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Perché rischiare con una Medicina onnipotente?

Da preoccupazione collettiva, il rischio è diventato oggi un fatto individuale. Secondo il Censis come è cambiato il modo di comunicare il rischio ai cittadini?

Una maggiore individualizzazione della concezione della salute è documentata anche dalle indagini del Censis sulla domanda di salute che negli anni hanno monitorato l’evoluzione delle opinioni dei cittadini sulla salute, il sistema sanitario, il rapporto con i servizi ed il personale. La prima indagine, che risale alla fine degli anni ’80, è stata ripetuta alla fine degli anni ’90, ed è riproposta annualmente a partire dal 1999.
Il confronto sulle variazioni nella concezione della salute evidenzia il prevalere nel tempo di una concezione in cui è crescente e strategica la responsabilizzazione individuale: la salute è una questione che ha a che vedere con i comportamenti del singolo, con l’adozione responsabilizzata di comportamenti fondati sul controllo dei fattori di rischio (il fumo e l’alcol, ad esempio) e l’adozione di stili di vita sana (il moto, l’alimentazione, il controllo dello stress).
Fino a qualche anno fa era sicuramente maggiore l’enfasi posta, da una parte sulle scoperte della medicina, dall’altra sul rischio ambientale. Oggi, per la maggioranza della popolazione, il fattore più importante della buona salute è lo stile di vita. Di qui la conseguente convinzione che la salute è soprattutto frutto dell’autodeterminazione del paziente e delle scelte comportamentali dell’individuo, mentre molta meno influenza viene attribuita alle condizioni ambientali.

Il cambiamento si riflette nei modi della comunicazione?

Naturalmente la crescente rilevanza attribuita alla responsabilità del paziente è segno di un’enfasi culturale che si riscontra anche all’interno dei meccanismi che producono informazione. Sono due aspetti assolutamente collegati: essere informato sulle conseguenze dei comportamenti e poter operare le scelte che riguardano la propria salute sono condizioni essenziali per poter effettivamente esercitare il diritto di decisione autonoma ed autodeterminazione in questo campo strategico.

Una domanda crescente di informazione è il corollario inevitabile di un paziente responsabile della propria salute?

La capacità del paziente di intervenire effettivamente nella promozione della propria salute non dipende solo dalla sua disponibilità economica, ma anche dalla qualità e quantità dell’informazione che ottiene. Le informazioni sono un canale strategico per muoversi efficacemente nel complesso ed articolato mercato della salute e sono indispensabili per garantirsi quel livello di “alfabetizzazione sanitaria” essenziale per comprendere, decidere ed esercitare un ruolo attivo in questo campo. A questa domanda crescente si aggiunge poi un’altrettanto crescente disponibilità, fruibilità dei mezzi di comunicazione ed articolazione dei contenuti… Negli ultimi anni, infatti, nel campo dell’editoria sulla salute e sul benessere si ha un proliferare di attività che sono il frutto di un effetto di rinforzo reciproco.

Un effetto di rinforzo che ha determinato un’iper-promozione della medicina…

Credo che la comunicazione sul rischio in questo campo oggi sia inficiata da una specie di corto circuito. La comunicazione fa leva su un’idea dominante nell’immaginario collettivo che ritiene la medicina una scienza infallibile.
Si tratta di un nodo culturale dal quale non è possibile prescindere quando parliamo di comunicazione del rischio. L’informazione che passa è quella di una medicina sempre più potente, che di continuo apre nuove frontiere: la chirurgia e la medicina che possono intervenire su tutto e su tutti con crescenti livelli di specializzazione e personalizzazione fino al dettaglio estremo della genetica e del DNA. Di conseguenza la comunicazione sulla medicina è intrisa di questo concetto di onnipotenza che crea un’immagine sociale di infallibilità. Così il rischio in medicina da evento possibile e per certi versi ineliminabile diviene sempre più un fatto inaccettabile.

Paradossalmente oggi la comunicazione sul rischio è una comunicazione sull’errore?

L’evento rischio è derubricato a errore in un contesto che è però sempre meno disponibile ad accettare l’errore come pura fatalità. Da una parte presenta una medicina infallibile, dall’altra la comunicazione sul rischio enfatizza la dimensione dell’errore come fatto drammatico per di più sempre rappresentato come evitabile; questo lo personalizza, lo attribuisce ad un soggetto, a una struttura, all’ospedale… Ma il paradosso è che più si sottolinea l’errore invece del rischio più si alimenta il corto circuito della comunicazione.
A ciò spesso corrisponde, da parte del medico, un comportamento che pone l’accento sulla tecnologia e sulla sua onnipotenza scientifica, ma che sottovaluta l’importanza di un esercizio del sapere medico personalizzato e fondato sulla relazione con il paziente.
Si enfatizza, ad esempio, l’aspetto tecnologico dello screening, tacendo accuratamente la possibilità di errore o il rischio. L’aspetto probabilistico della medicina e del rischio passano in secondo piano rispetto all’enfasi che nella comunicazione spetta all’innovazione tecnologica, alle possibilità legate alla prevenzione di tipo diagnostico, ecc.

Potenza della tecnologia e onnipotenza del sapere medico…

Difficilmente avviene una comunicazione degli aspetti probabilistici dell’errore. Si tratta di elementi che potrebbero essere più facilmente veicolati investendo di più sull’aspetto relazionale che dovrebbe rappresentare un aspetto centrale della professionalità medica e che presuppone un sapere medico legato al rapporto quotidiano medico-paziente.
In questo clima culturale che influenza spesso anche la pratica medica, non ci si può stupire che poi il paziente pretenda che non ci siano errori. È, infatti, sempre meno incline ad accettare l’errore come evento possibile o, più in generale, l’aleatorietà connaturata alla pratica medica. Non solo non è disposto ad accettare l’aleatorietà del rischio, ma è un paziente sempre più autonomo che si rapporta con il medico in un modello di relazione sempre più paritaria che non accetta la subordinazione.
Se in una relazione medico-paziente con il medico dominante, il paziente era disposto anche ad accettare un errore come pura fatalità, in un rapporto sempre più paritario è difficile che l’errore come fatalità possa essere accettato, perché il paziente pretende dal medico l’applicazione su di sé dell’infallibilità della medicina.

Un atteggiamento che preclude la possibilità di guardare l’errore come momento in cui mettere in discussione il sapere esistente. Non trova?

Se si considera l’errore soltanto come un evento casuale di cui non si capisce il motivo, come se non si trattasse di un problema legato all’esercizio della medicina, diventa impossibile valutarlo e cercare di capire quale meccanismo abbia portato all’errore. Il passo da fare è quello di concettualizzare ed affrontare operativamente il tema dell’errore e del rischio in medicina.
Inoltre, se l’errore è visto nell’ottica legale di attribuzione di responsabilità, addebitabile a una sola persona, allora difficilmente può essere interpretato come frutto di una serie di concause che, se monitorate, in qualche misura potrebbero essere controllate. Se si nega il rischio nella sua accezione probabilistica, non è possibile avere gli strumenti né per misurarlo, né per controllarlo.
Una delle difficoltà maggiori è, infatti, che mancano definizioni condivise di rischio e indicatori che possano servire a monitorare gli errori. Manca spesso l’opzione chiara per una responsabilizzazione dei diversi soggetti nella gestione congiunta di un sistema di controllo del rischio che passi per una corretta concettualizzazione della nozione stessa di errore medico-sanitario e per la costruzione di una conoscenza sistematica, diacronica, delle situazioni di rischio. In questa accezione l’errore umano, che pure è sempre possibile, non è il fattore principale del problema, ma piuttosto il "precipitato" di eventi preesistenti che devono essere il vero oggetto di indagini e studi, a partire da un rilevazione di dati capaci di descriverli. Infatti sono i fattori di contesto che, pur non eliminando la responsabilità del singolo, tendono a spiegarla, a renderne ragione ed a inquadrarla in un set di fattori che la rendono "possibile".

Di fronte ad un’aumentata domanda di informazione anche il consenso informato diventa una questione più complessa: come informare correttamente il cittadino sui rischi in medicina?

Sullo strumento consenso informato nella sua forma attuale ho numerose riserve. È uno strumento burocratizzato, assolutamente depotenziato che non risponde agli obiettivi rispetto ai quali è stato creato. Tutto tranne che uno strumento di informazione, piuttosto un mezzo di tutela della struttura sanitaria e del medico. È una firma per certi versi estorta o, nel migliore dei casi, richiesta ed ottenuta per default, quasi mai spiegata.
Dal Monitor del Censis emerge che il bisogno di informazione del paziente ha caratteristiche ben precise che vanno soddisfatte affinché si possa parlare di consenso informato. Emerge che ci sono due poli di insoddisfazione da parte di due diverse categorie di pazienti che, per motivi opposti, giudicano insoddisfacente il livello di informazione che ottengono dagli operatori nel momento in cui hanno un problema medico. Da un parte gli utenti con una maggiore cultura e con maggiori strumenti la giudicano inadeguata perché insufficiente; dall’altra, chi ha livelli di istruzione più bassi la trova inadeguata perché ha difficoltà a comprenderla. È necessario poi tenere presente che il bisogno informativo interviene in un momento di difficoltà da parte del paziente. Il momento della malattia è un momento di vulnerabilità estrema, non solo sotto il profilo fisico ma anche dell’identità, dell’immagine del sé, dell’idea del proprio futuro che richiede un surplus di strumenti di informazione ed interpretazione.

Cosa chiede il paziente?

Una delle indicazioni più interessanti emerse dalle recenti indagini sulla domanda di salute riguarda quella che per gli intervistati rappresenta la priorità, la cosa più importante nel momento in cui si verifica un episodio di malattia: tra sapere che cosa sta gli succedendo, quali rischi corre, o avere il rimedio più efficace, il paziente sceglie di sapere che cosa sta succedendo. L’idea di un intervento appropriato e tempestivo che avvenga nell’ambito di un rapporto di dominanza professionale, in cui il medico non ti fa capire quello che hai è destrutturante e comunque ritenuto meno importante di un’informazione che ti restituisca il controllo della situazione. Per i pazienti è dunque più importante capire cosa sta succedendo, dare un nome alla “cosa” che si ha, all’evento che ha in qualche modo minato una quotidianità nota, per poter giudicare anche il tipo di intervento proposto e le possibilità strategiche di miglioramento, di cura e di soluzione. È evidente che rispetto a questi bisogni lo strumento del consenso informato non rappresenta certo una risposta adeguata.

Quali sono gli strumenti alternativi per raggiungere l’obiettivo "paziente-informato"?

Lo strumento più efficace rimane quello del colloquio face to face, legato alla personalizzazione del rapporto, alla comunicazione che si instaura nella relazione medico-paziente, in cui è importante il sapere medico quanto la capacità di relazionarsi. I medici, purtroppo, spesso parlano solo della patologia e mettono subito in campo lo strumento (il farmaco, l’accertamento diagnostico) che ha il connotato dell’infallibilità del potere tecnologico: ad esempio difficilmente si parla dei rischi legati all’utilizzo dei più recenti strumenti diagnostici o il carattere non necessariamente univoco dei risultati che è possibile ottenere.

Anche qui la comunicazione innesca un circuito strano: campagne per lo screening di massa che rischiano di trasformare la nostra vita in una minaccia generalizzata…

La diffusione di informazione corretta sui fattori di rischio e sugli screening è un fatto positivo che risponde anche ad una domanda sempre più strutturata da parte del paziente.
Ho già ricordato che i pazienti hanno cominciato a capire l’importanza dei comportamenti individuali anche a livello pratico, concreto, di assunzione di comportamenti e di stili di vita più corretti ed a ciò corrisponde una maggiore disponibilità a controllare i fattori della buona salute fumando meno, stando a dieta, facendo attività fisica e vita all’aria aperta.
Questa crescente capacità di fare prevenzione va utilizzata in senso positivo. Da una recente indagine risulta che tra i pazienti c’è la consapevolezza che spendere oggi in prevenzione significa risparmiare domani, in termini di minore sofferenza e più autosufficienza.

Quali sono modelli di comunicazione più efficaci?

Non enfatizzare solo gli aspetti di onnipotenza tecnologica, piuttosto fare un discorso quanto più possibile mirato, ad esempio, verso le popolazioni a rischio su cui concentrare non solo e non tanto gli sforzi di comunicazione ma anche quelli di intervento.
Resto poi dell’avviso che, poiché i medici e i pazienti sono persone, la partita della corretta comunicazione si giochi soprattutto nel rapporto medico-paziente che diventa lo strumento strategico della comunicazione sulla malattia, sul rischio, sull’errore, sulla fatalità.
Se nell’immaginario collettivo la medicina resta una scienza esatta onnipotente, quando l’errore si verifica è estremamente faticoso accettarlo, non solo a livello individuale ma anche a livello gestionale, il che può contribuire a spiegare anche una difficoltà più complessiva a monitorare il rischio ed ad attivare strumenti per controllarlo e contenerlo.

 

3 novembre 2004

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