L’intervista a Giorgio Dobrilla sulla evidence-based medicine che Va’ pensiero ha pubblicato nel numero del 4 luglio e gli interventi sugli ultimi numeri della testata Medifax confermano l’esistenza in Italia di grande difficoltà nell’accogliere la ricerca quantitativa, propria dell’epidemiologia clinica, quando essa entra nel merito della valutazione dell’attività clinica.
Penso di avere espresso con sufficiente chiarezza nell’articolo pubblicato sul numero 33 di Medifax il mio punto di vista – che nasce da più di un decennio di lavoro di ricerca in ambedue i settori – e che non vede necessarie contrapposizioni: ricerca quantitativa e qualitativa sono rivolte ad oggetti di studio diversi e possono essere complementari nell’arricchire la performance dell’atto clinico, che per sua natura è orientato all’individuo.
Dobrilla solleva il problema, reale, del linguaggio oscuro dell’evidenza e chiede semplicità ed immediatezza comunicativa; Bert (nella recensione al volume di Jenicek) sottolinea la primaria importanza dell’aspetto narrativo. Considerazioni giuste, ma la domanda a Dobrilla è: quando nel nostro curriculum formativo c’è stato un posto per l’approccio epidemiologico clinico? Quanto, anche oggi, il medico che si laurea è non solo capace di leggere un lavoro di epidemiologia clinica e comprendere le misure utilizzate (rischio relativo, Odds ratio, NNT) ma ha avuto occasione di partecipare a disegno, conduzione e analisi di uno studio valutativo in un’attività, non superficiale, di pratica di ricerca?
Si verifica un cortocircuito in Medicina; dopo anni di studi di epidemiologia clinica quantitativa, gli anglosassoni sottolineano la necessità della ricerca qualitativa, la centralità degli aspetti umani. La nostra Medicina si riconosce immediatamente in questo nuovo trend internazionale, dimenticando purtroppo di aver ben scarsamente sviluppato sia la ricerca epidemiologica clinica (limitata a pochi istituti di livello internazionale e di solito configurata come collaborazione a studi che vengono disegnati e analizzati in altri Paesi) sia, soprattutto, l’insegnamento e la formazione in campo quantitativo.
L’Associazione Italiana di Epidemiologia ha avviato un Master di qualificazione organizzato privatamente, in assenza di una possibilità di offrire ad adeguati livelli scientifici tale preparazione nei tradizionali canali formativi. E non è un mistero che l’Epidemiologo clinico, sia esso di estrazione medica o biostatistica, sia ancora una figura un po’ magica, di fatto non riconosciuta, del nostro Sistema Sanitario Nazionale, per non parlare delle nostre Università.
Lontano dall’essere corporativa, questa constatazione suggerisce che la nuova ondata sia più congeniale alla nostra cultura, perdendo di vista ciò che l’ha preceduta nella cultura medica internazionale, cioè il forte radicamento (forse eccessivo) del ragionamento quantitativo. Il linguaggio è oscuro soprattutto quando mancano basi formative comuni; ben altre oscurità vi sono nel linguaggio medico che pure entrano nel patrimonio culturale professionale.
Al contrario di Dobrilla, non credo che si possa affrontare questo tema con la stessa ottica con cui si discute della comunicazione con i non professionisti, i laici [questo sì, un problema che riguarda più in generale tutta la medicina e la scienza, compresa quella statistica]. Il ritardo di formazione nei metodi epidemiologici quantitativi è alla base di queste difficoltà di comunicazione professionale e richiede scelte che, in larga parte, si riferiscono alla stessa epistemologia della medicina. Lo sviluppo recente della evidence-based medicine non ha necessariamente reso le cose più facili, in questo senso. Si è sviluppata una competenza da parte di gruppi che discutono dell’esigenza e delle regole dell’EBM, più che non da parte di soggetti capaci di confrontarsi sulla pratica e sui risultati della ricerca.
La ricerca epidemiologica clinica fatica a svilupparsi in Italia e la presenza di alcuni centri – come quello dell’Istituto Tumori di Milano, con l’esperienza unica in Italia della Scuola di Biometria, o quello dell’Istituto Mario Negri, che ha realizzato l’importante esperienza dei large trial – non sono più un motore dello sviluppo. I centri di ricerca che coordinano le sempre più numerose attività di ricerca clinica multicentrica (come l’EORTC) si sviluppano fuori dall’Italia (con l’eccezione rilevante dell’epidemiologia clinica, di valore internazionale, dell’INT di Genova). La presenza di ricercatori italiani in istituti di eccellenza certo esiste ed è importante, ma la massa critica della ricerca epidemiologica clinica quantitativa in Italia è modesta e raramente consente di essere protagonisti nella scena internazionale.
Può darsi che il mio sia un punto di vista parziale e prevalentemente condizionato dall’esperienza personale e di tipo oncologico. È pero un fatto che la presenza epidemiologica italiana è forte ed importante negli studi valutativi di popolazione, per esempio nel campo della registrazione dei tumori e degli studi di valutazione di incidenza, prevalenza e sopravvivenza (tipo Eurocare), studi che hanno un peso notevole nella ricerca clinico-valutativa europea e anche americana, ma che da noi non è ancora considerata in maniera adeguata e non ha di fatto alcun riconoscimento istituzionale. Le scelte di questi ultimi anni che hanno nettamente privilegiato, secondo orientamenti esistenti anche nel mondo scientifico internazionale, la ricerca di base biologico-molecolare non hanno certo migliorato la situazione.
Parlare di sviluppo della ricerca qualitativa è certo importante e sicuramente risponde ad alcuni problemi propri della biomedicina contemporanea, pur tuttavia lascia un po’ di amaro in bocca a chi ritiene che nel nostro Paese – lungi dall’essersi esercitata una egemonia della ricerca epidemiologica clinica quantitativa – tale influenza è praticamente quasi assente e largamente veicolata dalla autorevolezza che le competenze dei ricercatori italiani hanno nel mondo scientifico internazionale, più che da un riconoscimento reale della sua necessità nella ricerca clinica contemporanea. In questo scenario attuale, l’esigenza delle prove e di una base valutativa quantitativa fondata sulla ricerca epidemiologica clinica, che è la sostanza dell’EBM, rischia realmente di apparire un corpo estraneo, anche se ormai imposto dalla cultura medica internazionalmente dominante, o un luogo di esercizio accademico, separato come è da quella attività pratica di ricerca che la rende feconda.
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L’intervista a Giorgio Dobrilla sulla evidence-based medicine che Va’ pensiero ha pubblicato nel numero del 4 luglio e gli interventi sugli ultimi numeri della testata Medifax confermano l’esistenza in Italia di grande difficoltà nell’accogliere la ricerca quantitativa, propria dell’epidemiologia clinica, quando essa entra nel merito della valutazione dell’attività clinica.
Penso di avere espresso con sufficiente chiarezza nell’articolo pubblicato sul numero 33 di Medifax il mio punto di vista – che nasce da più di un decennio di lavoro di ricerca in ambedue i settori – e che non vede necessarie contrapposizioni: ricerca quantitativa e qualitativa sono rivolte ad oggetti di studio diversi e possono essere complementari nell’arricchire la performance dell’atto clinico, che per sua natura è orientato all’individuo.
Dobrilla solleva il problema, reale, del linguaggio oscuro dell’evidenza e chiede semplicità ed immediatezza comunicativa; Bert (nella recensione al volume di Jenicek) sottolinea la primaria importanza dell’aspetto narrativo. Considerazioni giuste, ma la domanda a Dobrilla è: quando nel nostro curriculum formativo c’è stato un posto per l’approccio epidemiologico clinico? Quanto, anche oggi, il medico che si laurea è non solo capace di leggere un lavoro di epidemiologia clinica e comprendere le misure utilizzate (rischio relativo, Odds ratio, NNT) ma ha avuto occasione di partecipare a disegno, conduzione e analisi di uno studio valutativo in un’attività, non superficiale, di pratica di ricerca?
Si verifica un cortocircuito in Medicina; dopo anni di studi di epidemiologia clinica quantitativa, gli anglosassoni sottolineano la necessità della ricerca qualitativa, la centralità degli aspetti umani. La nostra Medicina si riconosce immediatamente in questo nuovo trend internazionale, dimenticando purtroppo di aver ben scarsamente sviluppato sia la ricerca epidemiologica clinica (limitata a pochi istituti di livello internazionale e di solito configurata come collaborazione a studi che vengono disegnati e analizzati in altri Paesi) sia, soprattutto, l’insegnamento e la formazione in campo quantitativo.
L’Associazione Italiana di Epidemiologia ha avviato un Master di qualificazione organizzato privatamente, in assenza di una possibilità di offrire ad adeguati livelli scientifici tale preparazione nei tradizionali canali formativi. E non è un mistero che l’Epidemiologo clinico, sia esso di estrazione medica o biostatistica, sia ancora una figura un po’ magica, di fatto non riconosciuta, del nostro Sistema Sanitario Nazionale, per non parlare delle nostre Università.
Lontano dall’essere corporativa, questa constatazione suggerisce che la nuova ondata sia più congeniale alla nostra cultura, perdendo di vista ciò che l’ha preceduta nella cultura medica internazionale, cioè il forte radicamento (forse eccessivo) del ragionamento quantitativo. Il linguaggio è oscuro soprattutto quando mancano basi formative comuni; ben altre oscurità vi sono nel linguaggio medico che pure entrano nel patrimonio culturale professionale.
Al contrario di Dobrilla, non credo che si possa affrontare questo tema con la stessa ottica con cui si discute della comunicazione con i non professionisti, i laici [questo sì, un problema che riguarda più in generale tutta la medicina e la scienza, compresa quella statistica]. Il ritardo di formazione nei metodi epidemiologici quantitativi è alla base di queste difficoltà di comunicazione professionale e richiede scelte che, in larga parte, si riferiscono alla stessa epistemologia della medicina. Lo sviluppo recente della evidence-based medicine non ha necessariamente reso le cose più facili, in questo senso. Si è sviluppata una competenza da parte di gruppi che discutono dell’esigenza e delle regole dell’EBM, più che non da parte di soggetti capaci di confrontarsi sulla pratica e sui risultati della ricerca.
La ricerca epidemiologica clinica fatica a svilupparsi in Italia e la presenza di alcuni centri – come quello dell’Istituto Tumori di Milano, con l’esperienza unica in Italia della Scuola di Biometria, o quello dell’Istituto Mario Negri, che ha realizzato l’importante esperienza dei large trial – non sono più un motore dello sviluppo. I centri di ricerca che coordinano le sempre più numerose attività di ricerca clinica multicentrica (come l’EORTC) si sviluppano fuori dall’Italia (con l’eccezione rilevante dell’epidemiologia clinica, di valore internazionale, dell’INT di Genova). La presenza di ricercatori italiani in istituti di eccellenza certo esiste ed è importante, ma la massa critica della ricerca epidemiologica clinica quantitativa in Italia è modesta e raramente consente di essere protagonisti nella scena internazionale.
Può darsi che il mio sia un punto di vista parziale e prevalentemente condizionato dall’esperienza personale e di tipo oncologico. È pero un fatto che la presenza epidemiologica italiana è forte ed importante negli studi valutativi di popolazione, per esempio nel campo della registrazione dei tumori e degli studi di valutazione di incidenza, prevalenza e sopravvivenza (tipo Eurocare), studi che hanno un peso notevole nella ricerca clinico-valutativa europea e anche americana, ma che da noi non è ancora considerata in maniera adeguata e non ha di fatto alcun riconoscimento istituzionale. Le scelte di questi ultimi anni che hanno nettamente privilegiato, secondo orientamenti esistenti anche nel mondo scientifico internazionale, la ricerca di base biologico-molecolare non hanno certo migliorato la situazione.
Parlare di sviluppo della ricerca qualitativa è certo importante e sicuramente risponde ad alcuni problemi propri della biomedicina contemporanea, pur tuttavia lascia un po’ di amaro in bocca a chi ritiene che nel nostro Paese – lungi dall’essersi esercitata una egemonia della ricerca epidemiologica clinica quantitativa – tale influenza è praticamente quasi assente e largamente veicolata dalla autorevolezza che le competenze dei ricercatori italiani hanno nel mondo scientifico internazionale, più che da un riconoscimento reale della sua necessità nella ricerca clinica contemporanea. In questo scenario attuale, l’esigenza delle prove e di una base valutativa quantitativa fondata sulla ricerca epidemiologica clinica, che è la sostanza dell’EBM, rischia realmente di apparire un corpo estraneo, anche se ormai imposto dalla cultura medica internazionalmente dominante, o un luogo di esercizio accademico, separato come è da quella attività pratica di ricerca che la rende feconda.
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