Uno studio storico, firmato da Harold Freeman e Colin McCord, riporta che una persona residente Harlem ha un’aspettativa di vita più bassa di chi vive in Bangladesh, dimostrando che non è solo il reddito a incidere sulla qualità della salute delle persone. Lo stesso si può dire anche per la salute mentale?
Disporre di un reddito più alto non garantisce una migliore qualità della vita, perché il reddito non è in relazione con la capacità di soddisfare i propri bisogni. Il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen ha dimostrato come la disuguaglianza non sia un concetto unico ma, piuttosto, un insieme di diverse componenti. Per prima cosa, Amartya Sen ha ritenuto giusto ridurre il peso del reddito rispetto alle altre componenti, dimostrando che per star bene non è sufficiente avere un reddito elevato, ma bisogna avere anche la capacità di servirsene e di soddisfare i propri bisogni. Essendo la salute mentale un’area di frontiera tra il sociale e il sanitario, è chiaro che la relazione tra deprivazione socioeconomica e malattia mentale sia più stretta rispetto ad altre patologie. Diversi studi dimostrano che vi è una maggiore prevalenza di depressione e schizofrenia nelle aree deprivate e svantaggiate, mentre una relazione inversa esisterebbe per i disturbi bipolari che sono più frequenti nelle classi più ricche.
Quale strategia locale intravede per superare questa disuguaglianza?
Non è certamente un problema semplice, proprio perché la disuguaglianza non ha un’unica dimensione ma è fatta di più componenti: una materiale, che è legata al luogo e alle condizioni in cui si vive; una di dominio, ovvero la capacità che ciascuno di noi ha di dirigere le scelte della propria famiglia, del proprio ambiente di lavoro e della propria comunità; un’altra componente molto importante è quella relazionale, cioè la capacità di avere relazioni con gli altri e ottenere aiuto dagli altri. Infine, anche la componente culturale ha un suo peso. Quindi, per colmare le disuguaglianze bisogna intervenire a diversi livelli.
Nello specifico delle malattie mentali, quale livello dovrebbe avere maggior peso?
Nell’ambito della salute tutte le componenti giocano un ruolo importante. Una componente sulla quale sarebbe possibile agire con relativa rapidità ed efficacia è certamente quella relazionale. Ad esempio, con interventi di rete per proteggere le madri sole con i figli a carico, gli anziani, e le persone senza lavoro oppure con lavoro ad elevata flessibilità. Interventi rivolti a questi gruppi ridurrebbero le condizioni di disuguaglianza.
Sono interventi che accrescerebbero il capitale sociale del Paese…
Sì, perché il supporto dato a queste categorie della popolazione accresce il senso di collettività, di coesione e di fiducia nel prossimo e nelle istituzioni, che nell’insieme definiscono il "capitale sociale". Ma a questi interventi bisogna poi aggiungerne altri effettuati su piani diversi che riducano le disuguaglianze nella componente materiale, cioè sulla possibilità o meno di avere un’abitazione stabile. È importante che ci siano, nel contesto in cui si vive, progetti di residenzialità popolare che garantiscano a tutti la possibilità di avere un alloggio. La maggior parte di questi interventi è al di fuori dall’ambito sanitario e riguarda le politiche sociali di carattere generale.
Come agire dal punto di vista sanitario?
È fondamentale garantire una uguale disponibilità ed accessibilità ai servizi sanitari di qualità: informare i cittadini su quali siano i servizi disponibili sul territorio e, allo stesso tempo, intervenire in modo mirato per garantire uguale accessibilità sia in termini di costo delle prestazioni che di qualità dei servizi.
Per quanto riguarda la psicoterapia e la psicoanalisi, condotte per la maggior parte privatamente, ci sarebbe il modo per renderle accessibili anche a coloro che non se le possono permettere?
Un modo sarebbe quello di mettere a disposizione interventi psicoterapici che abbiano dimostrato un buon rapporto costo-efficacia, quali la terapia cognitivo-comportamentale. Si tratta di una strategia possibile anche dal punto di vista dei costi, come è stato dimostrato in uno studio Hollinghurst e collaboratori apparso sul BMJ nel 2005 e recensito su CARE. Lo studio ha rilevato che, risparmiando sulle prescrizioni inappropriate di antidepressivi (secondo le indicazioni del National Institute for Clinical Excellence), sarebbe possibile offrire la terapia cognitivo-comportamentale ad un’ampia fascia di pazienti che si rivolge al servizio pubblico.
Tra Nord e Sud dell’Italia si riscontrano diversità nella disponibilità dei servizi psichiatrici?
Non ci sono molti dati, ma sicuramente esiste una disuguaglianza tra Nord e Sud nell’offerta dei servizi sanitari e per la salute mentale. Una persona che si trova costretta a spostarsi per ricevere l’assistenza è svantaggiata rispetto a chi dispone del servizio nella città dove abita, in particolare per questa classe di malattie spesso con un carattere di cronicità che richiedono un trattamento e un’assistenza prolungata nel tempo. Inoltre, gli interventi riabilitativi per la salute mentale sono legati al territorio in cui la persona vive: perciò spostarsi per una visita per raggiungere un centro di eccellenza può rivelarsi meno vantaggioso rispetto a quanto si riscontra per altre patologie.
Per colmare questo gap cosa si sta facendo in Italia? E cosa purtroppo non è nell’agenda politica e sociale del Paese?
Si è fatto molto poco, e la situazione potrebbe essere ulteriormente aggravata dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione, per cui i programmi sanitari vengono affidati alle Regioni. La decentralizzazione, se da una parte avvicina la programmazione ai problemi, dall’altra può portare – a seconda della disponibilità economica delle singole Regioni – ad una maggiore disparità tra le Regioni rispetto a quando la pianificazione veniva fatta da un organo centrale, il Ministero della Salute.
Per allocare le risorse finanziare e umane, quale criterio adotterebbe? Densità di popolazione o condizione socioeconomica?
Nel nostro Paese, le risorse sono distribuite in modo uniforme in base alla quota capitaria, cioè per ogni persona assistibile, con delle piccole variazioni legate solo ad alcuni parametri demografici. In Inghilterra, invece, l’allocazione delle risorse sanitarie, comprese quelle per la salute mentale, è legata a indicatori di stato socioeconomico della popolazione e, quindi, ai reali bisogni dei singoli cittadini. Prenderei dunque spunto da queste esperienze e dai diversi studi esistenti, legando l’allocazione ad un indicatore dello stato socioeconomico che abbia dimostrato di avere una forte relazione con i bisogni sanitari della popolazione.
In Italia esiste il corrispettivo degli indicatori usati in altri Paesi?
Anche in Italia è possibile avere un indicatore di stato socioeconomico utilizzabile per allocare le risorse in diverse aree del territorio nazionale a seconda dei bisogni della popolazione. Noi siamo riusciti a costruirne partendo dalle basi concettuali di Amartya Sen, cioè cercando di cogliere diverse componenti delle disuguaglianze, e poi lo abbiamo potuto mettere in relazione con la patologia psichiatrica e con l’utilizzazione dei servizi psichiatrici.
Come lo avete costruito?
Abbiamo utilizzato i dati del censimento relativi alla popolazione veronese e abbiamo analizzato ogni singola "sezione di censimento", cioè un’area piuttosto piccola dove vivono mediamente da 160-200 persone; questo ci ha messo al riparo dal cosiddetto errore ecologico, che rappresenta la distanza esistente tra l’individuo e le caratteristiche del luogo dove vive. Abbiamo così ottenuto un indicatore sintetico che contiene nove variabili censuarie e che spiega bene almeno tre componenti della disuguaglianza: quella educativo-occupazionale, quella relazionale e, infine, quella materiale.
Utilizzando questo indicatore avete riscontrato delle differenze nella prevalenza delle malattie mentali?
Abbiamo riscontrato che la prevalenza di malattie mentali raddoppia passando dalle aree ricche a quelle più deprivate. Invece è sovrapponibile il numero dei nuovi pazienti che arrivano al servizio psichiatrico per un ricovero, un day hospital o una visita ambulatoriale. In pratica, il numero di pazienti che rimangono in carico al servizio risulta maggiore nelle aree più deprivate. L’insieme di questi risultati dimostra che, nel territorio veronese, i servizi psichiatrici sono utilizzati maggiormente dalle persone che vivono nelle aree a più basso indice socioeconomico e che perciò i bisogni maggiori sono concentrati nelle classi più deprivate.
La condizione svantaggiata di chi occupa la base della piramide socioeconomica viene compensata da una migliore garanzia di accesso alle cure?
Nel nostro caso il servizio si è dimostrato virtuoso, nel senso che riesce a soddisfare anche i bisogni delle classi più deprivate: il numero di visite, di contatti e di ricoveri è maggiore per le persone che provengono dalle aree svantaggiate.
Cosa prevede per il futuro?
Dobbiamo sicuramente aspettarci un aumento del disagio mentale: infatti, è dimostrato che vivere in condizioni di precarietà aumenta l’incidenza di depressione e anche la rottura dei legami sociali peggiora alcune condizioni. Visto che stiamo andando incontro a trasformazioni del mondo del lavoro, che richiede sempre più flessibilità e instabilità, è presumibile che nei prossimi anni aumentino alcune patologie mentali specie in quelle fasce di popolazione deprivate non solo ed esclusivamente dal punto di vista del reddito ma che della stabilità materiale e relazionale: uno stato di eccessiva flessibilità, di mancanza di garanzie o di predisposizione alla rottura della stabilità relazionale è un fattore che nell’insieme fa aumentare la frequenza della depressione. E dei segnali sono già evidenti. La depressione è la quinta causa di perdita economica nel mondo, dopo le grandi patologie dei Paesi in via di sviluppo, e l’OMS ha stimato che nel 2020 la depressione diventerà la prima causa di perdita economica.
12 aprile 2006 |
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Quella sicurezza non solo economica che fa stare bene
Disporre di un reddito più alto non garantisce una migliore qualità della vita, perché il reddito non è in relazione con la capacità di soddisfare i propri bisogni. Il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen ha dimostrato come la disuguaglianza non sia un concetto unico ma, piuttosto, un insieme di diverse componenti. Per prima cosa, Amartya Sen ha ritenuto giusto ridurre il peso del reddito rispetto alle altre componenti, dimostrando che per star bene non è sufficiente avere un reddito elevato, ma bisogna avere anche la capacità di servirsene e di soddisfare i propri bisogni.
Essendo la salute mentale un’area di frontiera tra il sociale e il sanitario, è chiaro che la relazione tra deprivazione socioeconomica e malattia mentale sia più stretta rispetto ad altre patologie. Diversi studi dimostrano che vi è una maggiore prevalenza di depressione e schizofrenia nelle aree deprivate e svantaggiate, mentre una relazione inversa esisterebbe per i disturbi bipolari che sono più frequenti nelle classi più ricche.
Quale strategia locale intravede per superare questa disuguaglianza?
Non è certamente un problema semplice, proprio perché la disuguaglianza non ha un’unica dimensione ma è fatta di più componenti: una materiale, che è legata al luogo e alle condizioni in cui si vive; una di dominio, ovvero la capacità che ciascuno di noi ha di dirigere le scelte della propria famiglia, del proprio ambiente di lavoro e della propria comunità; un’altra componente molto importante è quella relazionale, cioè la capacità di avere relazioni con gli altri e ottenere aiuto dagli altri. Infine, anche la componente culturale ha un suo peso. Quindi, per colmare le disuguaglianze bisogna intervenire a diversi livelli.
Nello specifico delle malattie mentali, quale livello dovrebbe avere maggior peso?
Nell’ambito della salute tutte le componenti giocano un ruolo importante. Una componente sulla quale sarebbe possibile agire con relativa rapidità ed efficacia è certamente quella relazionale. Ad esempio, con interventi di rete per proteggere le madri sole con i figli a carico, gli anziani, e le persone senza lavoro oppure con lavoro ad elevata flessibilità. Interventi rivolti a questi gruppi ridurrebbero le condizioni di disuguaglianza.
Sono interventi che accrescerebbero il capitale sociale del Paese…
Sì, perché il supporto dato a queste categorie della popolazione accresce il senso di collettività, di coesione e di fiducia nel prossimo e nelle istituzioni, che nell’insieme definiscono il "capitale sociale". Ma a questi interventi bisogna poi aggiungerne altri effettuati su piani diversi che riducano le disuguaglianze nella componente materiale, cioè sulla possibilità o meno di avere un’abitazione stabile. È importante che ci siano, nel contesto in cui si vive, progetti di residenzialità popolare che garantiscano a tutti la possibilità di avere un alloggio. La maggior parte di questi interventi è al di fuori dall’ambito sanitario e riguarda le politiche sociali di carattere generale.
Come agire dal punto di vista sanitario?
È fondamentale garantire una uguale disponibilità ed accessibilità ai servizi sanitari di qualità: informare i cittadini su quali siano i servizi disponibili sul territorio e, allo stesso tempo, intervenire in modo mirato per garantire uguale accessibilità sia in termini di costo delle prestazioni che di qualità dei servizi.
Per quanto riguarda la psicoterapia e la psicoanalisi, condotte per la maggior parte privatamente, ci sarebbe il modo per renderle accessibili anche a coloro che non se le possono permettere?
Un modo sarebbe quello di mettere a disposizione interventi psicoterapici che abbiano dimostrato un buon rapporto costo-efficacia, quali la terapia cognitivo-comportamentale. Si tratta di una strategia possibile anche dal punto di vista dei costi, come è stato dimostrato in uno studio Hollinghurst e collaboratori apparso sul BMJ nel 2005 e recensito su CARE. Lo studio ha rilevato che, risparmiando sulle prescrizioni inappropriate di antidepressivi (secondo le indicazioni del National Institute for Clinical Excellence), sarebbe possibile offrire la terapia cognitivo-comportamentale ad un’ampia fascia di pazienti che si rivolge al servizio pubblico.
Tra Nord e Sud dell’Italia si riscontrano diversità nella disponibilità dei servizi psichiatrici?
Non ci sono molti dati, ma sicuramente esiste una disuguaglianza tra Nord e Sud nell’offerta dei servizi sanitari e per la salute mentale. Una persona che si trova costretta a spostarsi per ricevere l’assistenza è svantaggiata rispetto a chi dispone del servizio nella città dove abita, in particolare per questa classe di malattie spesso con un carattere di cronicità che richiedono un trattamento e un’assistenza prolungata nel tempo. Inoltre, gli interventi riabilitativi per la salute mentale sono legati al territorio in cui la persona vive: perciò spostarsi per una visita per raggiungere un centro di eccellenza può rivelarsi meno vantaggioso rispetto a quanto si riscontra per altre patologie.
Per colmare questo gap cosa si sta facendo in Italia? E cosa purtroppo non è nell’agenda politica e sociale del Paese?
Si è fatto molto poco, e la situazione potrebbe essere ulteriormente aggravata dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione, per cui i programmi sanitari vengono affidati alle Regioni. La decentralizzazione, se da una parte avvicina la programmazione ai problemi, dall’altra può portare – a seconda della disponibilità economica delle singole Regioni – ad una maggiore disparità tra le Regioni rispetto a quando la pianificazione veniva fatta da un organo centrale, il Ministero della Salute.
Per allocare le risorse finanziare e umane, quale criterio adotterebbe? Densità di popolazione o condizione socioeconomica?
Nel nostro Paese, le risorse sono distribuite in modo uniforme in base alla quota capitaria, cioè per ogni persona assistibile, con delle piccole variazioni legate solo ad alcuni parametri demografici. In Inghilterra, invece, l’allocazione delle risorse sanitarie, comprese quelle per la salute mentale, è legata a indicatori di stato socioeconomico della popolazione e, quindi, ai reali bisogni dei singoli cittadini. Prenderei dunque spunto da queste esperienze e dai diversi studi esistenti, legando l’allocazione ad un indicatore dello stato socioeconomico che abbia dimostrato di avere una forte relazione con i bisogni sanitari della popolazione.
In Italia esiste il corrispettivo degli indicatori usati in altri Paesi?
Anche in Italia è possibile avere un indicatore di stato socioeconomico utilizzabile per allocare le risorse in diverse aree del territorio nazionale a seconda dei bisogni della popolazione. Noi siamo riusciti a costruirne partendo dalle basi concettuali di Amartya Sen, cioè cercando di cogliere diverse componenti delle disuguaglianze, e poi lo abbiamo potuto mettere in relazione con la patologia psichiatrica e con l’utilizzazione dei servizi psichiatrici.
Come lo avete costruito?
Abbiamo utilizzato i dati del censimento relativi alla popolazione veronese e abbiamo analizzato ogni singola "sezione di censimento", cioè un’area piuttosto piccola dove vivono mediamente da 160-200 persone; questo ci ha messo al riparo dal cosiddetto errore ecologico, che rappresenta la distanza esistente tra l’individuo e le caratteristiche del luogo dove vive. Abbiamo così ottenuto un indicatore sintetico che contiene nove variabili censuarie e che spiega bene almeno tre componenti della disuguaglianza: quella educativo-occupazionale, quella relazionale e, infine, quella materiale.
Utilizzando questo indicatore avete riscontrato delle differenze nella prevalenza delle malattie mentali?
Abbiamo riscontrato che la prevalenza di malattie mentali raddoppia passando dalle aree ricche a quelle più deprivate. Invece è sovrapponibile il numero dei nuovi pazienti che arrivano al servizio psichiatrico per un ricovero, un day hospital o una visita ambulatoriale. In pratica, il numero di pazienti che rimangono in carico al servizio risulta maggiore nelle aree più deprivate. L’insieme di questi risultati dimostra che, nel territorio veronese, i servizi psichiatrici sono utilizzati maggiormente dalle persone che vivono nelle aree a più basso indice socioeconomico e che perciò i bisogni maggiori sono concentrati nelle classi più deprivate.
La condizione svantaggiata di chi occupa la base della piramide socioeconomica viene compensata da una migliore garanzia di accesso alle cure?
Nel nostro caso il servizio si è dimostrato virtuoso, nel senso che riesce a soddisfare anche i bisogni delle classi più deprivate: il numero di visite, di contatti e di ricoveri è maggiore per le persone che provengono dalle aree svantaggiate.
Cosa prevede per il futuro?
Dobbiamo sicuramente aspettarci un aumento del disagio mentale: infatti, è dimostrato che vivere in condizioni di precarietà aumenta l’incidenza di depressione e anche la rottura dei legami sociali peggiora alcune condizioni. Visto che stiamo andando incontro a trasformazioni del mondo del lavoro, che richiede sempre più flessibilità e instabilità, è presumibile che nei prossimi anni aumentino alcune patologie mentali specie in quelle fasce di popolazione deprivate non solo ed esclusivamente dal punto di vista del reddito ma che della stabilità materiale e relazionale: uno stato di eccessiva flessibilità, di mancanza di garanzie o di predisposizione alla rottura della stabilità relazionale è un fattore che nell’insieme fa aumentare la frequenza della depressione. E dei segnali sono già evidenti. La depressione è la quinta causa di perdita economica nel mondo, dopo le grandi patologie dei Paesi in via di sviluppo, e l’OMS ha stimato che nel 2020 la depressione diventerà la prima causa di perdita economica.