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Non per nulla ricerco

eva buiattiEva Buiatti è scomparsa un anno fa, dirigeva l’Osservatorio di Epidemiologia dell’Agenzia regionale Sanità della Toscana. "È stata l’anima della scuola di epidemiologia della Toscana e anche di quella italiana. Insieme ad altri colleghi Eva Buiatti ha fatto conoscere fin dagli anni Settanta l’epidemiologia, che nel nostro Paese non aveva un chiaro punto di riferimento nella didattica ufficiale universitaria", introduce Francesco Cipriani, l’attuale Coordinatore dell’Osservatorio toscano che per anni ha lavorato con Eva Buiatti.

In suo ricordo è stato organizzato il Convegno Ricerca epidemiologica e impegno civile – Il percorso scientifico e professionale di Eva Buiatti (Firenze, 29-30 giugno). Ripercorrendo la storia professionale degli interessi di Eva Buiatti, il Convegno vuole mettere in risalto i rapporti che intercorrono tra la disciplina epidemiologica, l’attività professionale ad essa connessa e l’impegno civile.

Epidemiologia occupazionale, oncologia, salute pubblica: sono le parole chiave del Convegno. Ce le può spiegare?

Queste tre parole chiave corrispondono a tre tappe importanti del percorso cronologico professionale di Eva Buiatti. Inizialmente, Eva si era occupata di come l’epidemiologia, da poco decollata nel nostro Paese, potesse servire per capire i rischi per la salute dei lavoratori quando esposti a sostanze pericolose. Eravamo tra gli anni Sessanta e Settanta. Si è così iniziato a capire l’importanza della pericolosità di alcuni ambienti di lavoro, acquisendo dati e statistiche che fino ad allora mancavano e che erano invece essenziali per poter intervenire e promuovere azioni di prevenzione. Questa è stata un’altra parola chiave presente in tutto il percorso scientifico di Eva. Lei non ha mai vissuto la ricerca come qualcosa di astratto, finalizzato solo alla identificazione delle cause: andava trovata anche un’applicazione alla vita di tutti i giorni delle persone. Qui ed ora. E questo approccio riflette anche il suo forte impegno civile.

Un impegno civile che ha poi trasferito dai lavoratori ai malati oncologici?

Sì. La tappa successiva è stata quella della prevenzione dei tumori. In particolare il lavoro degli epidemiologi sugli screening oncologici. Cioè la ricerca delle prove dell’efficacia della diagnosi precoce a livello di popolazione per alcuni tumori, con la mammografia o la ricerca del sangue occulto nelle feci o il Pap-test, dimostrando che sono capaci di migliorare la sopravvivenza e la qualità della vita delle persone. Non è sempre detto, infatti, che la diagnosi precoce sia di per sé positiva. Può anche mostrare la doppia faccia della medaglia. Ad esempio, l’efficacia dello screening del tumore della prostata è oggi molto dibattuto, perché insieme ai vantaggi di cure radicali, sono possibili anche conseguenze importanti (incontinenza, impotenza) in assenza di un sicuro guadagno in riduzione della mortalità. L’impegno di Eva Buiatti in questo campo è stato quello di introdurre i metodi dell’epidemiologia per capire l’efficacia della diagnosi precoce e delle cura dei tumori, ma anche l’importanza della prevenzione, identificando i fattori di rischio che precedono l’insorgenza del tumore, come le abitudini individuali di vita, il fumo di tabacco, la dieta e l’ambiente del lavoro. Forse più rilevante è stato il suo impegno nello studio epidemiologico dei rapporti tra dieta e salute.

Terza parola chiave: salute pubblica. Qual è stato l’impegno di Eva Buiatti quale epidemiologa in questo ambito?

Si è occupata degli indicatori epidemiologi che definiscono lo stato di salute della popolazione, utilizzando i dati raccolti negli archivi sanitari amministrativi, disponibili a basso costo ed in grande quantità. Sfruttando il loro potenziale informativo per monitorare la salute dei territori e per identificare le aree di criticità su cui intervenire. E tra i primi in Italia si è occupata di sviluppare i metodi e gli strumenti per capire quali sono gli interventi efficaci per migliorare la salute della popolazione, in termini sia di riduzione della mortalità sia anche di miglioramento della qualità della vita. Ha introdotto infatti l’approccio dell’evidence based prevention, che aiuta anche i politici a scegliere nel menù delle possibili azioni da mettere in campo per prevenire problemi di salute della popolazione, secondo principi razionali di efficacia e di efficienza rapportata alle risorse.

Il programma del Convegno riporta una serata sul caso Di Bella. Un caso storico ormai superato che ritorna in auge o che non è mai stata superato? Perché parlarne ancora?

Il caso di Bella è stato un classico caso italiano, per le modalità e l’intensità della vicenda. Lo abbiamo proposto non per risollevare polemiche, ma per mettere l’accento sulle difficoltà che ancora incontra l’epidemiologia, e più in generale ogni disciplina scientifica, ad affermare i principi dei metodi razionali (la sperimentazione, le prove nate dai confronti) rispetto alla spinta emotiva che spesso nasce dal disagio e dal dolore dei drammi personali. Il tumore è una malattia che ovviamente fa paura, e chi la vive personalmente è spinto sia ad affidarsi alla medicina ufficiale, sia a riporre speranze in qualsiasi rimedio che possa avere il sentore di essere di una qualche efficacia. L’epidemiologia, con i suoi metodi, cerca di definire con più precisione cosa sia più efficace tra due o più alternative terapeutiche. Il caso Di Bella riportò alla ribalta, con un clamore che finì per diventare anche un caso politico, un trattamento la cui efficacia rispetto alle indicazioni terapeutiche tradizionali non era dimostrata e, quindi, ripropose in modo esplosivo e drammatico questo conflitto mai sopito tra medicina ufficiale e usi terapeutici non ufficiali. Un conflitto che ancora c’è, e non solo in campo oncologico.

Che cosa ha insegnato?

Che in Italia probabilmente i problemi di salute delle persone vanno affrontati non solo con metodo rigoroso scientifico, come tende ad accadere maggiormente nei paesi Anglosassoni. Dobbiamo tener conto anche della "emotività mediterranea o latina " della nostra popolazione. Il nostro impegno quotidiano è però soprattutto quello di procedere con metodo e rigore, valutando indizi, prove e nessi di causa ed effetto. Cercando di capire. Sapendo però che questo paziente lavoro può essere sommerso da un’onda mediatica, come è accaduto con il caso Di Bella, quando la ricerca italiana ha mostrato anche la sua debolezza, faticando non poco per tenere la guida del rigore scientifico.

Eva Buiatti cosa diceva di questo caso tutto italiano?

Ne aveva dato anche un’altra interpretazione, a mio avviso interessante. Cioè che è difficile per le persone accettare questo modo di lavorare degli epidemiologi e di chi lavora nel campo della Sanità pubblica, più incentrato sull’interesse della collettività che del singolo cittadino. è difficile per molti distinguere il concetto di probabilità di una malattia a livello personale e collettivo. Forse solo gli scommettitori di professione hanno chiaro questo modo di ragionare. Ma per la maggioranza è più naturale ragionare sulla base di storie personali vissute o raccontate dall’amico o dal vicino. "Mio nonno ha sempre fumato ed è morto dopo i cent’anni", per il nipote è una prova più forte delle statistiche che dimostrano la maggiore mortalità dei fumatori nel loro complesso, come gruppo. Non vedendo e non percependo dalle statistiche tutti gli "altri nonni" morti per il fumo, ma che non sono il suo.

Continuano ad esserci "casi Di Bella"?

Ci sono sempre i casi di quelli che promettono cure migliori, con risultati immediati e sicuri, se non miracolosi, a cui sono particolarmente sensibili le persone che hanno problemi, siano piccoli (dimagrire, le rughe, la perdita dei capelli, ecc.), siano gravi o difficilmente curabili. Tuttavia non li accomunerei tutti al caso Di Bella, che è stato un fatto particolare all’interno della comunità medico scientifica. Anche per le caratteristiche personali e professionali di Di Bella, discutibili, ma improntate comunque ad una passione professionale, perlopiù svincolata da interessi economici diretti. Direi che il caso Di Bella esiste ancora nella discussione di tutti i giorni nel mondo medico-scientifico. Ad esempio sui margini di libertà nella pratica clinica, potendo essere lecito scegliere "anche" sulla base della propria esperienza, adattando le terapie al singolo caso. Cosa questa che tutti i medici in fondo fanno sempre quando prescrivono una cura. All’estremo opposto c’è la posizione più rigorosa di chi sostiene che il singolo il medico, per quanto esperto e con lunga carriera ed esperienza, non sia comunque da solo in grado di valutare l’efficacia di una terapia che è misurabile e verificabile solo sui grandi numeri dei pazienti arruolati nei trial clinici multicentrici. Il punto saggio di equilibrio è quello di riuscire ad adattare la terapia al singolo paziente, con un certo margine di arbitrarietà e di interpretazione rispetto al protocollo rigoroso. La terapia certo non è uguale per tutti, ma non può neppure essere troppo diversa da quella che le sperimentazioni condotte con i metodi condivisi della comunità scientifica internazionale hanno dimostrato essere efficaci.

La medicina basata sulle evidenze e centrata sul paziente…

Nella scelta di una cura ci sono altri fattori, oltre a quelli strettamente farmacologici, che il medico deve tenere in considerazione. Per esempio quelli di tipo organizzativo: la persona è anziana ? Vive da solo o ci sono persone in famiglia in grado di farsi carico della cura di problemi? Qual è il contesto culturale, sociale ed economico? Il colloquio con il paziente e i suoi familiari è un momento decisivo per valutare la terapia che meglio si adatta a ciascuna persona. Non conta solo il profilo clinico del paziente, ma anche il suo stile di vita. Il medico non è perciò un vero scienziato e la medicina in fondo è una disciplina che applica in modo rigoroso, ma empirico, i risultati della ricerca di base.

Considera l’epidemiologia come una risorsa o un ostacolo nella personalizzazione della terapia?

In effetti, se non si fa attenzione, può essere entrambe le cose. Quello che fa la differenza è il saper leggere e interpretare i risultati degli studi epidemiologici per quello che possono dire, tenendo conto dei limiti e delle incertezze legate ai problemi di imprecisione e distorsione dei metodi. Perciò non devono essere assunti come assolutamente veri e devono essere confrontati con i risultati di altri studi che utilizzano altri metodi e procedure, come quelli di laboratorio su cellule o cavie, ad esempio. I nostri strumenti epidemiologici hanno molti pregi ma anche difetti; e quindi anche i risultati che vengono dall’epidemiologia sono perlopiù orientativi ma comunque molto importanti per indirizzare comportamenti di vita verso la salute della popolazione. Vedi il caso del fumo di tabacco: l’epidemiologia ci ha spiegato che il fumatore è a maggior rischio di ammalarsi di diverse malattie. Il perché non è ancora del tutto chiaro, ma è sufficiente a promuovere con forza l’opportunità di non fumare o di smettere di fumare. Ciò è sufficiente per migliorare l’attesa di vita di molti. L’epidemiologia ci aiuta anche a capire se il nuovo farmaco A è migliore del vecchio farmaco B, ma l’informazione va in ogni caso poi adattata al mondo reale, con i pazienti e tutta la loro vita insieme a loro, senza rigore assoluto. La scelta deve essere centrata su ogni singola persona. L’epidemiologia è dunque sì un valido strumento, da utilizzare però con intelligenza. Se usata con criteri rigidi può finire per essere anche di ostacolo.

Eva Buiatti come grande epidemiologa e anche come donna che si è fatta strada al di là delle discriminazioni di genere. Ci può raccontare un aneddoto?

Mi è capitato un paio di volte il 7 marzo (il giorno prima dell’8 marzo) di essere presente sul lavoro quando Eva Buiatti riceveva una telefonata dopo l’altra in vista della festa della donna, anche dai giornalisti alla ricerca di dichiarazioni da lei, donna affermata nel lavoro. Lei in realtà era piuttosto irritata o forse direi, annoiata. Rispetto a questi temi Eva Buiatti era "laica", non era condizionata a priori. Considerava le persone – donne e uomini indistintamente – per quello che, secondo lei, valevano. Se brave, si affermano. Così ha scelto sempre i collaboratori, sulla base di capacità professionali e personali, ciascuno per quello che può dare. Lei andava la di là delle formalità o di come si presentavano o qualificavano le persone. Valutava le loro capacità e sapeva identificare le persone giuste per i ruoli giusti – indipendente dal genere. Sapeva valorizzare professionalmente quello che di buono, poco o molto, c’era in ogni persona.

Dulcis in fundo

"Non bisogna mai tirarsi indietro": questa era una sua frase ricorrente che mi ha sempre colpito e che leggo come emblematica del suo forte impegno civile. Non tirarsi mai indietro, tanto nella vita privata che nella società e nel percorso professionale, anche di epidemiologa. La disponibilità. Questa forse la qualità naturale più forte e contagiosa di Eva Buiatti.

 

23 giugno 2010

Il convegno

Ricerca epidemiologica e impegno civile – Il percorso scientifico e professionale di Eva Buiatti

29-30 giugno 2010
Palazzo Vecchio, Firenze

Programma (PDF: 662 Kb)

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