In un recente editoriale sulla Rivista Italiana di Medicina Legale [1], commentando il fervore culturale suscitato dalla cosiddetta Evidence-based Medicine (EBM), avanzavo alcune osservazioni semantiche sul termine evidenza, che, sussunto dal linguaggio giudiziario di common law, non poteva che essere interpretato nel senso dell’oggettività probatoria piuttosto che in quello dell’espressività fenomenica.
Come egregiamente avverte Liberati et al [2], può essere opportuno evitare “una traduzione letterale” dell’espressione evidence che porterebbe ad intendere tale termine come evidenza intesa nel senso (per portare un esempio proprio dell’ambito medico-legale relativo alla responsabilità professionale) della res ipsa loquitur, “posto che in italiano è evidente ciò che si giustifica da sé e che non ha bisogno di prove”. Il medico-legale italiano, aduso ormai alle vicende e agli stereotipi dottrinari e processuali di common law, non cade tuttavia nell’insidia dell’antinomia semantica, ben intendendo la valenza traslata di evidence come prova “termine che a sua volta rimanda assai meglio all’assioma di fondo della EBM” consistente nell’auspicio di una prassi medica (e, ancor più, medico-forense) ove le azioni (o le omissioni) siano tanto più appropriate quanto più legittimate dall’onere della prova.
E qui è intervenuta l’autorevolissima analisi di un grande Maestro del diritto penale, qual è Giuliano Vassalli [3], che conforta la mia analisi e che, d’altronde, va riferita e perfettamente si adatta all’esigenza-evidenza della prova su cui si fonda il nuovo rito penale.
La stessa interpretazione del termine, l’unica logicamente accettabile, vale anche per la Medicina sperimentale, preventiva e clinica, nonché per ogni applicazione giuridico-sociale della biologia e della Medicina stessa, talché la traduzione, per vari aspetti utile e opportuna di EBM in “Medicina delle prove di efficacia”, appare sostanzialmente riduttiva, in quanto investe un solo aspetto della categoria, quello inerente il riferimento di ogni operatività diagnostica e terapeutica a standard sufficientemente elaborati, ormai essenziali a definire e concretizzare la migliore efficacia, la migliore qualità, la migliore convenienza, la migliore equità, il migliore rispetto alla libertà della persona, in ordine alle obiettive esigenze di utile impiego e di giusta allocazione delle risorse.
L’ispirazione che si coglie da questa nuova dimensione della Medicina tende peraltro alla razionalizzazione (anche) del momento essenziale (assistenziale) dell’intervento, quello cioè delle scelte e delle decisioni mediche; della gestione clinica, in breve, che pur senza denervare le potestà professionali di cui è garante la personale penetranza di indirizzi e di sensibilità, non può non tendere a criteri di giudizio, a guide di comportamento fondate sulla concreta ed accettata dimensione scientifica dei singoli problemi. Non facile è, per vero, l’equilibrio tra i valori e le fonti della buona condotta medica, ma pur tuttavia necessario, in ragione della dinamica delle conoscenze e dell’evoluzione antica, del tutto incessante, di mezzi e di metodi, il cui dominio culturale è assolutamente chimerico per il singolo operatore, la cui ignoranza o trascuranza sono peraltro generalmente inammissibili e potenzialmente produttive di colpa professionale.
Ed allora, se è vera la escalation delle evidenze sulle ipotesi avventurose, occorre sul terreno applicativo oltre che nella dimensione epistemologica, saldare in una sintesi nuova e ardua ma tuttavia possibile, ogni aspetto culturale e applicativo della EBM, quale in Italia ha prodotto la metodologia clinica liberandosi da una funzione meramente catalogatrice e descrittiva dei segni, illusoriamente volta a produrre effetti diagnostici o a legittimare scelte terapeutiche, e indirizzandosi nettamente verso la ricerca di prove, di evidenze, capaci di confortare un’ipotesi, la quale deve necessariamente procedere e non essere passivamente trascinata dall’onda lunga e lenta delle analisi, gonfie d’ogni possibile relitto e viziata da preconcette derive abitudinarie. Forse la psichiatria ha offerto il migliore esempio ed il massimo contributo ad una svolta diagnostica e operativa (col metodo del DSM), ripudiando la nosografia storica (le varie psicosi) per cogliere e valorizzare la peculiarità delle espressioni individuali del disordine mentale.
E in questa prospettiva di amplissima e unitaria dimensione definitoria e operativa confluiscono:
- Le illuminazioni della Biologia e della Medicina sperimentale, soggette a regole tanto protocollari dei comportamenti quanto interpretative dei risultati, cui sono essenziali le idee dell’evolutività e dell’insufficienza di ogni certezza e la valutazione biostatistica.
- Le linee-guida scientificamente elaborate, la cui aberrante degenerazione politico-amministrativa può peraltro essere fattore di una vera e propria regressione culturale.
- (????) ni cliniche dei percorsi diagnostici e curativi, che hanno volta a volta condotto a una cartella clinica orientata per problemi (nel senso di Weedy).
Così diagnosi e terapia si consolidano di sostanza vieppiù scientifica, emergendo da evidenze e producendo evidenze, onde tutta la Medicina non può che valersi di affidanti prove, le quali costituiscono espressione di responsabilità e di effettivo equilibrio tra interessi e valori in campo. La conoscenza delle regole è d’altronde garanzia di un’effettiva alleanza tra esercizio medico, utenza e società. Anche la norma giuridica e quella deontologica tendono ormai a valorizzare le linee-guida. Non a caso l’Art 3 della legge 8 aprile 1998, No 94 (Gazzetta Ufficiale No 86 del 14 aprile 1998), contenente disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico (Art 3), valorizza le scelte terapeutiche anche difformi delle indicazioni ministeriali, purché propugnate nell’interesse e con il consenso del paziente, in base a dati e documenti, e conformemente agli indirizzi scientifici accreditati in campo internazionale.
Non si vede d’altronde perché la Medicina debba restare estranea ai processi di sussunzione sotto leggi scientifiche delle procedure diagnostiche e terapeutiche, cui la dottrina giuridica più avanzata confida l’evidenza del nesso causale. Si tratta di un processo che, tra i penalisti italiani, Federico Stella [5] ha programmato e applicato nella documentazione del rapporto di causalità tra cause ed eventi, attivi od omissivi, che se non supportato dalla perentorietà del fenomeno (res ipsa loquitur), dev’essere costruito sulla scorta di elementi di conoscenza scientificamente e/o statisticamente elaborati.
L’individuazione della legge scientifica che spieghi causalmente l’evento rappresenta dunque il presupposto per identificare la condizione necessaria di un evento. In breve, prima viene in considerazione la legge scientifica (generale ed astratta), e quindi si verifica se il fatto storico sub iudice sia riconducibile nell’alveo dello schema generale degli effetti delineati sul piano scientifico. Se in base ad una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica un antecedente può considerarsi come condizione necessaria, anche sul piano della causalità giuridica si potrà affermare che l’evento deriva da quella causa concreta. Le leggi di copertura o leggi scientifiche che consentono al giudice di determinare il nesso di causalità sono rappresentate dalle c.d. leggi universali (in base alle quali è possibile affermare allo stato dell’attuale conoscenza umana che tassativamente e invariabilmente ad un certo atto corrisponde la realizzazione di un certo evento), e dalle leggi statistiche, oggettivamente dotate di minore certezza scientifica (in base alle quali si può affermare che in una data percentuale di casi la realizzazione di un atto è seguita dal verificarsi di un evento). Posto che ogni evento materiale della storia dell’uomo ha la possibilità statistica di verificarsi (ancorché con un indice percentuale molto basso), per evitare di cadere nella facile critica in base a cui tutto è statisticamente possibile è necessario rifarsi alle ipotesi dotate di maggiore validità scientifica perché possono trovare applicazione “in un numero sufficientemente alto di casi” e quindi “ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili”.
Le evidenze, si chiamino prove d’efficacia, linee-guida, indirizzi biostatistici d’indole epidemiologica, apprezzamenti valutativi del danno alla persona, costituiscono ormai prodotti convergenti di plurimi approfondimenti culturali e scientifici. Esse suggeriscono un modo oggettivo di fare Medicina, meno individualistico e forse meno magistrale, ma cosciente delle esigenze di controllo di qualità, di equa allocazione delle risorse, di valutazione della buona pratica medica. E la Medicina legale non è né può essere estranea al fenomeno.
Bibliografia
- Barni M. Evidence-based Medicine e Medicina Legale. Riv It Med Leg 1998; 20: 3-9
- Liberati A. La medicina delle prove di efficacia. Il Pensiero Scientifico Ed, Roma 1997
- Vassalli G. L’Evidenza nel Linguaggio Giuridico. MEDIC 1999: 6: 25-29
- Weed L. Medical research, medical education and patient care. Year Book Med Publ, Chicago 1969
- Stella F. Commentario del Codice penale. (In corso di stampa al momento di stesura dell’articolo).
In primo piano
L’Evidenza nel Linguaggio Medico-Legale
In un recente editoriale sulla Rivista Italiana di Medicina Legale [1], commentando il fervore culturale suscitato dalla cosiddetta Evidence-based Medicine (EBM), avanzavo alcune osservazioni semantiche sul termine evidenza, che, sussunto dal linguaggio giudiziario di common law, non poteva che essere interpretato nel senso dell’oggettività probatoria piuttosto che in quello dell’espressività fenomenica.
Come egregiamente avverte Liberati et al [2], può essere opportuno evitare “una traduzione letterale” dell’espressione evidence che porterebbe ad intendere tale termine come evidenza intesa nel senso (per portare un esempio proprio dell’ambito medico-legale relativo alla responsabilità professionale) della res ipsa loquitur, “posto che in italiano è evidente ciò che si giustifica da sé e che non ha bisogno di prove”. Il medico-legale italiano, aduso ormai alle vicende e agli stereotipi dottrinari e processuali di common law, non cade tuttavia nell’insidia dell’antinomia semantica, ben intendendo la valenza traslata di evidence come prova “termine che a sua volta rimanda assai meglio all’assioma di fondo della EBM” consistente nell’auspicio di una prassi medica (e, ancor più, medico-forense) ove le azioni (o le omissioni) siano tanto più appropriate quanto più legittimate dall’onere della prova.
E qui è intervenuta l’autorevolissima analisi di un grande Maestro del diritto penale, qual è Giuliano Vassalli [3], che conforta la mia analisi e che, d’altronde, va riferita e perfettamente si adatta all’esigenza-evidenza della prova su cui si fonda il nuovo rito penale.
La stessa interpretazione del termine, l’unica logicamente accettabile, vale anche per la Medicina sperimentale, preventiva e clinica, nonché per ogni applicazione giuridico-sociale della biologia e della Medicina stessa, talché la traduzione, per vari aspetti utile e opportuna di EBM in “Medicina delle prove di efficacia”, appare sostanzialmente riduttiva, in quanto investe un solo aspetto della categoria, quello inerente il riferimento di ogni operatività diagnostica e terapeutica a standard sufficientemente elaborati, ormai essenziali a definire e concretizzare la migliore efficacia, la migliore qualità, la migliore convenienza, la migliore equità, il migliore rispetto alla libertà della persona, in ordine alle obiettive esigenze di utile impiego e di giusta allocazione delle risorse.
L’ispirazione che si coglie da questa nuova dimensione della Medicina tende peraltro alla razionalizzazione (anche) del momento essenziale (assistenziale) dell’intervento, quello cioè delle scelte e delle decisioni mediche; della gestione clinica, in breve, che pur senza denervare le potestà professionali di cui è garante la personale penetranza di indirizzi e di sensibilità, non può non tendere a criteri di giudizio, a guide di comportamento fondate sulla concreta ed accettata dimensione scientifica dei singoli problemi. Non facile è, per vero, l’equilibrio tra i valori e le fonti della buona condotta medica, ma pur tuttavia necessario, in ragione della dinamica delle conoscenze e dell’evoluzione antica, del tutto incessante, di mezzi e di metodi, il cui dominio culturale è assolutamente chimerico per il singolo operatore, la cui ignoranza o trascuranza sono peraltro generalmente inammissibili e potenzialmente produttive di colpa professionale.
Ed allora, se è vera la escalation delle evidenze sulle ipotesi avventurose, occorre sul terreno applicativo oltre che nella dimensione epistemologica, saldare in una sintesi nuova e ardua ma tuttavia possibile, ogni aspetto culturale e applicativo della EBM, quale in Italia ha prodotto la metodologia clinica liberandosi da una funzione meramente catalogatrice e descrittiva dei segni, illusoriamente volta a produrre effetti diagnostici o a legittimare scelte terapeutiche, e indirizzandosi nettamente verso la ricerca di prove, di evidenze, capaci di confortare un’ipotesi, la quale deve necessariamente procedere e non essere passivamente trascinata dall’onda lunga e lenta delle analisi, gonfie d’ogni possibile relitto e viziata da preconcette derive abitudinarie. Forse la psichiatria ha offerto il migliore esempio ed il massimo contributo ad una svolta diagnostica e operativa (col metodo del DSM), ripudiando la nosografia storica (le varie psicosi) per cogliere e valorizzare la peculiarità delle espressioni individuali del disordine mentale.
E in questa prospettiva di amplissima e unitaria dimensione definitoria e operativa confluiscono:
Così diagnosi e terapia si consolidano di sostanza vieppiù scientifica, emergendo da evidenze e producendo evidenze, onde tutta la Medicina non può che valersi di affidanti prove, le quali costituiscono espressione di responsabilità e di effettivo equilibrio tra interessi e valori in campo. La conoscenza delle regole è d’altronde garanzia di un’effettiva alleanza tra esercizio medico, utenza e società. Anche la norma giuridica e quella deontologica tendono ormai a valorizzare le linee-guida. Non a caso l’Art 3 della legge 8 aprile 1998, No 94 (Gazzetta Ufficiale No 86 del 14 aprile 1998), contenente disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico (Art 3), valorizza le scelte terapeutiche anche difformi delle indicazioni ministeriali, purché propugnate nell’interesse e con il consenso del paziente, in base a dati e documenti, e conformemente agli indirizzi scientifici accreditati in campo internazionale.
Non si vede d’altronde perché la Medicina debba restare estranea ai processi di sussunzione sotto leggi scientifiche delle procedure diagnostiche e terapeutiche, cui la dottrina giuridica più avanzata confida l’evidenza del nesso causale. Si tratta di un processo che, tra i penalisti italiani, Federico Stella [5] ha programmato e applicato nella documentazione del rapporto di causalità tra cause ed eventi, attivi od omissivi, che se non supportato dalla perentorietà del fenomeno (res ipsa loquitur), dev’essere costruito sulla scorta di elementi di conoscenza scientificamente e/o statisticamente elaborati.
L’individuazione della legge scientifica che spieghi causalmente l’evento rappresenta dunque il presupposto per identificare la condizione necessaria di un evento. In breve, prima viene in considerazione la legge scientifica (generale ed astratta), e quindi si verifica se il fatto storico sub iudice sia riconducibile nell’alveo dello schema generale degli effetti delineati sul piano scientifico. Se in base ad una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica un antecedente può considerarsi come condizione necessaria, anche sul piano della causalità giuridica si potrà affermare che l’evento deriva da quella causa concreta. Le leggi di copertura o leggi scientifiche che consentono al giudice di determinare il nesso di causalità sono rappresentate dalle c.d. leggi universali (in base alle quali è possibile affermare allo stato dell’attuale conoscenza umana che tassativamente e invariabilmente ad un certo atto corrisponde la realizzazione di un certo evento), e dalle leggi statistiche, oggettivamente dotate di minore certezza scientifica (in base alle quali si può affermare che in una data percentuale di casi la realizzazione di un atto è seguita dal verificarsi di un evento). Posto che ogni evento materiale della storia dell’uomo ha la possibilità statistica di verificarsi (ancorché con un indice percentuale molto basso), per evitare di cadere nella facile critica in base a cui tutto è statisticamente possibile è necessario rifarsi alle ipotesi dotate di maggiore validità scientifica perché possono trovare applicazione “in un numero sufficientemente alto di casi” e quindi “ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili”.
Le evidenze, si chiamino prove d’efficacia, linee-guida, indirizzi biostatistici d’indole epidemiologica, apprezzamenti valutativi del danno alla persona, costituiscono ormai prodotti convergenti di plurimi approfondimenti culturali e scientifici. Esse suggeriscono un modo oggettivo di fare Medicina, meno individualistico e forse meno magistrale, ma cosciente delle esigenze di controllo di qualità, di equa allocazione delle risorse, di valutazione della buona pratica medica. E la Medicina legale non è né può essere estranea al fenomeno.
Bibliografia