacia delle cure valutando anche il punto di vista del cliente – viene usato molto il termine customer satisfaction – nel caso del sistema sanitario, fanno danni. Per il cittadino è possibile valutare in modo qualificato il livello di accoglienza, di comfort, il cibo, la cortesia del personale; ma il paziente, per definizione, non è in condizione di valutare la qualità del trattamento.
Inoltre, quelli che subiscono il massimo degli effetti negativi di un trattamento, cioè quelli che muoiono, non possono esprimere nessun parere; viceversa, possono esserci livelli molto elevati di soddisfazione in persone che hanno ricevuto prestazioni totalmente inefficaci e inappropriate, ma nel massimo comfort.
Per esempio?
La M.O.C. (mineralografia ossea computerizzata) è un intervento diagnostico utile in pochissimi casi, totalmente inutile nella prevenzione dell’osteoporosi, per cui dovrebbe essere fortemente razionata e riservata ai pochi casi in cui serve. Ma se una donna si rivolge alla sua ASL e alla richiesta di una MOC le viene detto che, nel caso specifico, non risulta appropriata, ecco che quella donna avrà un pessimo livello di satisfaction. Se la stessa persona si rivolge ad un’altra struttura che immediatamente le fa fare la MOC, senza attendere troppo e in una meravigliosa sala d’attesa, il livello di satisfaction sarà elevato, ma per un intervento totalmente inefficace e inappropriato. Quindi, la valutazione dei cittadini va bene solamente quando riferita a prestazioni assolutamente di dimostrata efficacia e appropriatezza e quando si riferisce prevalentemente al modo di erogare la prestazione, ma non esiste una possibilità del cittadino di valutazione diretta dell’esito della prestazione.
I dati del progetto P.Re.Val.E. necessitano di essere "tradotti" per essere utili al cittadino?
Il programma P.Re.Val.E. al momento, ha un sito che non è orientato al cittadino, ma è per gli addetti ai lavori, consultabile dai medici di medicina generale, dai gestori delle aziende sanitarie, probabilmente, anche dalle organizzazioni dei cittadini; ma per come è organizzato e presentato, non può essere una sorta di guida del Gambero Rosso degli ospedali. Sarei già molto contento se quei dati fossero utilizzati da chi ha funzioni di governo nel sistema sanitario, per ragionare sull’accreditamento delle strutture e soprattutto, per promuovere programmi di audit che puntino a migliorare la qualità. Non è certamente un sito di stellette e pagelle.
Allora, perché rendere pubblicamente accessibili quelle informazioni?
Le esperienze internazionali di public disclosure dei risultati comparativi di esito, che sono perlopiù esperienze americane ed inglesi (si veda per esempio, Choice in the NHS), dimostrano che la pubblicazione dei risultati ha scarsi effetti nell’aumentare la capacità del cittadino di scegliere il servizio dove andare, se non per patologie croniche, per le quali appunto, c’è tempo di scegliere. Straordinari, invece, sono gli effetti nel miglioramento della qualità dei servizi, perché la public disclosure incide nel confronto tra medici e professionisti, che alla reputazione ci tengono. Quando la qualità delle performance e delle cure è pubblicamente disponibile ai cittadini e agli operatori del sistema sanitario, si attiva un percorso i cui effetti positivi – che sono dominanti rispetto a quelli negativi pur presenti – portano i medici al tentativo di emularsi, per fornire prestazioni con esiti migliori. I professionisti di un ospedale che ha una mortalità aggiustata post infarto miocardico acuto del 20%, rispetto a best performers che hanno il 7- 8%, di certo non sono contenti di vedersi classificati di bassa qualità e faranno di tutto per migliorarla.
Nerina Dirindin ha affermato: "Non è facile confrontare dati appartenenti a strutture molto diverse, con case mix diversi e operanti in contesti molto differenti. Il rischio paventato da chi contrasta sistemi di valutazione trasparenti, è che i dati possano fornire informazioni ambigue, difficilmente interpretabili o addirittura causa di confusione o distorsione. Il caso classico portato ad esempio è il tasso di mortalità in cardiochirurgia; molto spesso i più alti tassi di mortalità non sono indice di minore qualità del trattamento erogato, bensì di maggiore complessità della casistica trattata". Cosa ne pensa?
La domanda è tecnicamente ingenua. Faccio un esempio banale: se voglio confrontare la mortalità di popolazione tra la regione A e la regione B, calcolerò il numero di morti sulla popolazione residente e otterrò il tasso grezzo: A ha un tasso di mortalità molto più alto di B. Questo fenomeno è però, dato dal fatto che la struttura per età della popolazione A è molto diversa da quella di B. Non confrontiamo quindi, i tassi di mortalità grezzi tra due regioni o città, ma i tassi standardizzati per età. Confrontando questi ultimi, vedremo che B aveva apparentemente una mortalità più bassa, semplicemente perché aveva una popolazione più giovane di quella di A e standardizzando, aggiustando per età, i tassi si invertono e si vede che la forza della mortalità è molto più alta in B. Il confronto tra A e B era "distorto" dall’effetto dell’età, che è un forte determinante della mortalità ed è eterogeneamente distribuita tra A e B. Quello che in epidemiologia si definisce "confondimento". La stessa cosa si fa nel controllo della diversità dei casi, della comorbidità e della gravità acuta dei pazienti che vanno in ospedali diversi. Sul sito di P.Re.Val.E. tutti gli indicatori di esito prevedono modelli di risk adjustment, una procedura statistica che, utilizzando le informazioni dei sistemi informativi sulla comorbidità e in qualche caso sulla gravità dei pazienti, confronta tra di loro popolazioni e ospedali a parità di gravità. Talvolta, questa standardizzazione/aggiustamento corregge fortemente i risultati, in altri casi meno, nel senso che per moltissime situazioni il mix di gravità dei pazienti, tra i diversi ospedali, è assolutamente omogeneo.
Se confrontassi le cardio-chirurgie in termini di mortalità a trenta giorni, dopo by-pass aorto-coronarico (questo è un esempio che in Italia abbiamo già molto sviluppato, è uno degli indicatori che si usa con maggiore facilità), noterei che i tassi grezzi sono molto simili ai tassi aggiustati; ciò significa che c’è una scarsa eterogeneità di gravità tra ospedali. Comunque, li aggiustiamo nell’ipotesi che da un anno all’altro ci sia qualche struttura che faccia una selezione per bassa gravità. Ormai, i sistemi informativi veicolano informazioni talmente ricche che consentono di controllare bene queste situazioni. Man mano che si rendono disponibili sistemi informativi più sofisticati, siamo in condizione di produrre dei tassi assolutamente poco distorti.
I calcoli possono essere viziati da errori…
L’errore è una caratteristica della misurazione: noi cerchiamo ogni anno di migliorare il livello di controllo degli "errori". Ebbi modo di rispondere così ad un illustre cardiologo che mi chiedeva cosa potremo fare per migliorare: "le assicuro che il prossimo anno faremo errori diversi". Di ciò va tenuto conto, perché noi lavoriamo su misure empiriche, fatte su osservazioni, non disponiamo di un "qualitometro", con il quale misurare in modo perfetto la qualità degli ospedali.
Il nostro sistema sanitario è molto controllato dalla politica ed è la politica stessa che molte volte chiede questa valutazione; ma poi, quando è fatta, ha difficoltà ad accettarla. I sistemi di valutazione hanno una caratteristica implicita: una volta che la valutazione è prodotta, è destinata a condizionare fortemente le decisioni ed, in molti casi, il politico non ama essere condizionato nelle sue decisioni. Fino ad oggi tuttavia, devo dire che il Ministro Ferruccio Fazio non solo mostra di aver ben valutato gli effetti potenziali dei sistemi di valutazione degli esiti, ma sta decisamente supportando il nostro lavoro.
Si direbbe, è una questione di accountability…
La parola inglese accountability viene spesso tradotta con "responsabilità", ma in inglese il senso del termine è "essere responsabile e doverne rispondere". Nel nostro contesto socio-culturale, la cultura dell’accountability è fortemente limitata; tutti si dichiarano responsabili di qualcosa, tutti hanno le stellette, primari, dirigenti, direttori generali, assessori etc. Ma in realtà, è davvero scarsa l’attitudine a dovere rispondere del proprio operato. Questi sistemi di valutazione hanno l’obiettivo principale di aumentare l’accountability di tutti: dei medici e dei responsabili delle strutture ospedaliere, ma anche dei politici che scelgono i dirigenti.
In un sistema sanitario universalistico e solidaristico come il nostro ha senso parlare di empowerment del paziente?
Rispondo con un aneddoto. Nel Lazio, una persona con più di 65 anni con frattura del femore, ha un tempo medio di attesa tra il ricovero e l’intervento chirurgico di circa otto giorni: addirittura, in alcuni ospedali, come quello di Frosinone, in media l’attesa è di sedici giorni. E ciò nonostante tutte le linee guida raccomandino nell’anziano un tempo massimo di quarantotto ore. Giorni fa, è stato riportato dai giornali un caso che dovrebbe fare riflettere: una donna anziana, molto anziana, di centouno anni e con tanti acciacchi, ma con un alto livello di empowerment, ha saputo scegliere – lei o chi per lei – la struttura migliore cui rivolgersi per il trattamento della frattura del femore; si è rivolta all’Ospedale Sant’Andrea di Roma, è stata ricoverata intorno alle quattro del pomeriggio ed è stata operata alle sette del mattino del giorno dopo, dunque con sole quindici ore di intervallo e non quindici giorni. L’identità di questa persona è stata rivelata dai giornali: un premio nobel per la medicina e senatrice a vita.
Questo è un classico esempio di come l’avere la conoscenza del sistema e il sapere "contrattare" il proprio livello di cura rendano possibile ottenere cure di livello ottimo nel nostro sistema sanitario. Ma un povero disgraziato, che ha certamente la copertura del sistema sanitario nazionale, ma non sa scegliere l’ospedale giusto e non è in condizione di potere contrattare il proprio livello di assistenza, ha davanti a sé otto giorni di attesa per un intervento di riduzione della frattura del femore.
7 aprile 2010
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In primo piano
Le valutazioni migliorano il sistema
In un mondo ideale, se un cittadino dovesse fare un delicato intervento chirurgico, potrebbe scegliere la struttura migliore a cui rivolgersi sulla base di informazioni validate, piuttosto che sul passaparola. Esiste in Italia una classifica trasparente di valutazione delle strutture, che consenta a chiunque di effettuare una scelta informata?
In questo momento, a livello nazionale non esiste ancora. Il Ministro della Salute ha lanciato recentemente, attraverso Age.Na.S, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, un programma che dovrebbe rendere disponibili informazioni sugli esiti, qualcuno le chiama performance, dei diversi servizi sanitari e delle diverse autorità di tutela, cioè le aziende sanitarie locali. Per capire meglio è necessario fare un passo indietro; in alcuni contesti, come quello americano per esempio, sono disponibili anche sul web, informazioni di due tipi: una è sui risultati degli interventi dei diversi "provider", come gli ospedali (un esempio è HealthGrades, un sito privato che su un numero cospicuo di prestazioni e di malattie fa vedere i risultati degli ospedali americani accreditati con Medicare); l’altro tipo di informazione – ripeto, in un contesto come quello americano – riguarda gli assicuratori: cioè, quali sono le performance di diverse compagnie di assicurazione o HMO, nei confronti dei propri assicurati. In Italia, avremmo bisogno di due tipi di valutazione: la prima dovrebbe rispondere alla domanda "come è tutelato nella propria salute un cittadino residente in una data ASL?" e dovrebbe rilevare i risultati della tutela della salute e della cura delle malattie in queste popolazioni, indipendentemente da dove vanno a farsi curare i cittadini. In altre parole, per valutare il direttore generale della ASL di Palermo, devo sapere qual è il livello di tutela nei confronti dei suoi cittadini, senza tenere conto del fatto che poi, un cittadino possa usare servizi sanitari a Messina o a Torino.
La seconda è la valutazione comparativa tra servizi, soprattutto ospedali. Proprio a questo mira il programma voluto dal Ministro della Salute; un programma che sostanzialmente, con alcune modifiche legate al contesto nazionale, riprende l’esperienza condotta nel Lazio con il Programma Regionale di Valutazione degli Esiti degli interventi sanitari (P.Re.Val.E).
Di cosa si tratta?
Il programma P.Re.Val.E., approvato dalla Giunta regionale del Lazio nel 2006, prevede la stima di numerosi indicatori di esito sia delle aziende sanitarie sia degli ospedali e la pubblicazione dei dati. La Giunta regionale del Lazio ha scelto di pubblicare queste valutazioni sul web (dopo alcuni anni di sperimentazione non pubblicizzata): sul sito dell’ASP Lazio, sono disponibili i dati del programma relativi, per il momento, al biennio 2006 – 2007. Credo che entro maggio, saranno disponibili anche quelli del biennio 2008 – 2009.
E qual è il livello di qualità dei servizi che emerge dai dati?
I dati mostrano una straordinaria eterogeneità nella qualità dell’assistenza, sia rispetto alla popolazione residente, sia tra i diversi provider di servizi. Le sorprese sono molte e in particolare, dimostrano che la reputazione sulla base del "si dice", le parole dette dall’amico, dal collega o dal medico amico, non sempre corrispondono esattamente ai risultati di valutazione delle strutture ospedaliere.
Su quali basi avete potuto cogliere tali non corrispondenze rispetto al "si dice"?
Qualche anno fa i colleghi dell’Emilia Romagna, Roberto Grilli e i suoi collaboratori, hanno confrontato i risultati del primo programma di valutazione comparativa di esito condotto in Italia, lanciato dall’ex ministro Sirchia limitatamente alle cardiochirurgie (valutate attraverso un indicatore aggiustato di mortalità a trenta giorni dopo intervento di by-pass aorto-coronarico), con una pubblicazione del settimanale Panorama, che valutava le cardiochirurgie italiane sulla base di un indice di reputazione. Tale indice era stato ottenuto intervistando i medici di medicina generale e chiedendo loro quali fossero – dal loro punto di vista – le migliori cardiochirurgie in Italia.
Dal confronto è emerso un classico paradosso in questo campo: le cardiochirurgie con la migliore reputazione avevano le peggiori performance, quelle con la peggiore reputazione avevano le migliori performance.
Come va interpretato questo risultato?
Credo che sia molto importante capire come i cittadini vedono i servizi sanitari: nel suo complesso il sistema sanitario non è un sistema di mercato perfetto, perché soffre di uno straordinario problema di asimmetria informativa tra il venditore e il compratore.
Per acquistare un’automobile, non andiamo da un rivenditore qualunque a chiedere una macchina qualunque, ma scegliamo il rivenditore, il modello, la cilindrata, il colore etc., insomma siamo dei clienti qualificati. Se invece, abbiamo un infarto, prima di tutto è difficile che si faccia a tempo a scegliere l’ospedale in cui essere inviati. Poi, arrivati all’ospedale, di certo non chiediamo: "per favore, mi faccia un’angioplastica percutanea della coronaria tal dei tali e mi metta uno stent medicato con il farmaco x e poi mi somministri il farmaco y alla dose z, etc."; semmai, diciamo "sto male, voglio essere curato", o meglio "io non voglio morire" e tutto quello che ci viene "venduto" dipende dal "venditore". In altre parole, il sistema sanitario è dominato dall’offerta.
Nella valutazione della qualità dell’assistenza, qual è il ruolo del paziente?
Tutti i sistemi che tentano di misurare l’efficacia delle cure valutando anche il punto di vista del cliente – viene usato molto il termine customer satisfaction – nel caso del sistema sanitario, fanno danni. Per il cittadino è possibile valutare in modo qualificato il livello di accoglienza, di comfort, il cibo, la cortesia del personale; ma il paziente, per definizione, non è in condizione di valutare la qualità del trattamento.
Inoltre, quelli che subiscono il massimo degli effetti negativi di un trattamento, cioè quelli che muoiono, non possono esprimere nessun parere; viceversa, possono esserci livelli molto elevati di soddisfazione in persone che hanno ricevuto prestazioni totalmente inefficaci e inappropriate, ma nel massimo comfort.
Per esempio?
La M.O.C. (mineralografia ossea computerizzata) è un intervento diagnostico utile in pochissimi casi, totalmente inutile nella prevenzione dell’osteoporosi, per cui dovrebbe essere fortemente razionata e riservata ai pochi casi in cui serve. Ma se una donna si rivolge alla sua ASL e alla richiesta di una MOC le viene detto che, nel caso specifico, non risulta appropriata, ecco che quella donna avrà un pessimo livello di satisfaction. Se la stessa persona si rivolge ad un’altra struttura che immediatamente le fa fare la MOC, senza attendere troppo e in una meravigliosa sala d’attesa, il livello di satisfaction sarà elevato, ma per un intervento totalmente inefficace e inappropriato. Quindi, la valutazione dei cittadini va bene solamente quando riferita a prestazioni assolutamente di dimostrata efficacia e appropriatezza e quando si riferisce prevalentemente al modo di erogare la prestazione, ma non esiste una possibilità del cittadino di valutazione diretta dell’esito della prestazione.
I dati del progetto P.Re.Val.E. necessitano di essere "tradotti" per essere utili al cittadino?
Il programma P.Re.Val.E. al momento, ha un sito che non è orientato al cittadino, ma è per gli addetti ai lavori, consultabile dai medici di medicina generale, dai gestori delle aziende sanitarie, probabilmente, anche dalle organizzazioni dei cittadini; ma per come è organizzato e presentato, non può essere una sorta di guida del Gambero Rosso degli ospedali. Sarei già molto contento se quei dati fossero utilizzati da chi ha funzioni di governo nel sistema sanitario, per ragionare sull’accreditamento delle strutture e soprattutto, per promuovere programmi di audit che puntino a migliorare la qualità. Non è certamente un sito di stellette e pagelle.
Allora, perché rendere pubblicamente accessibili quelle informazioni?
Le esperienze internazionali di public disclosure dei risultati comparativi di esito, che sono perlopiù esperienze americane ed inglesi (si veda per esempio, Choice in the NHS), dimostrano che la pubblicazione dei risultati ha scarsi effetti nell’aumentare la capacità del cittadino di scegliere il servizio dove andare, se non per patologie croniche, per le quali appunto, c’è tempo di scegliere. Straordinari, invece, sono gli effetti nel miglioramento della qualità dei servizi, perché la public disclosure incide nel confronto tra medici e professionisti, che alla reputazione ci tengono. Quando la qualità delle performance e delle cure è pubblicamente disponibile ai cittadini e agli operatori del sistema sanitario, si attiva un percorso i cui effetti positivi – che sono dominanti rispetto a quelli negativi pur presenti – portano i medici al tentativo di emularsi, per fornire prestazioni con esiti migliori. I professionisti di un ospedale che ha una mortalità aggiustata post infarto miocardico acuto del 20%, rispetto a best performers che hanno il 7- 8%, di certo non sono contenti di vedersi classificati di bassa qualità e faranno di tutto per migliorarla.
Nerina Dirindin ha affermato: "Non è facile confrontare dati appartenenti a strutture molto diverse, con case mix diversi e operanti in contesti molto differenti. Il rischio paventato da chi contrasta sistemi di valutazione trasparenti, è che i dati possano fornire informazioni ambigue, difficilmente interpretabili o addirittura causa di confusione o distorsione. Il caso classico portato ad esempio è il tasso di mortalità in cardiochirurgia; molto spesso i più alti tassi di mortalità non sono indice di minore qualità del trattamento erogato, bensì di maggiore complessità della casistica trattata". Cosa ne pensa?
La domanda è tecnicamente ingenua. Faccio un esempio banale: se voglio confrontare la mortalità di popolazione tra la regione A e la regione B, calcolerò il numero di morti sulla popolazione residente e otterrò il tasso grezzo: A ha un tasso di mortalità molto più alto di B. Questo fenomeno è però, dato dal fatto che la struttura per età della popolazione A è molto diversa da quella di B. Non confrontiamo quindi, i tassi di mortalità grezzi tra due regioni o città, ma i tassi standardizzati per età. Confrontando questi ultimi, vedremo che B aveva apparentemente una mortalità più bassa, semplicemente perché aveva una popolazione più giovane di quella di A e standardizzando, aggiustando per età, i tassi si invertono e si vede che la forza della mortalità è molto più alta in B. Il confronto tra A e B era "distorto" dall’effetto dell’età, che è un forte determinante della mortalità ed è eterogeneamente distribuita tra A e B. Quello che in epidemiologia si definisce "confondimento". La stessa cosa si fa nel controllo della diversità dei casi, della comorbidità e della gravità acuta dei pazienti che vanno in ospedali diversi. Sul sito di P.Re.Val.E. tutti gli indicatori di esito prevedono modelli di risk adjustment, una procedura statistica che, utilizzando le informazioni dei sistemi informativi sulla comorbidità e in qualche caso sulla gravità dei pazienti, confronta tra di loro popolazioni e ospedali a parità di gravità. Talvolta, questa standardizzazione/aggiustamento corregge fortemente i risultati, in altri casi meno, nel senso che per moltissime situazioni il mix di gravità dei pazienti, tra i diversi ospedali, è assolutamente omogeneo.
Se confrontassi le cardio-chirurgie in termini di mortalità a trenta giorni, dopo by-pass aorto-coronarico (questo è un esempio che in Italia abbiamo già molto sviluppato, è uno degli indicatori che si usa con maggiore facilità), noterei che i tassi grezzi sono molto simili ai tassi aggiustati; ciò significa che c’è una scarsa eterogeneità di gravità tra ospedali. Comunque, li aggiustiamo nell’ipotesi che da un anno all’altro ci sia qualche struttura che faccia una selezione per bassa gravità. Ormai, i sistemi informativi veicolano informazioni talmente ricche che consentono di controllare bene queste situazioni. Man mano che si rendono disponibili sistemi informativi più sofisticati, siamo in condizione di produrre dei tassi assolutamente poco distorti.
I calcoli possono essere viziati da errori…
L’errore è una caratteristica della misurazione: noi cerchiamo ogni anno di migliorare il livello di controllo degli "errori". Ebbi modo di rispondere così ad un illustre cardiologo che mi chiedeva cosa potremo fare per migliorare: "le assicuro che il prossimo anno faremo errori diversi". Di ciò va tenuto conto, perché noi lavoriamo su misure empiriche, fatte su osservazioni, non disponiamo di un "qualitometro", con il quale misurare in modo perfetto la qualità degli ospedali.
Il nostro sistema sanitario è molto controllato dalla politica ed è la politica stessa che molte volte chiede questa valutazione; ma poi, quando è fatta, ha difficoltà ad accettarla. I sistemi di valutazione hanno una caratteristica implicita: una volta che la valutazione è prodotta, è destinata a condizionare fortemente le decisioni ed, in molti casi, il politico non ama essere condizionato nelle sue decisioni. Fino ad oggi tuttavia, devo dire che il Ministro Ferruccio Fazio non solo mostra di aver ben valutato gli effetti potenziali dei sistemi di valutazione degli esiti, ma sta decisamente supportando il nostro lavoro.
Si direbbe, è una questione di accountability…
La parola inglese accountability viene spesso tradotta con "responsabilità", ma in inglese il senso del termine è "essere responsabile e doverne rispondere". Nel nostro contesto socio-culturale, la cultura dell’accountability è fortemente limitata; tutti si dichiarano responsabili di qualcosa, tutti hanno le stellette, primari, dirigenti, direttori generali, assessori etc. Ma in realtà, è davvero scarsa l’attitudine a dovere rispondere del proprio operato. Questi sistemi di valutazione hanno l’obiettivo principale di aumentare l’accountability di tutti: dei medici e dei responsabili delle strutture ospedaliere, ma anche dei politici che scelgono i dirigenti.
In un sistema sanitario universalistico e solidaristico come il nostro ha senso parlare di empowerment del paziente?
Rispondo con un aneddoto. Nel Lazio, una persona con più di 65 anni con frattura del femore, ha un tempo medio di attesa tra il ricovero e l’intervento chirurgico di circa otto giorni: addirittura, in alcuni ospedali, come quello di Frosinone, in media l’attesa è di sedici giorni. E ciò nonostante tutte le linee guida raccomandino nell’anziano un tempo massimo di quarantotto ore. Giorni fa, è stato riportato dai giornali un caso che dovrebbe fare riflettere: una donna anziana, molto anziana, di centouno anni e con tanti acciacchi, ma con un alto livello di empowerment, ha saputo scegliere – lei o chi per lei – la struttura migliore cui rivolgersi per il trattamento della frattura del femore; si è rivolta all’Ospedale Sant’Andrea di Roma, è stata ricoverata intorno alle quattro del pomeriggio ed è stata operata alle sette del mattino del giorno dopo, dunque con sole quindici ore di intervallo e non quindici giorni. L’identità di questa persona è stata rivelata dai giornali: un premio nobel per la medicina e senatrice a vita.
Questo è un classico esempio di come l’avere la conoscenza del sistema e il sapere "contrattare" il proprio livello di cura rendano possibile ottenere cure di livello ottimo nel nostro sistema sanitario. Ma un povero disgraziato, che ha certamente la copertura del sistema sanitario nazionale, ma non sa scegliere l’ospedale giusto e non è in condizione di potere contrattare il proprio livello di assistenza, ha davanti a sé otto giorni di attesa per un intervento di riduzione della frattura del femore.