Maurizio Mauri, Commissario straordinario dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro.
Le iniziative di prevenzione messe in atto dal Ministero della Salute non rischiano di “medicalizzare” troppo le piazze d’Italia?
In realtà, quando si parla di prevenzione primaria si fa riferimento ad azioni di sensibilizzazione che dovrebbero intervenire sulle cause, quindi fumo, radiazioni, inquinamento, alimentazione incongrua; tutte situazioni che non hanno molto a che vedere con la medicalizzazione, ma riguardano i buoni concetti di stili di vita salutari, attività fisica, dissuasione dal fumo e dall’alcol, ambiente pulito, etc. Diverso invece il discorso relativo alla prevenzione secondaria necessaria per fare una diagnostica precoce e mettersi nella condizione di erogare cure migliori. Tuttavia, se lo stile di vita non cambia, poco importa riuscire a diagnosticare precocemente una malattia.
Anche nelle piazze, quindi?
Tutte le iniziative intraprese per la prevenzione primaria vanno benissimo e bisogna adoprarsi per metterne in atto di altre. Si tratta di concetti che hanno una profonda importanza, e questo non solo per quanto riguarda le malattie indotte dall’ambiente o legate allo stile di vita condotto, ma anche per gli infortuni sul lavoro o la sicurezza negli ambienti domestici, quindi ben venga la sensibilizzazione alla prevenzione nelle case, sugli impianti di lavoro, sulle strade. Tutta la prevenzione primaria e nei confronti dei rischi che derivano da stili di vita non corretti, è necessaria ed è necessario portarla anche nelle piazze.
In che modo potrebbero essere utilizzati il Web e le tecnologie informatiche per sensibilizzare correttamente la popolazione verso questi temi?
Tutte le tecnologie d’informazione e tutti i media possono essere utilizzati per innescare meccanismi di convinzione su quali siano gli stili di vita corretti: non salutistici ma di prevenzione verso danni inutili. Questo cercando di fare una distinzione tra quali sono i rischi individuali e quali invece le scelte personali che interferiscono anche con la salute altrui e, a distinzione fatta, tenendo presente che alcune scelte personali incidono anche sui costi della collettività che dovrà poi erogare le cure.
Nel progetto con il professor Umberto Veronesi e l’architetto Renzo Piano è l’ospedale a diventare lo snodo da riorganizzare nel sistema di assistenza. Da cosa nasce la scelta di questo punto di partenza?
Dal fatto che, in questo momento in Italia, l’ospedale è la struttura più complessa, più fuori posto e più costosa che ci sia. Esso assorbe quasi il 50 percento delle risorse destinate alla sanità e questo è profondamente sbagliato. Ed è fondamentale capire che è necessario spostare le risorse dall’ospedale al territorio, e che è impossibile fare una giusta riduzione delle risorse da assegnare all’ospedale e contemporaneamente un ampliamento delle risorse da destinare al territorio se non si mettono in comunicazione le diverse strutture della salute.
Una rete di assistenza quindi?
Si, una collaborazione tra le strutture sul territorio e quelle in ricovero, in modo che operino in sinergia tra loro e a favore del cittadino sia singolo sia riunito nella collettività. L’ospedale non può vivere se non è inserito in una rete di servizi, come nodo importante di questa, e se non c’è un coinvolgimento di tutti gli operatori, perché altrimenti è condannato ad assorbire sempre più risorse e a volgersi verso la non appropriatezza. L’ospedale dovrebbe servire per erogare servizi complessi e integrati, dove non basta un solo medico e un letto, ma serve un’organizzazione. Altrimenti si rischia di impegnare una grande organizzazione per fare cose semplici. Sarebbe come usare un camion per trasportare una nocciolina: si ottengono risultati banali a costi inaccettabili.
Tra quali nodi si articola queste rete?
Il sistema di assistenza può essere idealizzato e schematizzato in modo semplice, evidenziando i suoi nodi fondamentali. Uno è il medico di medicina generale che deve essere più medico e meno burocrate; meno smistatore per avere più strumenti, lavorare meglio ed essere messo nelle condizioni di fare diagnosi, terapie ed assistenza.
Il secondo nodo sono i centri di diagnosi che devono essere vicini ai cittadini e aiutare il medico di medicina generale nel formulare una diagnosi, favorendo l’eventuale passaggio in ospedale con una diagnosi già orientata. Devono essere strutture dove si fa laboratorio di analisi, radiologia, endoscopie o qualche piccola terapia, e devono essere il più vicino possibile al territorio.
Il terzo grande nodo della rete è l’ospedale ad alta tecnologia e ad alta assistenza dove trattare i casi acuti. Il quarto che io chiamo centro polifunzionale, deve riunire tutto ciò non è l’ospedale per acuti, cioè deve essere un luogo per la lungo degenza, la riabilitazione, l’assistenza sociosanitaria, la permanenza diurna delle persone, in grado di ospitare anche l’area del disagio (disturbi sociali, droga, etc.).
Quattro pilastri che devono comunicare tra loro in modo efficace, con trasparenza e collaborazione in quanto parti di un unico sistema.
In una struttura così complessa, funzionante e flessibile, Internet potrebbe essere un potente mezzo per lo scambio efficace di informazioni; e le innovazioni tecnologiche uno strumento fondamentale per il funzionamento del tutto?
Si tratta, infatti, dell’elemento che consente l’organizzazione. L’uso delle moderne tecnologie permette la realizzazione di un disegno costruito intorno al malato e per il malato. Se utilizzate per favorire la collaborazione in assoluta trasparenza dei medici di medicina generale con i centri di diagnosi, con l’ospedale per acuti e il centro polifunzionale, favorirebbero la creazione di un sistema innovativo: una rivoluzione copernicana il cui centro non è più la struttura né medici ma il malato.
In un percorso gerarchico oppure orizzontale e organizzato per processi?
Solo se si realizza un percorso orizzontale, incentrato su un processo, è possibile che il sistema ruoti intorno alle necessità del malato.
Infatti, se il malato ha la necessità soltanto di essere curato a casa, perché ha, ad esempio, una polmonite, l’importante è curarlo bene, non ricoverarlo. Se invece la situazione è più complessa, il medico entrerà in contatto con l’ospedale, ma senza lavarsene le mani, delegando ad un’altra struttura. Il medico di medicina generale deve avere contatti con l’ospedaliero e i rapporti con i centri di diagnosi vanno gestiti insieme. Tornando all’esempio della polmonite, dopo la cura il paziente dovrà essere riabilitato, ma non ha senso che questo avvenga nell’ospedale per acuti, deve essere indirizzato, invece, verso una struttura funzionante dedicata alla riabilitazione per un certo periodo del giorno, in modo che possa ricevere la riabilitazione respiratoria, le inalazioni e quant’altro di cui ha bisogno. Con questo si intende percorso orizzontale organizzato per processi all’interno del quale avviene la diagnosi, la terapia e la riabilitazione della situazione morbosa di quell’ammalato.
L’ospedale non è al centro, ma è proprio da lì che sì parte…
La scelta dell’ospedale avviene perché da qualche parte si deve partire, e l’ospedale è un punto difficile che assorbe una grande parte delle forze e dove i finanziamenti sono mal gestiti. In realtà la cosa complessa è creare la rete. Una delle iniziative più interessanti, in questa direzione, è nata proprio nella “commissione Piano” ed è stata quella di stabilire alcuni dei punti che devono ispirare la procedura di realizzazione di un ospedale: principi dai cui trarre linee-guida operative per progettare, realizzare, condurre e gestire l’ospedale in modo da poter raggiungere con coerenza degli obiettivi.
Affinché l’utopia cominci ad acquisire una consistenza reale?
Sì, perché in questo modo l’ospedale può diventare un luogo di alta integrazione di macchinari, metodologie, discipline e specialità diverse: non più solo il medico, ma anche l’infermiere, il gestore dei processi, l’analista, l’economista. Si tratta di strutture che assorbono risorse molto grandi e non è possibile sprecarle, quindi, solo stabilendo dei principi, delle finalità, delle linee-guida per realizzarlo e per gestirlo, controllando che ciò che viene fatto sia funzionale ed economicamente sostenibile, l’ospedale può diventare uno degli strumenti dell’assistenza.
L’ospedale come punto di riferimento per il cittadino, quindi. Ma come deve essere fatto?
Storicamente l’ospedale era un luogo ospitale, come dice la parola stessa, nato lungo il percorso dei pellegrini che andavano in terra santa o dei crociati. In realtà già i romani avevano i templi e le infermerie che seguivano le legioni: un primo ospedale chirurgico che gestiva traumi, ferite, etc.
Fino alla fine dell’ottocento potremmo dire che gli ospedali erano luoghi in cui si dava ospitalità, dove era possibile trovare umanità e trascendenza. Il cortile dell’Ospedale Maggiore di Milano di Filarete, ad esempio, ha una croce e nel mezzo della croce un altare: glorificazione del trascendente e assenza delle tecnologie. Successivamente è cambiato il trend con l’introduzione dell’approccio alle malattie infettive, l’uso dell’anestesia che ha consentito l’intervento chirurgico, e con un progredire sfrenato dell’uso delle tecnologie che ha portato fino ai giorni nostri ad un crescendo dell’enfasi nei confronti della macchina, lasciando da parte l’uomo.
Con un paziente oggetto e non soggetto della scienza medica…
Si, infatti, oggi la sfida rivoluzionaria che spetta all’ospedale è di trovare l’equilibrio tra la macchina che deve fare diagnosi e terapia secondo sistemi sofisticati ma molto disumanizzanti, e una struttura che sia accogliente, a misura d’uomo e in cui tutto sia centrato a soddisfare le esigenze di quella persona particolare in quel momento; un’organizzazione che riesca a conciliare l’aspetto di umanizzazione e centralità del malato con l’aspetto pauroso della macchina. Se si riesce ad organizzare un sistema che lavori per processi (sulle necessità del malato) e non per funzioni (quindi, sulle necessità degli operatori) in un sistema funzionante, sarà possibile creare delle strutture standard che funzionino per più persone, riuscendo ad adattare al singolo tutte le funzioni che erogano.
I luoghi della città diventano parte integrante dell’architettura dell’ospedale: cosa s’intende con ospedale aperto?
Ospedale aperto perché deve essere un servizio per i cittadini e non un ghetto. Una persona che è all’interno deve essere libera di ricevere persone; il parco deve essere un luogo ospitale per tutti, parte integrante delle strutture delle città; un evento culturale può benissimo avvenire nell’auditorium dell’ospedale; gli eventi di educazione sanitaria stessi possono essere realizzati nell’ospedale.
L’ospedale diventa, in quanto parte integrante della città, un punto di riferimento per il cittadino.
Principi, obiettivi e linee-guida, ma esistono esempi che si fondano su questi elementi?
L’Istituto Clinico Humanitas di Milano, è stato in qualche modo il primo germe di quest’idea. Poi c’è la struttura specialistica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Veronesi. Da queste due esperienze positive, mia e di Veronesi, è nato l’intero progetto teorico. Gli stessi concetti si stanno già applicando in altre strutture in costruzione. Il nuovo ospedale di Udine ne è un esempio; l’ospedale unico di Gubbio-Gualdo Tadino sarà tra i primi in Italia a derivare dal modello ad alto contenuto tecnologico ed assistenziale elaborato dalla “commissione Piano”; i quattro ospedali della Toscana sono basati sulle linee-guida messe a punto insieme all’Agenzia dei Servizi Sanitari Regionali e al Ministero della Salute; il nuovo progetto dell’Ospedale Niguarda di Milano verrà fuori sulla base di queste linee-guida che tutta la Lombardia ha già adottato.
Quanto e quando la realtà si approssimerà al progetto teorico?
Spero molto presto e comunque il meglio è nemico del bene. Se si punta a cento e poi si raggiunge trenta, ci si può accontentare? Sì, è meglio di zero anche se meno di cento.
31 marzo 2004
In primo piano
Ospedale in rete e cittadino al centro
Maurizio Mauri, Commissario straordinario dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro.
Le iniziative di prevenzione messe in atto dal Ministero della Salute non rischiano di “medicalizzare” troppo le piazze d’Italia?
In realtà, quando si parla di prevenzione primaria si fa riferimento ad azioni di sensibilizzazione che dovrebbero intervenire sulle cause, quindi fumo, radiazioni, inquinamento, alimentazione incongrua; tutte situazioni che non hanno molto a che vedere con la medicalizzazione, ma riguardano i buoni concetti di stili di vita salutari, attività fisica, dissuasione dal fumo e dall’alcol, ambiente pulito, etc. Diverso invece il discorso relativo alla prevenzione secondaria necessaria per fare una diagnostica precoce e mettersi nella condizione di erogare cure migliori. Tuttavia, se lo stile di vita non cambia, poco importa riuscire a diagnosticare precocemente una malattia.
Anche nelle piazze, quindi?
Tutte le iniziative intraprese per la prevenzione primaria vanno benissimo e bisogna adoprarsi per metterne in atto di altre. Si tratta di concetti che hanno una profonda importanza, e questo non solo per quanto riguarda le malattie indotte dall’ambiente o legate allo stile di vita condotto, ma anche per gli infortuni sul lavoro o la sicurezza negli ambienti domestici, quindi ben venga la sensibilizzazione alla prevenzione nelle case, sugli impianti di lavoro, sulle strade. Tutta la prevenzione primaria e nei confronti dei rischi che derivano da stili di vita non corretti, è necessaria ed è necessario portarla anche nelle piazze.
In che modo potrebbero essere utilizzati il Web e le tecnologie informatiche per sensibilizzare correttamente la popolazione verso questi temi?
Tutte le tecnologie d’informazione e tutti i media possono essere utilizzati per innescare meccanismi di convinzione su quali siano gli stili di vita corretti: non salutistici ma di prevenzione verso danni inutili. Questo cercando di fare una distinzione tra quali sono i rischi individuali e quali invece le scelte personali che interferiscono anche con la salute altrui e, a distinzione fatta, tenendo presente che alcune scelte personali incidono anche sui costi della collettività che dovrà poi erogare le cure.
Nel progetto con il professor Umberto Veronesi e l’architetto Renzo Piano è l’ospedale a diventare lo snodo da riorganizzare nel sistema di assistenza. Da cosa nasce la scelta di questo punto di partenza?
Dal fatto che, in questo momento in Italia, l’ospedale è la struttura più complessa, più fuori posto e più costosa che ci sia. Esso assorbe quasi il 50 percento delle risorse destinate alla sanità e questo è profondamente sbagliato. Ed è fondamentale capire che è necessario spostare le risorse dall’ospedale al territorio, e che è impossibile fare una giusta riduzione delle risorse da assegnare all’ospedale e contemporaneamente un ampliamento delle risorse da destinare al territorio se non si mettono in comunicazione le diverse strutture della salute.
Una rete di assistenza quindi?
Si, una collaborazione tra le strutture sul territorio e quelle in ricovero, in modo che operino in sinergia tra loro e a favore del cittadino sia singolo sia riunito nella collettività. L’ospedale non può vivere se non è inserito in una rete di servizi, come nodo importante di questa, e se non c’è un coinvolgimento di tutti gli operatori, perché altrimenti è condannato ad assorbire sempre più risorse e a volgersi verso la non appropriatezza. L’ospedale dovrebbe servire per erogare servizi complessi e integrati, dove non basta un solo medico e un letto, ma serve un’organizzazione. Altrimenti si rischia di impegnare una grande organizzazione per fare cose semplici. Sarebbe come usare un camion per trasportare una nocciolina: si ottengono risultati banali a costi inaccettabili.
Tra quali nodi si articola queste rete?
Il sistema di assistenza può essere idealizzato e schematizzato in modo semplice, evidenziando i suoi nodi fondamentali. Uno è il medico di medicina generale che deve essere più medico e meno burocrate; meno smistatore per avere più strumenti, lavorare meglio ed essere messo nelle condizioni di fare diagnosi, terapie ed assistenza.
Il secondo nodo sono i centri di diagnosi che devono essere vicini ai cittadini e aiutare il medico di medicina generale nel formulare una diagnosi, favorendo l’eventuale passaggio in ospedale con una diagnosi già orientata. Devono essere strutture dove si fa laboratorio di analisi, radiologia, endoscopie o qualche piccola terapia, e devono essere il più vicino possibile al territorio.
Il terzo grande nodo della rete è l’ospedale ad alta tecnologia e ad alta assistenza dove trattare i casi acuti. Il quarto che io chiamo centro polifunzionale, deve riunire tutto ciò non è l’ospedale per acuti, cioè deve essere un luogo per la lungo degenza, la riabilitazione, l’assistenza sociosanitaria, la permanenza diurna delle persone, in grado di ospitare anche l’area del disagio (disturbi sociali, droga, etc.).
Quattro pilastri che devono comunicare tra loro in modo efficace, con trasparenza e collaborazione in quanto parti di un unico sistema.
In una struttura così complessa, funzionante e flessibile, Internet potrebbe essere un potente mezzo per lo scambio efficace di informazioni; e le innovazioni tecnologiche uno strumento fondamentale per il funzionamento del tutto?
Si tratta, infatti, dell’elemento che consente l’organizzazione. L’uso delle moderne tecnologie permette la realizzazione di un disegno costruito intorno al malato e per il malato. Se utilizzate per favorire la collaborazione in assoluta trasparenza dei medici di medicina generale con i centri di diagnosi, con l’ospedale per acuti e il centro polifunzionale, favorirebbero la creazione di un sistema innovativo: una rivoluzione copernicana il cui centro non è più la struttura né medici ma il malato.
In un percorso gerarchico oppure orizzontale e organizzato per processi?
Solo se si realizza un percorso orizzontale, incentrato su un processo, è possibile che il sistema ruoti intorno alle necessità del malato.
Infatti, se il malato ha la necessità soltanto di essere curato a casa, perché ha, ad esempio, una polmonite, l’importante è curarlo bene, non ricoverarlo. Se invece la situazione è più complessa, il medico entrerà in contatto con l’ospedale, ma senza lavarsene le mani, delegando ad un’altra struttura. Il medico di medicina generale deve avere contatti con l’ospedaliero e i rapporti con i centri di diagnosi vanno gestiti insieme. Tornando all’esempio della polmonite, dopo la cura il paziente dovrà essere riabilitato, ma non ha senso che questo avvenga nell’ospedale per acuti, deve essere indirizzato, invece, verso una struttura funzionante dedicata alla riabilitazione per un certo periodo del giorno, in modo che possa ricevere la riabilitazione respiratoria, le inalazioni e quant’altro di cui ha bisogno. Con questo si intende percorso orizzontale organizzato per processi all’interno del quale avviene la diagnosi, la terapia e la riabilitazione della situazione morbosa di quell’ammalato.
L’ospedale non è al centro, ma è proprio da lì che sì parte…
La scelta dell’ospedale avviene perché da qualche parte si deve partire, e l’ospedale è un punto difficile che assorbe una grande parte delle forze e dove i finanziamenti sono mal gestiti. In realtà la cosa complessa è creare la rete. Una delle iniziative più interessanti, in questa direzione, è nata proprio nella “commissione Piano” ed è stata quella di stabilire alcuni dei punti che devono ispirare la procedura di realizzazione di un ospedale: principi dai cui trarre linee-guida operative per progettare, realizzare, condurre e gestire l’ospedale in modo da poter raggiungere con coerenza degli obiettivi.
Affinché l’utopia cominci ad acquisire una consistenza reale?
Sì, perché in questo modo l’ospedale può diventare un luogo di alta integrazione di macchinari, metodologie, discipline e specialità diverse: non più solo il medico, ma anche l’infermiere, il gestore dei processi, l’analista, l’economista. Si tratta di strutture che assorbono risorse molto grandi e non è possibile sprecarle, quindi, solo stabilendo dei principi, delle finalità, delle linee-guida per realizzarlo e per gestirlo, controllando che ciò che viene fatto sia funzionale ed economicamente sostenibile, l’ospedale può diventare uno degli strumenti dell’assistenza.
L’ospedale come punto di riferimento per il cittadino, quindi. Ma come deve essere fatto?
Storicamente l’ospedale era un luogo ospitale, come dice la parola stessa, nato lungo il percorso dei pellegrini che andavano in terra santa o dei crociati. In realtà già i romani avevano i templi e le infermerie che seguivano le legioni: un primo ospedale chirurgico che gestiva traumi, ferite, etc.
Fino alla fine dell’ottocento potremmo dire che gli ospedali erano luoghi in cui si dava ospitalità, dove era possibile trovare umanità e trascendenza. Il cortile dell’Ospedale Maggiore di Milano di Filarete, ad esempio, ha una croce e nel mezzo della croce un altare: glorificazione del trascendente e assenza delle tecnologie. Successivamente è cambiato il trend con l’introduzione dell’approccio alle malattie infettive, l’uso dell’anestesia che ha consentito l’intervento chirurgico, e con un progredire sfrenato dell’uso delle tecnologie che ha portato fino ai giorni nostri ad un crescendo dell’enfasi nei confronti della macchina, lasciando da parte l’uomo.
Con un paziente oggetto e non soggetto della scienza medica…
Si, infatti, oggi la sfida rivoluzionaria che spetta all’ospedale è di trovare l’equilibrio tra la macchina che deve fare diagnosi e terapia secondo sistemi sofisticati ma molto disumanizzanti, e una struttura che sia accogliente, a misura d’uomo e in cui tutto sia centrato a soddisfare le esigenze di quella persona particolare in quel momento; un’organizzazione che riesca a conciliare l’aspetto di umanizzazione e centralità del malato con l’aspetto pauroso della macchina. Se si riesce ad organizzare un sistema che lavori per processi (sulle necessità del malato) e non per funzioni (quindi, sulle necessità degli operatori) in un sistema funzionante, sarà possibile creare delle strutture standard che funzionino per più persone, riuscendo ad adattare al singolo tutte le funzioni che erogano.
I luoghi della città diventano parte integrante dell’architettura dell’ospedale: cosa s’intende con ospedale aperto?
Ospedale aperto perché deve essere un servizio per i cittadini e non un ghetto. Una persona che è all’interno deve essere libera di ricevere persone; il parco deve essere un luogo ospitale per tutti, parte integrante delle strutture delle città; un evento culturale può benissimo avvenire nell’auditorium dell’ospedale; gli eventi di educazione sanitaria stessi possono essere realizzati nell’ospedale.
L’ospedale diventa, in quanto parte integrante della città, un punto di riferimento per il cittadino.
Principi, obiettivi e linee-guida, ma esistono esempi che si fondano su questi elementi?
L’Istituto Clinico Humanitas di Milano, è stato in qualche modo il primo germe di quest’idea. Poi c’è la struttura specialistica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Veronesi. Da queste due esperienze positive, mia e di Veronesi, è nato l’intero progetto teorico. Gli stessi concetti si stanno già applicando in altre strutture in costruzione. Il nuovo ospedale di Udine ne è un esempio; l’ospedale unico di Gubbio-Gualdo Tadino sarà tra i primi in Italia a derivare dal modello ad alto contenuto tecnologico ed assistenziale elaborato dalla “commissione Piano”; i quattro ospedali della Toscana sono basati sulle linee-guida messe a punto insieme all’Agenzia dei Servizi Sanitari Regionali e al Ministero della Salute; il nuovo progetto dell’Ospedale Niguarda di Milano verrà fuori sulla base di queste linee-guida che tutta la Lombardia ha già adottato.
Quanto e quando la realtà si approssimerà al progetto teorico?
Spero molto presto e comunque il meglio è nemico del bene. Se si punta a cento e poi si raggiunge trenta, ci si può accontentare? Sì, è meglio di zero anche se meno di cento.
31 marzo 2004