L’intervento di Eugenio Paci sullo scorso numero di Va’ pensiero, che prende lo spunto dall’ intervista da me rilasciata sul n. 47 e titolata “Il linguaggio oscuro dell’evidenza“, mi ha fatto molto piacere. Non certo per la vanità di constatare come alcune mie idee sono oggetto di autorevole considerazione, ma perché trovo nei suoi rilievi non divergenze ma una sostanziale condivisione di vedute, di preoccupazioni e di critiche. In concreto, io rilevo nell’intervista come non di rado il linguaggio di chi si occupa di medicina “moderna” (dove moderna significa medicina costruita non solo su informazioni attendibili e continuamente aggiornate ma anche, se non soprattutto, sulla base di un background adeguato di metodologia, biometria, epidemiologia) riesce piuttosto oscuro al medico “normale”.
Paci riconosce che il problema sollevato è “reale” e subito dopo mi chiede “quando nel nostro curriculum formativo c’è stato un posto per l’approccio epidemiologico clinico?” La risposta che darei, in totale sintonia con lui, è “certamente mai o raramente”, e questo la dice lunga sulla carenza delle Istituzioni che in Italia sono preposte all’istruzione ed all’educazione permanente. Questi deficit ed in particolare “il ritardo di formazione nei metodi epidemiologici quantitativi”, come Paci giustamente osserva, sono certamente “alla base di queste difficoltà di comunicazione professionale”. Ciò non fa che sottolineare quanto dicevo io in modo molto colloquiale e sbrigativo (la rubrica si chiama del resto “Un caffè con…”, o mi sbaglio?), anzi lo aggrava: il linguaggio oscuro diventa ancora più oscuro se a colui cui il messaggio è indirizzato non è stato insegnato l’abbiccì indispensabile per “leggere” quel messaggio.
Poiché purtroppo questa è la realtà, chi ne è consapevole (non responsabile!) dovrebbe sforzarsi proprio per questo di essere il più accessibile possibile quando si rivolge a chi di quel background è sprovvisto. Questo vale per molti altri campi. Un esempio: in una iniziativa di alto livello per l’aggiornamento medico che ho modo di consultare ora anche online (ma purtroppo a pagamento!), da poco esiste per molte delle patologie un aggiornamento progettato specificamente per il paziente. Ho provato a leggere quello relativo all’esofago di Barrett, una condizione che non è certo un tema routinario per il lettore/paziente non laureato in medicina, molto più spesso abituato a leggere sui giornali di acidità, di obesità, di impotenza, di allergie stagionali. Ebbene, posso assicurare che nell’iniziativa appena citata, portata avanti da gastroenterologi superspecialisti, il linguaggio usato, pur rigoroso, è così abilmente “adattato” da consentire a qualsiasi lettore/paziente (cui nessuno ha parlato di metaplasia gastrica, di metaplasia duodenale, di displasia lieve, moderata e grave), di capire egualmente cosa è il Barrett, i rischi che questa patologia comporta, come deve essere progettato il follow-up, quali sono le difficoltà di una decisione terapeutica e quali possono essere le opzioni terapeutiche.
La ricerca attenta che il linguaggio usato sia comprensibile per coloro cui è indirizzato il messaggio costa naturalmente fatica, se non altro perché un destinatario diverso richiede un linguaggio diverso. La fatica è però compensata da una maggiore chiarezza espositiva e di contenuti e, soprattutto, da una più soddisfacente comunicazione, ciò che dovrebbe rappresentare l’obiettivo di fondo. Insomma, nei confronti di alcune “voci” citate opportunamente da Paci, quali rischio relativo, Odds ratio, NNT, partecipazione al disegno di un trial, conduzione ed analisi di uno studio valutativo e via dicendo, il normale laureato in Medicina mi ricorda molto il lettore/paziente (che ovviamente non ha “basi formative comuni” con il medico) nell’esempio di cui sopra. Allora, fintanto che al laureato in Medicina non si darà un’adeguata educazione e non gli si colmeranno le carenze di cui sopra (se mai lo si farà in questo Paese) penso che auspicare in tutti i campi un linguaggio meno oscuro possibile tra esperti e non, a tutto vantaggio della comunicazione interdisciplinare, sia un modo di “pensare positivo”. Sono certo che su questo Paci concorderà con me, come del resto io non posso che concordare con lui e con il suo più che giustificato rammarico.
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Ri-partire dall’abbiccì
L’intervento di Eugenio Paci sullo scorso numero di Va’ pensiero, che prende lo spunto dall’ intervista da me rilasciata sul n. 47 e titolata “Il linguaggio oscuro dell’evidenza“, mi ha fatto molto piacere. Non certo per la vanità di constatare come alcune mie idee sono oggetto di autorevole considerazione, ma perché trovo nei suoi rilievi non divergenze ma una sostanziale condivisione di vedute, di preoccupazioni e di critiche. In concreto, io rilevo nell’intervista come non di rado il linguaggio di chi si occupa di medicina “moderna” (dove moderna significa medicina costruita non solo su informazioni attendibili e continuamente aggiornate ma anche, se non soprattutto, sulla base di un background adeguato di metodologia, biometria, epidemiologia) riesce piuttosto oscuro al medico “normale”.
Paci riconosce che il problema sollevato è “reale” e subito dopo mi chiede “quando nel nostro curriculum formativo c’è stato un posto per l’approccio epidemiologico clinico?” La risposta che darei, in totale sintonia con lui, è “certamente mai o raramente”, e questo la dice lunga sulla carenza delle Istituzioni che in Italia sono preposte all’istruzione ed all’educazione permanente. Questi deficit ed in particolare “il ritardo di formazione nei metodi epidemiologici quantitativi”, come Paci giustamente osserva, sono certamente “alla base di queste difficoltà di comunicazione professionale”. Ciò non fa che sottolineare quanto dicevo io in modo molto colloquiale e sbrigativo (la rubrica si chiama del resto “Un caffè con…”, o mi sbaglio?), anzi lo aggrava: il linguaggio oscuro diventa ancora più oscuro se a colui cui il messaggio è indirizzato non è stato insegnato l’abbiccì indispensabile per “leggere” quel messaggio.
Poiché purtroppo questa è la realtà, chi ne è consapevole (non responsabile!) dovrebbe sforzarsi proprio per questo di essere il più accessibile possibile quando si rivolge a chi di quel background è sprovvisto. Questo vale per molti altri campi. Un esempio: in una iniziativa di alto livello per l’aggiornamento medico che ho modo di consultare ora anche online (ma purtroppo a pagamento!), da poco esiste per molte delle patologie un aggiornamento progettato specificamente per il paziente. Ho provato a leggere quello relativo all’esofago di Barrett, una condizione che non è certo un tema routinario per il lettore/paziente non laureato in medicina, molto più spesso abituato a leggere sui giornali di acidità, di obesità, di impotenza, di allergie stagionali. Ebbene, posso assicurare che nell’iniziativa appena citata, portata avanti da gastroenterologi superspecialisti, il linguaggio usato, pur rigoroso, è così abilmente “adattato” da consentire a qualsiasi lettore/paziente (cui nessuno ha parlato di metaplasia gastrica, di metaplasia duodenale, di displasia lieve, moderata e grave), di capire egualmente cosa è il Barrett, i rischi che questa patologia comporta, come deve essere progettato il follow-up, quali sono le difficoltà di una decisione terapeutica e quali possono essere le opzioni terapeutiche.
La ricerca attenta che il linguaggio usato sia comprensibile per coloro cui è indirizzato il messaggio costa naturalmente fatica, se non altro perché un destinatario diverso richiede un linguaggio diverso. La fatica è però compensata da una maggiore chiarezza espositiva e di contenuti e, soprattutto, da una più soddisfacente comunicazione, ciò che dovrebbe rappresentare l’obiettivo di fondo. Insomma, nei confronti di alcune “voci” citate opportunamente da Paci, quali rischio relativo, Odds ratio, NNT, partecipazione al disegno di un trial, conduzione ed analisi di uno studio valutativo e via dicendo, il normale laureato in Medicina mi ricorda molto il lettore/paziente (che ovviamente non ha “basi formative comuni” con il medico) nell’esempio di cui sopra. Allora, fintanto che al laureato in Medicina non si darà un’adeguata educazione e non gli si colmeranno le carenze di cui sopra (se mai lo si farà in questo Paese) penso che auspicare in tutti i campi un linguaggio meno oscuro possibile tra esperti e non, a tutto vantaggio della comunicazione interdisciplinare, sia un modo di “pensare positivo”. Sono certo che su questo Paci concorderà con me, come del resto io non posso che concordare con lui e con il suo più che giustificato rammarico.
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