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L’informazione: tra sensazionalismo e marketing

La medicina moderna si è evoluta e sta evolvendo molto rapidamente. C’è chi ritiene troppo rapidamente e chi invece non abbastanza. Non passa giorno che dai mass media non venga proposta (promossa) l’ultima terapia risolutiva per questa o per quella malattia (vera o immaginata). Quel che conta, almeno a questo inducono a credere i messaggi che raggiungono i medici e, quindi i pazienti, è che “l’ultima” terapia sia la migliore. Ormai gli stessi specialisti si sono abituati a ritenere sia la più efficace, anche se non risulta essere la più documentata dal punto di vista scientifico. I pregi e i difetti per emergere hanno però bisogno di tempo e mai come in questi ultimi anni (lo dimostrano i casi clamorosi di Lipobay, Vioxx, Avandia, tutti e tre farmaci messi in commercio e poi ritirati per i gravi effetti collaterali causati) l’iter per l’approvazione dei farmaci ha subìto una discutibile accelerazione determinata dall’industria farmaceutica, in cerca di profitti rapidi, ma anche tollerata (favorita) dalle stesse agenzie regolatorie che dovrebbero vigilare sulla sicurezza dei medicinali. “Paradossalmente, nonostante uno straordinario miglioramento delle conoscenze, ci troviamo in uno stato di maggiore incertezza e di minore soddisfazione e felicità”, scrive Marco Bobbio, nel suo ultimo libro Il malato immaginato (1), citando R.L. Logan (2) e A. Sen (3).

I risultati raggiunti dalla medicina negli ultimi decenni sono stati, è vero, strepitosi. Se fino alla metà del secolo scorso ci si occupava solo di chi era malato, oggi le malattie si curano prima che si manifestino, si gioca d’anticipo convinti di poterle evitare tutte. Le aspettative sono progressivamente aumentate, ma una medicina vissuta come senza limiti, quasi onnipotente, comporta inevitabili rischi. Soprattutto se la scienza medica, così come avviene oggi, obbedisce alle logiche del mercato. “E nella stanza dei bottoni siede chi ha come interesse primario non tanto la salute quanto il profitto” (4). “Le immagini di benessere e salute sono oggi sempre più associate all’accesso ai farmaci. La pubblicità promette a chi soffre di artrite di liberarsi dal dolore grazie all’ultimo blockbuster anti-infiammatorio. E dolori diffusi, malessere e senso di stanchezza si trasformano in sindrome mialgica, una malattia che non si sa neppure se esiste davvero, ma per la quale è già pronta per combatterla una pillola (nata come antiepilettico), Lyrica. Considerate queste soluzioni, a dir poco magiche, non c’è da stupirsi se oggi l’industria farmaceutica costituisca annualmente un mercato multimiliardario. Un commercio che promette farmaci innovativi per spazzare via malattie e alleviare le sofferenze del mondo” scrivono Petryna, Lakoff e Kleinman (5).

Il problema è che oggi siamo immersi in una medicina che investe più nel marketing che nella ricerca, in una medicina che “corre veloce e non è più in grado di valutare con onestà i propri successi e insuccessi; in una medicina che sa quale sia la cura per un gruppo di soggetti, ma non per quel singolo individuo che deve essere curato; in una medicina che utilizza strumenti diagnostici e terapeutici senza una completa conoscenza dei rischi e dei benefici; […] in una medicina che sta perdendo di vista il significato della peculiarità dell’incontro tra un medico e un paziente; in una medicina che s’inchina quasi esclusivamente agli scossoni prodotti da una novità, all’insegna dell’istantaneo e dell’immediato” (1). L’industria della salute, con il mito quotidianamente riacceso dell’eterna giovinezza e l’imperativo del benessere, rischia di trasformarci tutti in “sani malati o malati sani”. Essere consapevoli delle strategie sottili del marketing dovrebbe essere il primo passo per difendersi dal consumismo sanitario. “Ci deve essere qualcosa che non funziona se una persona, quando non ha alcun problema, va a farsi visitare da un medico. Siamo così ben curati che ci sentiamo tutti ammalati anche quando non lo siamo?” (1).

Nel 1976 Henry Gadsen, direttore dell’industria farmaceutica Merck, dichiarò alla rivista Fortune: “Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Ci permetterebbe di vendere a chiunque”. Che questo sogno si stia avverando, visto il rapido aumento nel consumo di farmaci? Oggi pare ci sia una pillola per ogni malattia e una malattia per ogni pillola. Conquista dell’eterna giovinezza e condizione illusoria di assenza di malattia: questi i miti propagati dal business del benessere. Le cifre dicono che la spesa per i farmaci aumenta in tutto il mondo occidentale, e in Italia. Se la medicina ha fatto negli ultimi decenni grandi progressi, la salute è nel frattempo diventata una merce e come tale prevede un’offerta. La domanda è spesso condizionata da un’industria farmacologica che investe un terzo del bilancio complessivo in marketing, il doppio di quello che spende nella ricerca, come ricorda Marcia Angell in Farma&Co (6). Solo negli Stati Uniti i colossi farmaceutici destinano ogni anno decine di miliardi di dollari per promuovere medicinali (la pressione si esercita con viaggi, inviti a congressi, regali, finanziamenti a società scientifiche, pubblicità mascherata da campagne di informazione). Lo afferma uno studio canadese ed è la rivista online PloS a farlo sapere. Un documento dei medici di medicina generale (MMG) lamenta l’intensificarsi di un “consumismo sanitario” che crea bisogni attraverso campagne stampa e associazioni di malati. Anche queste, fra l’altro, pur essendo portatrici delle istanze dei pazienti, sono spesso strumento (più o meno consapevole) delle aziende farmaceutiche, dalle quali ricevono finanziamenti per sostenere le proprie iniziative, come le giornate di sensibilizzazione sulle varie malattie.

Se questo è il contesto socio-economico-culturale in cui si attua la cura delle malattie (vere o immaginate), “e se la medicina è bugiarda e i risultati delle ricerche che determinano le scelte mediche sono spesso esagerati, se non fuorvianti o addirittura falsi”, afferma David Freedman sulla rivista americana The Atlantic (7), come è possibile informare in maniera corretta, e a chi spetta il compito di farlo? Ai medici (tanto adulati dai “rappresentati farmaceutici”) o ai mass media (in cerca di facile sensazionalismo)? E, ancor di più, come tracciare un netto confine tra informazione/ promozione/pubblicità? Si può davvero attribuire tutta la responsabilità ai mezzi di comunicazione? Sono in molti a ritenere che l’informazione diretta al pubblico sui farmaci da prescrizione (per quelli da banco la si fa già) approvata il dicembre 2010 dal Parlamento europeo cambierà, peggiorandolo, lo scenario, e non aiuterà certamente a favorire il cosiddetto “empowerment”: ad aumentare la conoscenza come sorgente di potere (8).

La comunicazione sulla medicina dovrebbe produrre partecipazione nelle decisioni del pubblico, fornire gli strumenti per una maggiore padronanza nelle scelte, consentire di farsi un’opinione specie su argomenti controversi. Ma come districarsi tra informazione/promozione/pubblicità e come distinguere nel gioco dei dati quelli veri quando perfino il mondo scientifico spesso cerca attraverso la comunicazione una propria legittimazione, un modo per tutelare i propri interessi?

Il sano scetticismo che solitamente si nutre verso un messaggio pubblicitario lo si dovrebbe trasferire anche a ciò che viene offerto dai media. Oggi i giornalisti da produttori di expertise scientifico rischiano di diventare mediatori con un’implicita complicità, una sorta di cinghia di trasmissione che trasferisce al pubblico in maniera, tanto repentina quanto acritica, ciò che esce da uffici stampa sempre più agguerriti. L’etica della responsabilità dovrebbe applicarsi all’universo intero delle notizie, anche se la medicina ha “qualcosa di più”, ha una dimensione più importante “perché benessere, dolore e sofferenza non sono costruzioni sociali” (9). Qualcuno ha visto nel sensazionalismo che ruota attorno alle notizie della medicina un coprodotto del compiacente rapporto tra giornalisti e scienziati (che in molti casi lavorano per l’industria come ricercatori o consulenti): se i giornalisti riescono così a catturare l’attenzione del pubblico, gli scienziati vedono nell’attenzione dei media un trampolino per una carriera di successo (e guadagni). E gli interessi delle due professioni sembrano influenzarsi l’uno con l’altro in modo molto poco salutare. A beneficio di una medicina sempre più imprenditrice (10).

Vendere salute, come recita il titolo del libro della sociologa americana Dorothy Nelkin, è diventata un’esigenza di mercato che spesso ignora la vulnerabilità dei destinatari dei messaggi mediatici. Quando le notizie influiscono su comportamenti e consumi, la responsabilità dei media è innegabile (11). Ma chi ha il controllo delle informazioni, delle immagini, dei valori elargiti al pubblico? Industrie, istituzioni politiche, associazioni professionali, gruppi di interesse, tutti vorrebbero controllare i messaggi che entrano nell’arena culturale attraverso i media. I nodi da sciogliere, tra medicina e potere, individuati negli anni ’70 da Giulio Maccacaro, propugnatore della medicina democratica, restano attuali. E non sono chiusi all’interno della medicina ma esprimono un rapporto di potere complessivo. I medici e la medicina non costituiscono un mondo a parte, una sorta di area protetta. I conflitti di interesse riguardano ogni ambito dell’economia, dell’informazione e della politica. La medicina è cultura politica e, a partire dagli anni ’80, è diventata un settore economico a tutti gli effetti. “Da allora la preoccupazione sulle conseguenze del conflitto di interessi è aumentata in modo esponenziale e drammatico” (12).

 

23 febbraio 2011

Articolo pubblicato su Bollettino SIFO, settembre-ottobre 2010.

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  • Bibliografia

    1. Bobbio M. Il malato immaginato. Torino: Einaudi; 2010.
    2. Logan RL, Scott PJ. Uncertainty in clinical practice: implications for quality and costs of health care. Lancet 1996; 347: 595-98.
    3. Sen A. Health: perception versus observation. BMJ 2002; 324: 860-1.
    4. Società scientifiche & Industria farmaceutica: servono regole e maggiore trasparenza. Comunicato stampa No grazie, pago io!, 3 dicembre 2010. (PDF: 68 Kb)
    5. Petryina A, Lakoff A, Kleinman A. Global Phamaceuticals. Duke, 2006.
    6. Angell M. Farma&Co. Milano: Il Saggiatore; 2006.
    7. Freedman DH. Lies, damned lies and medical sciences. The Atlantic, Novembre 2010.
    8. Gregory J, Miller S. Science in Public: Communication, Culture and Credibility. New York: Plenum Press; 1998.
    9. Greco P. L’informazione scientifica e le attese della società. In: Le responsabilità nel predire la salute. Pavia, Collegio Ghislieri, 20 aprile 2007.
    10. Schwitzer G. How do us journalists cover treatments, tests. Products, and procedures? An evaluation of 500 Stories. PloS Medicine 2008; 5: e95.
    11. Moynihan R, Cassells A. Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti. Bologna: Nuovi Mondi Media; 2005.
    12. Rothman DJ. Academic medical centers and financial conflicts of interest. JAMA 2008; 299: 695-7.

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