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Paziente o assistito?

Il termine “paziente” non esisterà più. Al suo posto leggeremo “persona assistita” nel codice deontologico dei medici. Una proposta di cambiamento che sollevato un ampio dibattito.

Paolo Misericordia

La sostituzione del termine “paziente” con il termine “persona assistita”, nel codice deontologico della nostra professione, ha sollevato un acceso dibattito nella comunità medica e non solo. La proposta di questo cambiamento è probabilmente riconducibile alle crescenti prerogative di corresponsabilizzazione del paziente nel processo di diagnosi e cura. Il paziente di oggi è sempre più informato e dotato di potere contrattuale nella relazione sempre meno asimmetrica con il proprio medico. Rispetto al paziente di ieri ha un ruolo più attivo e spesso competente. Con tali premesse il principio di completo affidamento alla cura che emerge dal termine “paziente”, per come è stato interpretato in passato, appare nella realtà sostanzialmente superato; il termine “persona assistita” cerca in questo modo di rappresentare un rapporto contrattuale con un malato che è sempre più partecipe e critico rispetto alle decisioni che vengono prese per la sua salute e per la sua cura.

Non va sottovalutato che si tratterebbe di un cambiamento “semantico” comunque rilevante; basta pensare a quanto questa variazione impatterebbe negativamente nella comunicazione a livello internazionale, dove viene regolarmente utilizzato, per individuare colui che richiede un intervento medico, il termine “patient”.

Probabilmente sarebbe stato opportuno anticipare questa innovazione nella terminologia con una campagna comunicativa preliminare che affrontasse i meriti concettuali, evitando il verificarsi di interpretazioni forse anche eccessivamente polemiche.

Sono certo che l’appassionato dibattito sull’argomento e le osservazioni che sono state fatte saranno tenute in considerazione nella fase di revisione e rimodulazione della bozza prima della sua definitiva approvazione.

Marco Geddes da Filicaia

Negli ultimi giorni di agosto siamo stati informati che, dopo un ampio dibattito (ve ne eravate accorti?) la parola “paziente” è stata cancellata.

Si tratterebbe di un cambiamento importante, assicura il presidente della Fnomceo e senatore del Pd Amedeo Bianco, per “…trasmettere il significato immediato di chi ha diritto a ricevere cure e assistenza senza passività… C’è stato un ampio dibattito, non va considerato un esercizio accademico”. La nuova espressione è prevista nella bozza di codice deontologico, che dovrebbe essere approvato definitivamente entro autunno. Il segretario generale della Cimo afferma che il termine paziente non gli è mai piaciuto e che “…la nuova definizione mi richiama alla nostra funzione e al rapporto con il malato” e, aggiunge Roberto Lala, presidente dell’Ordine dei medici di Roma e provincia – il più grande d’Europa, chiosa l’articolo del Corriere della Sera– (a conferma – aggiungiamo noi – della distorsione quantitativa e distributiva dei medici nel nostro paese!) “…ne approfitto per lanciare una proposta a chi fa le leggi. Perché non ritornare all’antico termine di primario?” (1).

Quest’insieme di esternazioni di ferragosto mi ha lasciato francamente perplesso, ma non indifferente, per la rilevanza che attribuisco all’uso delle parole in sanità e per una certa superficialità che, mi pare, avvertire da quanto viene riportato. Proverò a sintetizzare queste perplessità.

  1. Colgo una certa voglia di normare il linguaggio. Ora, da fiorentino, posso assicurare che perfino l’Accademia della Crusca, vi ha rinunciato. Non tutte le parole sono, ovviamente, correte e gli strafalcioni restano tali e da segnare con matita rossa o blu! Ma i termini, il loro uso, l’appropriatezza nei diversi contesti, vanno discussi, suggeriti, argomentati, insegnati eventualmente, ma non normati. Un tempo ciò è stato fatto nel tentativo di espurgare la lingua italiana da francesismi (“ristoratore” al posto di “ristorante”) e anglismi (“torpedone” e non “bus”), per motivi di virile appartenenza al ceppo italico; ovviamente non è questa l’attuale motivazione, ma il riferimento evidenzia la scarsa efficacia del normare la lingua con leggi e regolamenti!
  2. Discutere della terminologia da utilizzare è utile ed educativo, se la discussione è ampia. L’ampiezza non è determinata dal numero dei presidenti degli ordini dei medici che vi partecipa, persone che sono la espressione di equilibri professionali e sindacali nelle varie provincie italiane, ma se vi è un pubblico dibattito fra operatori sanitari, linguisti, cittadini e… pazienti.
  3. Venendo alla sostanza, cioè alla espressione proposta: “persona assistita” e, conseguentemente “assistito” (poiché appare ovvio che – non essendo veterinari – si assistono persone), mi sembra una scelta assai retrò! Il termine si associa alla beneficienza, e infatti Crispi, alla fine dell’ottocento, aveva istituito le IPAB (Istituti pubblici di assistenza e beneficienza); con il primo termine si indicava l’attività espletata con opere – appunto – assistenziali; e con il secondo (beneficienza) attraverso la erogazione di contributi economici.
    Andando invece alla metà degli anni cinquanta, in un ambulatorio medico della Maremma fa ancora bella mostra un cartello smaltato con scritto: AMBULATORIO MEDICO – CONDOTTO: SI VISITANO ANCHE GLI ASSISTITI DELLA MUTUA. Con ciò si intendeva che quel medico aveva avuto l’autorizzazione a visitare gli assistiti della mutua, che poi gli pagava la prestazione (o veniva pagato direttamente dal paziente che poi veniva rimborsato) oltre agli assistiti dal Comune, iscritti all’elenco dei poveri tramite l’ECA “Ente Comunale Assistenza” che visitava gratuitamente essendo appunto un condotto.
  4. Giuseppe Remuzzi ricorda come “…patienens – dal latino patire, pati – è appunto chi soffre, ma anche chi sopporta; difficile trovare di meglio a indicare che è malato e l’ammalato nella letteratura medica è patient da sempre” (2).
    Eliminando tale termine si perde inoltre ogni parallelismo con le varie lingue europee. In inglese paziente è patient, da cui i vari usi in out patient, patient oriented etc. Assistito è invece benefit recipient o welfare recipient o anche aided o nursed e, infine, client, ma solo nell’ambito dell’assistenza legale.
    Analogie nella lingua francese che usa assisté e service d’aide, mentre per paziente il termine è patient, come in inglese, pronunciato con accento assai diverso; anche in tedesco si trova il maschile patient e il femminile patientin; infine esplicito lo spagnolo che distingue i pazienti (los pacientes) dagli assistiti ( los beneficiarios).
  5. Meraviglia infine che proprio i medici cerchino di accantonare un termine che indica una loro specificità. Si è pazienti del dottor Rossi, non dell’infermiere Bianchi o dell’assicurazione Europ Assistance, da cui siamo appunto assistiti. Siamo pazienti del o di, con una preposizione che non ha valenza possessiva (la bicicletta di Mario), ma relazionale –affettiva (il figlio di Luigi, la patria di Dante). Siamo quindi assistiti da una assicurazione, dalla protezione civile (se terremotati), dalla Caritas (se senza fissa dimora), ma siamo pazienti perché andiamo da un medico avendo una sofferenza (reale, potenziale, temuta, da prevenire… ) e cerchiamo ancora oggi una diagnosi, una terapia, una prognosi.

Bibliografia

  1. Margherita De Bac. La parola paziente cancellata dai medici. È “persona assistita”. Corriere della Sera, 21.08.2013.
  2. Giuseppe Remuzzi. Sono dei Pazienti o degli Assistiti? Chiamiamoli semplicemente Malati. Corriere della Sera, 21.08.2013

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