Gli ultimi dati OsMed dicono che ogni italiano ha consumato in media 525 dosi di farmaci nel 2007: cosa pensa di numeri del genere?
Credo che traducano concretamente quello di cui si parla da tempo: la medicalizzazione crescente della popolazione. Infatti, il confronto temporale dei dati OsMed ci dice che le dosi di farmaci in classe A (quelli citati prima corrispondevano a tutti i farmaci, cioè quelli in classe A e in classe C) prescritte per 1000 abitanti sono aumentate del 52% rispetto al 2000. Quelle in classe C sono aumentate di circa il 10% dal 2003. I numeri parlano da soli…
Alla base di questo fenomeno ci sono le campagne d’informazione di massa (anche chiamate di disease awarness), che creano allarmismo più che consapevolezza; le giornate dedicate a incentivare screening a volte insensati che aumentano il ricorso al medico; di prevenzione accanita per fattori di rischio i cui valori soglia sono in continua diminuzione così da accrescere proporzionalmente il numero di soggetti a rischio e quindi di potenziali malati. Un farmaco per ogni disagio (o un disagio per ogni farmaco come risultato del disease mongering).
Le cose possono ulteriormente peggiorare se non si decide di contrastare questa forte influenza. In particolare, se la proposta della Commissione Europea, di autorizzare l’industria farmaceutica a informare i cittadini sui farmaci da prescrizione, sarà approvata dal Parlamento Europeo. L’effetto sul SSN può essere devastante. Ci pensano i politici?
Permangono differenze geografiche importanti nel consumo di medicinali: a Bolzano 670 dosi per 1000 abitanti; qui a Roma oltre 1000. Sarà l’aria di montagna?
Possibile, ma poco probabile. Sarebbe importante confrontare questi dati con altri indicatori sanitari, per vedere quanto i farmaci siano una buona proxy per stimare la salute della popolazione. Il consumo dei farmaci riflette le abitudini dei prescrittori, più che i bisogni della popolazione assistita (le cifre citate nella domanda corrispondono ai farmaci di classe A, rimborsati dal SSN), prescrittori spesso notevolmente influenzati dalla promozione farmaceutica. In certi contesti c’è da parte dei medici un uso più consapevole (e quindi più mirato) dei farmaci.
Questa importante variabilità inter-regionale significa anche che c’è molto spazio per il miglioramento, inteso come necessità di ripensare le modalità in cui gli operatori sanitari si formano, s’informano e si rapportano col SSN. In alcuni casi sembrano esistere comportamenti prescrittivi non virtuosi, diciamo. Si tratterebbe di applicare sanzioni laddove necessario. Per quanto riguarda la popolazione, i cittadini e non solo i pazienti, il problema in fondo non è l’accesso all’informazione, ce n’è anche troppa. Il problema è come acquisire le competenze necessarie per selezionare, comprendere e usare questa informazione in modo da fare le scelte adeguate. L’educazione alla salute, pare non vada più di moda, eppure sarebbero necessari maggiori investimenti da parte del SSN su questo.
Differenze geografiche anche nella informazione indipendente: le riviste italiane della International Society of Drug Bulletins sono tutte al nord e anche la maggioranza dei lettori: che fare?
Difficile a dire. Le riviste (come i batteri) crescono in terreni di coltura adeguati: ci vuole un "dinamizzatore culturale" a mo’ di agente patogeno che crea intorno a sé un gruppo (colonia), si creano sinergie, progetti… e quindi nasce una rivista, un bollettino. Da notare che nessuna delle riviste ISDB fa solo attività editoriale. C’è chi fa attività assistenziale, di ricerca, di formazione e questo dà una maggiore solidità alla pubblicazione (per conoscenza della realtà sulla quale si vuole incidere, per le competenze acquisite e per la sostenibilità che danno le altre attività a quella editoriale).
D’accordo, ma perché non al sud?
Forse è mancato l’habitat adeguato, perché le teste ci sono e pubblicano e collaborano con le riviste del nord. Occorre attivare, allargare di più questa collaborazione. Ad ogni modo, non credo ci sia bisogno di più riviste, né al nord né al sud: continuano a nascere nuove pubblicazioni che dopo alcun tempo scompaiono. I medici ricevono una quantità enorme di riviste che difficilmente possono leggere; il problema è: chi legge? Ho il sospetto che legge chi deve scrivere, formare, informare. I bollettini hanno anche questo ruolo di dinamizzazione culturale, creando non solo lettori quanto potenziali autori.
Tornando ai bollettini ISDB, il problema è la sostenibilità delle riviste e l’impatto. Per migliorare l’una e l’altro ci vorrebbero sinergie, un po’ di economia di scala, concentrare piuttosto che moltiplicare. In altri contesti come in Spagna, dove ci sono più bollettini indipendenti che in nessun altro Paese, i vari bollettini hanno creato una rete comune di valutazione dei nuovi farmaci che permette di ottimizzare le risorse e la qualità. In Germania, i quattro bollettini ISDB hanno creato in cooperazione una buona rivista d’informazione sui farmaci per i cittadini. Chissà se in Italia si riuscirà mai a fare qualcosa del genere.
Programmi di formazione come quello sul rischio cardiovascolare sembrano efficaci nel diffondere una cultura dell’appropriatezza clinica: le riviste possono integrarsi in questi progetti e come?
L’obiettivo di diffondere la cultura dell’appropriatezza clinica è sicuramente comune. Le riviste, oltre all’obiettivo di aggiornamento/informazione, dovrebbero (dovremmo) trovare uno spazio nella divulgazione di tali progetti.
L’editor del BMJ sospetta che occorra conquistare lettori giovani, tra i medici; per farlo, servono direttori (ed editori?) a loro volta più giovani. Lei che ne pensa?
In effetti, occorre conquistare lettori giovani, ma non sono sicura che questo si ottenga con direttori più giovani. Penso ad esempio a Richard Smith, il pregresso editore di BMJ; non era certamente giovane, eppure è stato un direttore brillante e innovativo. Era stato lui a suggerire che le riviste scientifiche, le fonti primarie d’informazione, così come le conosciamo adesso dovrebbero cambiare e, al posto di pubblicare i risultati dei trial, dovrebbero pubblicarne il commento, il critical appraisal. Questo sì, sarebbe innovativo. La stessa esperienza di PloS Medicine, che lui ha contribuito a creare, è molto interessante: un buon giornale gratuito on-line.
Il fatto è che servono buone idee per divulgare le conoscenze e dobbiamo trovare il modo di evolvere per raggiungere non solo lettori più giovani, ma più lettori. Per fare questo dobbiamo coinvolgere gente giovane almeno nella redazione (certo, non è esclusa la direzione).
9 luglio 2008
In primo piano
Nord o sud, giovani o vecchi, il problema è: “chi legge?”
Gli ultimi dati OsMed dicono che ogni italiano ha consumato in media 525 dosi di farmaci nel 2007: cosa pensa di numeri del genere?
Credo che traducano concretamente quello di cui si parla da tempo: la medicalizzazione crescente della popolazione. Infatti, il confronto temporale dei dati OsMed ci dice che le dosi di farmaci in classe A (quelli citati prima corrispondevano a tutti i farmaci, cioè quelli in classe A e in classe C) prescritte per 1000 abitanti sono aumentate del 52% rispetto al 2000. Quelle in classe C sono aumentate di circa il 10% dal 2003. I numeri parlano da soli…
Alla base di questo fenomeno ci sono le campagne d’informazione di massa (anche chiamate di disease awarness), che creano allarmismo più che consapevolezza; le giornate dedicate a incentivare screening a volte insensati che aumentano il ricorso al medico; di prevenzione accanita per fattori di rischio i cui valori soglia sono in continua diminuzione così da accrescere proporzionalmente il numero di soggetti a rischio e quindi di potenziali malati. Un farmaco per ogni disagio (o un disagio per ogni farmaco come risultato del disease mongering).
Le cose possono ulteriormente peggiorare se non si decide di contrastare questa forte influenza. In particolare, se la proposta della Commissione Europea, di autorizzare l’industria farmaceutica a informare i cittadini sui farmaci da prescrizione, sarà approvata dal Parlamento Europeo. L’effetto sul SSN può essere devastante. Ci pensano i politici?
Samuel Beckett Gallery
© Michela Castiglione
Permangono differenze geografiche importanti nel consumo di medicinali: a Bolzano 670 dosi per 1000 abitanti; qui a Roma oltre 1000. Sarà l’aria di montagna?
Possibile, ma poco probabile. Sarebbe importante confrontare questi dati con altri indicatori sanitari, per vedere quanto i farmaci siano una buona proxy per stimare la salute della popolazione. Il consumo dei farmaci riflette le abitudini dei prescrittori, più che i bisogni della popolazione assistita (le cifre citate nella domanda corrispondono ai farmaci di classe A, rimborsati dal SSN), prescrittori spesso notevolmente influenzati dalla promozione farmaceutica. In certi contesti c’è da parte dei medici un uso più consapevole (e quindi più mirato) dei farmaci.
Questa importante variabilità inter-regionale significa anche che c’è molto spazio per il miglioramento, inteso come necessità di ripensare le modalità in cui gli operatori sanitari si formano, s’informano e si rapportano col SSN. In alcuni casi sembrano esistere comportamenti prescrittivi non virtuosi, diciamo. Si tratterebbe di applicare sanzioni laddove necessario. Per quanto riguarda la popolazione, i cittadini e non solo i pazienti, il problema in fondo non è l’accesso all’informazione, ce n’è anche troppa. Il problema è come acquisire le competenze necessarie per selezionare, comprendere e usare questa informazione in modo da fare le scelte adeguate. L’educazione alla salute, pare non vada più di moda, eppure sarebbero necessari maggiori investimenti da parte del SSN su questo.
Differenze geografiche anche nella informazione indipendente: le riviste italiane della International Society of Drug Bulletins sono tutte al nord e anche la maggioranza dei lettori: che fare?
Difficile a dire. Le riviste (come i batteri) crescono in terreni di coltura adeguati: ci vuole un "dinamizzatore culturale" a mo’ di agente patogeno che crea intorno a sé un gruppo (colonia), si creano sinergie, progetti… e quindi nasce una rivista, un bollettino. Da notare che nessuna delle riviste ISDB fa solo attività editoriale. C’è chi fa attività assistenziale, di ricerca, di formazione e questo dà una maggiore solidità alla pubblicazione (per conoscenza della realtà sulla quale si vuole incidere, per le competenze acquisite e per la sostenibilità che danno le altre attività a quella editoriale).
D’accordo, ma perché non al sud?
Forse è mancato l’habitat adeguato, perché le teste ci sono e pubblicano e collaborano con le riviste del nord. Occorre attivare, allargare di più questa collaborazione. Ad ogni modo, non credo ci sia bisogno di più riviste, né al nord né al sud: continuano a nascere nuove pubblicazioni che dopo alcun tempo scompaiono. I medici ricevono una quantità enorme di riviste che difficilmente possono leggere; il problema è: chi legge? Ho il sospetto che legge chi deve scrivere, formare, informare. I bollettini hanno anche questo ruolo di dinamizzazione culturale, creando non solo lettori quanto potenziali autori.
Tornando ai bollettini ISDB, il problema è la sostenibilità delle riviste e l’impatto. Per migliorare l’una e l’altro ci vorrebbero sinergie, un po’ di economia di scala, concentrare piuttosto che moltiplicare. In altri contesti come in Spagna, dove ci sono più bollettini indipendenti che in nessun altro Paese, i vari bollettini hanno creato una rete comune di valutazione dei nuovi farmaci che permette di ottimizzare le risorse e la qualità. In Germania, i quattro bollettini ISDB hanno creato in cooperazione una buona rivista d’informazione sui farmaci per i cittadini. Chissà se in Italia si riuscirà mai a fare qualcosa del genere.
Programmi di formazione come quello sul rischio cardiovascolare sembrano efficaci nel diffondere una cultura dell’appropriatezza clinica: le riviste possono integrarsi in questi progetti e come?
L’obiettivo di diffondere la cultura dell’appropriatezza clinica è sicuramente comune. Le riviste, oltre all’obiettivo di aggiornamento/informazione, dovrebbero (dovremmo) trovare uno spazio nella divulgazione di tali progetti.
L’editor del BMJ sospetta che occorra conquistare lettori giovani, tra i medici; per farlo, servono direttori (ed editori?) a loro volta più giovani. Lei che ne pensa?
In effetti, occorre conquistare lettori giovani, ma non sono sicura che questo si ottenga con direttori più giovani. Penso ad esempio a Richard Smith, il pregresso editore di BMJ; non era certamente giovane, eppure è stato un direttore brillante e innovativo. Era stato lui a suggerire che le riviste scientifiche, le fonti primarie d’informazione, così come le conosciamo adesso dovrebbero cambiare e, al posto di pubblicare i risultati dei trial, dovrebbero pubblicarne il commento, il critical appraisal. Questo sì, sarebbe innovativo. La stessa esperienza di PloS Medicine, che lui ha contribuito a creare, è molto interessante: un buon giornale gratuito on-line.
Il fatto è che servono buone idee per divulgare le conoscenze e dobbiamo trovare il modo di evolvere per raggiungere non solo lettori più giovani, ma più lettori. Per fare questo dobbiamo coinvolgere gente giovane almeno nella redazione (certo, non è esclusa la direzione).
Indipendente, a chi? Di Luca De Fiore, direttore generale del Pensiero Scientifico Editore. Pubblicato su Va’ Pensiero n° 347
Il carpaccio di polpo nella borsa del medico. A confronto Antonio Addis, direttore dell’Ufficio Informazione sui farmaci dell’Agenzia Italiana del Farmaco, e Luca De Fiore, direttore generale del Pensiero Scientifico Editore. Pubblicato su Va’ Pensiero n° 348