Non finisce di sorprendere che la polemica continui ancora oggi a puntare i suoi strali contro la mammografia di screening, riprendendo un dibattito vivace, soprattutto in Gran Bretagna. Alla fine di settembre, il Festival della salute che si è tenuto a Viareggio, un importante evento animato dalle migliori intenzioni e sorretto dalla partecipazione di tante autorevoli personalità della sanità pubblica italiana, ha proposto nel suo sito una sfilza di pratiche di prevenzione e di check up, che sono accomunate dalla disponibilità di ben poche, se non alcuna, prova di valutazione di efficacia. Un fenomeno comune; non passa mese che ormai non ci sia una giornata di promozione di qualche intervento di prevenzione, nello spirito che comunque, la tecnologia per la diagnosi precoce e la prevenzione è un bene.
In questo contesto di mancanza assoluta di governance dell’offerta tecnologica, particolarmente acuta – anche se non esclusiva – in questo settore della prevenzione, è veramente peculiare che si torni a parlare sempre e solo di mammografia di screening.
La mammografia è la tecnologia di diagnosi precoce che ha sicuramente avuto lo sviluppo più virtuoso in accordo ai canoni della evidence based medicine; dagli studi clinici controllati degli anni settanta-ottanta, alle metanalisi e conferenze di consenso che ne hanno sancito l’efficacia nel ridurre la mortalità, alla fine degli anni ottanta, fino al diffondersi del suo utilizzo nella pratica clinica a fini di diagnosi precoce. Ma soprattutto, l’avvio dei programmi di screening di sanità pubblica negli anni ottanta in Gran Bretagna e Svezia con invito attivo della popolazione, ha portato in Europa, nell’ambito di innovativi programmi di sanità pubblica, al coinvolgimento in questa iniziativa di quasi sessanta milioni di donne nella fascia di età compresa tra 50 e 69 anni. Programmi di screening con caratteristiche molto simili e che utilizzano e confrontano indicatori e misure di qualità standardizzate, rese disponibili pubblicamente ormai da decenni.
Voglio premettere la mia posizione. Io ritengo che l’evidenza scientifica che ha sorretto l’introduzione dello screening mammografico sia più che sufficiente, che essa è stata ottenuta con studi di popolazione per molti aspetti condotti in maniera ammirabile, considerando l’esigenza di grandi numeri di donne da coinvolgere e che tali studi sono iniziati prima della diffusione dei computer.
Nel 2000 sul Lancet, in maniera aggressiva e arrogante, Gotschtze, da allora sostanzialmente identificato come esponente del gruppo Cochrane, ha condotto un duro attacco alla dimostrazione di efficacia della mammografia di screening, usando un metodo molto semplice, basato sul sollevare sospetti in larga parte non verificabili sulla conduzione degli studi e amplificando le implicazioni dei problemi esistenti in alcuni trial randomizzati.
La novità del suo risultato consegue alla decisione di scegliere solo gli studi da lui ritenuti di buona qualità e quindi, quali trial escludere dalla metanalisi? Il caso ha voluto (sic) che siano stati esclusi quelli che avevano più evidenti indicazioni di vantaggio per la mammografia.
Si è riaperta una querelle infinita. La discussione su pregi e difetti dei singoli trial randomizzati (8 studi) era già viva da anni e senza segreti per gli addetti ai lavori. Specialmente il trial canadese era stato oggetto di molte critiche e naturalmente, anche di molte difese e cosi gli studi di Tabar; la discussione ormai era considerata inconcludente, cioè ognuno restava sulle proprie posizioni e nel complesso era stato accettato il risultato delle metanalisi pubblicate alla fine degli anni ottanta, che erano alla base della nascita dei programmi di screening.
La principale novità, che ha reso la metanalisi di Gotschze un evento nuovo nella storia della discussione scientifica internazionale è stato il suo impatto mediatico; due grandi giornali, prima il Lancet e poi, più recentemente il British Medical Journal, hanno promosso e dato rilievo al punto di vista contrario allo screening, basato sull’esclusione dalla metanalisi di alcuni trial, in particolare quello più importante, lo studio delle due contee di Tabar, in sostanza, accusato di frode scientifica e senza che venisse presentata alcuna innovativa analisi dei dati.
L’attacco, per di più, solo marginalmente è stato contro la mammografia usata spontaneamente in clinica, ma si è concentrato soprattutto contro i programmi di screening che, specialmente in Gran Bretagna, ma poi in tutta Europa, hanno rappresentato la vera novità della diffusione dello screening mammografico: un’attività clinica di diagnosi precoce divenuta un luogo di incontro tra evidenza scientifica, sanità pubblica, monitoraggio della qualità a livello di popolazione.
A questa potenza di fuoco dei grandi media scientifici, si è aggiunta l’autorevolezza di alcuni clinici inglesi, in particolare Michel Baum, schierato contro lo screening e a favore di un aumento della spesa nel trattamento, sin dal primo rapporto Forrest del 1978 e la firma, seppure contrastata, della metanalisi da parte della Collaborazione Cochrane.
Non si sono modificate le valutazioni di molti autorevoli ricercatori e agenzie scientifiche e in sostanza, non è cambiata la politica della sanità pubblica sugli screening. Sono numerose le successive, autorevoli prese di posizione, come ben ricorda Antonio Ponti nell’intervento già pubblicato in questa discussione, tra cui quella della IARC e dell’US Preventive Task Force. Gotschze o altri del suo gruppo mantengono comunque la loro posizione, non accettano nessun sostanziale confronto e quindi, ormai non c’è discussione tra le diverse parti, come evidenziano chiaramente in una recente lettera Nicholas Wald e Stephen Duffy sul British Medical Journal.
Tutto ciò che viene prodotto da altri non viene neanche citato da Gotschtze e coll. (uso questa abbreviazione per semplificare un gruppo di autori che sostanzialmente sono coautori di tutte le pubblicazioni di questo tipo). I lavori che oggi sono sempre più numerosi e pubblicati da importanti riviste scientifiche sui risultati dei programmi di screening e che analizzano i risultati dei programmi stessi, in termini di riduzione della mortalità osservata e li discutono criticamente, come è usuale nella pratica scientifica, non vengono mai presi in considerazione o sono sostanzialmente respinti, negando credibilità a ciò che vien documentato.
Le affermazioni fatte da Goschtze e coll., come per esempio che esiste un aumento delle mastectomie nei programmi di screening, sono incrollabili, non si modificano qualsiasi lavoro venga pubblicato sui dati dei programmi di screening, n si entra nel merito del dibattito metodologico che è in corso, sulla difficile valutazione della sovradiagnosi nello screening (cioè il rapporto tra anticipazione diagnostica da un lato, casi che non sarebbero comparsi nel corso della vita di una donna dall’altro).
I pochi confronti possibili, come le lettere sui giornali scientifici, non sviluppano alcun reale confronto che scenda nel merito metodologico delle affermazioni fatte.
Si è affermato un modo di affrontare la questione della mammografia che è ideology-driven, cioè si vuole dimostrare quello che a priori si ritiene vero (la mammografia non riduce in maniera significativa la mortalità e comunque, a prezzi di effetti collaterali alti) e per far questo, tutti i lavori degli altri sono da scartare o sono in malafede, perché fatti da autori in conflitto di interesse. Soprattutto, in conflitto di interesse è considerato chi lavora da anni nella sanità pubblica e si occupa di valutare i programmi di screening.
È una storia molto interessante e da studiare ma, a mio parere, assai rischiosa per lo sviluppo del dibattito scientifico e pericolosa per gli aspetti legati alla comunicazione nei confronti delle donne interessate a conoscere il merito della questione. è paragonabile a quanto avvenuto in politica negli anni novanta: non parlo in particolare dell’Italia, ma soprattutto del modo anglosassone, ove si è assistito alla nascita di posizioni contrapposte, partigiane, dove anche chi immagina che sia necessario confrontarsi, non trova più il minimo di condivisione, che in scienza come in politica, è essenziale, per poter discutere sui dati e i risultati. L’ascolto si azzera.
La richiesta che viene fatta da Gianfranco Domenighetti di una impossibile neutralità, promuove, come purtroppo è avvenuto, l’incompetenza metodologica e nasconde la realtà che esistono tanti modi per essere parziali, tra cui la costruzione della propria fama e carriera col farsi paladini della informazione e della indipendenza, ma di fatto, basando la propria verità non sul rigore scientifico, ma sull’autorevolezza del mezzo mediatico che ti promuove.
Un perverso risultato, per cui del tanto lavoro che documenta successi e limiti dei programmi di screening fatto dai ricercatori in Europa e pubblicato su molte riviste scientifiche peer reviewed non parla nessuno, al di fuori degli addetti ai lavori; mentre un articolo sul British Medical Journal, metodologicamente indifendibile, diventa un evento mediatico, a cui gli altri possono solo reagire con interventi che rimangono di nicchia e, come è noto nella nostra società mediatica, mai sono in grado di superare l’impatto della fonte comunicativa primaria.
È la società dei media, la scienza vi è dentro fino al collo e c’è forse poco da fare.
È di certo sorprendente – e penso che una donna rimanga sorpresa – che la prima cosa proposta da G. Domenighetti sia che “è ragionevole rifiutare la mammografia”. È un modo assai paternalista di porre la questione. Ogni pratica in medicina viene proposta usando quel di più che è l’autorevolezza e la specificità interpretativa della fonte, il medico o il servizio pubblico. In tutti i campi della medicina moderna, c’è un movimento, che incontra resistenze ma anche grandi successi, per favorire le scelte consapevoli. Non esiste, io credo, alcun intervento medico che sia in assoluto irragionevole non accettare, neanche l’amputazione di una gamba, nel caso di gangrena diabetica.
Allora, cosa si vuole suggerire? Che l’informazione data sulla mammografia è solo propaganda? Se è così, lo si espliciti.
Chiunque lavora in questo campo riconosce i limiti e le difficoltà ma, nello stesso tempo, rivendica lo sforzo di produzione di dati e di lavoro sulla comunicazione che i gruppi che operano nei programmi di screening mammografico hanno fatto. Prima di tutto, di quale mammografia si parla? Perch Domenighetti non informa le donne che la mammografia è una metodica di screening che può essere offerta in tanti modi? In Italia, esistono i programmi di sanità pubblica e offrono il loro servizio a milioni di donne. Le modalità di invito, inclusa l’informazione, sono state molto studiate e verificate in questi programmi, anche con studi scientifici. Molto c’è da fare, molto è imperfetto, ma posso dire con sicurezza, per avere all’inizio della storia dei programmi di screening seguito da vicino e contribuito a studiare la riflessione sugli aspetti informativi e comunicativi, che è sempre stata contrastata la spinta alla compliance militarista e sempre si è dato ampio spazio alle incertezze e ai dubbi.
A Firenze, nel 1989, quando iniziò il primo programma “pilota”, lo slogan era “Una buona abitudine: un appuntamento con la salute” e metteva al centro l’importanza del controllo periodico, il prestare attenzione a se stesse e al proprio corpo (awareness) e ricordava i problemi dello screening (allora, si parlava soprattutto dei richiami – falsi positivi – e dei cancri di intervallo). Non ovunque le cose sono andate cosi, ma non si può dimenticare il lavoro fatto dalla Regione Emilia Romagna agli inizi degli anni novanta e le successive tante altre occasioni di confronto che ci sono state da allora.
La questione della sovradiagnosi si è posta al centro dell’attenzione nella letteratura scientifica negli anni seguenti- ben prima che la segnalasse Gotschtze- a seguito del diffondersi dello screening prostatico. Era un fenomeno ben noto da tempo, ma a Firenze, all’inizio degli anni anni duemila, il CSPO ebbe la sensibilità di organizzare, nel 2003, una valutazione internazionale a cui parteciparono i maggiori studiosi di tutto il mondo.
La vera cosa irragionevole è sottoporsi a una mammografia senza sapere – e una fonte informativa autorevole come Domenighetti non lo dice- che è necessario verificare se il centro mammografico segue protocolli condivisi da esperti e se è possibile avere accesso a una documentazione dei risultati e degli indicatori di qualità e di dose. Questo è ciò che i programmi di screening, rendendo i dati pubblici (Osservatorio Nazionale Screening), cercano di fare. Anche qui con i limiti di chi fa, rispetto alla bravura di chi predica. Dati che sono un essenziale benchmark per tutti coloro che lavorano negli screening, ma anche la base per l’informazione da dare alle donne.
Criticabili certo, ma da migliorare e da usare, non da ignorare, come per esempio accade nel depliant svizzero. Come si può fare informazione senza ricordare che è documentato in letteratura che lo screening non organizzato, per esempio negli Stati Uniti – e magari in Svizzera- ma anche in Italia, ha performance molto diverse, è meno attento al controllo dei possibili effetti negativi e presta scarsa attenzione al percorso diagnostico terapeutico delle donne in cui venga trovato un tumore?
L’esistenza di rischi legati allo screening non è una scoperta e di essi si trova notizia, sin nel volume di Alan Morrison, il testo in cui nel 1975 sono stati affrontati i problemi metodologici dello studio degli screening in oncologia. Il problema dei falsi positivi è stato sempre al centro della preoccupazione dei programmi di screening di sanità pubblica, che hanno sviluppato protocolli volti a minimizzare questi rischi, pur mantenendo il livello di sensibilità necessario ad ottenere i risultati voluti. Questo approccio è stato molte volte oggetto di critica da parte dei clinici e dei giornalisti, criticata la scelta dell’attenzione alla specificità a fronte della sensibilità, per la possibile conseguenza medico legale, oltre che per i rischi di tumore di intervallo.
Problemi documentati, studiati, analizzati in profondità – ricordo il recente documento sui cancri di intervallo del Ministero della Salute italiano- ma stupisce che non si prenda atto che non sono un problema specifico della mammografia, sono il problema dell’uso della tecnologia in diagnostica. Gianfranco Domenighetti dimentica di consigliare di chiedere verifiche, controlli di qualità, indicatori. Sono problemi su cui viene fatta, per quanto possibile, comunicazione e informazione pubblica, senza nessun tono trionfalistico, da parte di chi si occupa dei programmi di screening di sanità pubblica; purtroppo, le polemiche, come le impostano Gotschtze e Domenighetti, non favoriscono la diffusione di questo attento e continuo controllo della tecnologia medica come metodo di lavoro, anzi distruggono la credibilità di chi si muove in questa direzione.
Le misure. Comunicare quantitativamente i risultati e i danni, come sa chi legge la letteratura sull’argomento, è assai complicato. Nel parlare di screening, le logiche sono diverse da quelle con cui si comunicano i benefici di un trattamento (gli screening hanno caratteristiche di tipo quasi assicurativo, come ben spiegava Peter Sasieni in un suo articolo sul Lancet di qualche anno fa) e riuscire a costruire una comunicazione che faciliti la comprensione dell’informazione è difficile. È complesso mettere a confronto in una valutazione il sottoporsi a una mammografia con le probabilità di morire per tumore della mammella; penso che il problema si capisca al solo leggere questa frase.
Le formule di Domenighetti che ritengono cosi semplice quantificare il beneficio e i rischi dovrebbero almeno avere un qualche grado di umiltà e porsi il problema di cosa significhino questi numeri per una persona, in assenza di un preciso contesto interpretativo che nello specifico ha a che fare con il cancro della mammella.
Io sostengo che i dati riportati da Domenighetti siano sostanzialmente errati, accreditati da un solo gruppo di ricerca e non si confrontano, non solo con i lavori scientifici che hanno rivalutato gli studi clinici controllati, ma anche con i tanti studi osservazionali, basati sui programmi di screening, che oggi stanno dimostrando con sempre maggiore evidenza che lo screening è in grado di raggiungere i benefici voluti, con effetti negativi che possono essere contenuti.
Quali benefici? I calcoli del numero di vite salvate e di casi sovradiagnosticati di Gotzsche -e di conseguenza quelli di Domenighetti- si basano su assunzioni non esplicitamente dichiarate.
La riduzione della mortalità. Gotzsche assume una riduzione di mortalità per tumore della mammella nelle donne sottoposte a screening del 5% – 1 vita salvata ogni 2000 donne sottoposte a screening per 10 anni – e Domenighetti una riduzione di mortalità compresa tra il 5% (0,5 vite salvate ogni mille donne di 50 anni e più sottoposte a screening ogni 2 anni per 10 anni – seguite per quanto tempo ?) ed il 20% (2 vite salvate ogni mille donne sottoposte a screening per 10 anni). è evidente che assumere uno scenario di 10 anni non tiene conto dell’anticipazione diagnostica legata allo screening. Uno scenario di 20 anni, considerando una donna che si sottopone al primo screening tra i 50 e i 54 anni, sembrerebbe molto più comprensibile.
Applicando una riduzione di mortalità del 30%, come proposto da Wald nel dibattito seguito sul BMJ all’articolo di Gotschze (e in accordo con quanto stimato da diverse agenzie internazionali in base ai risultati dei trial), si ottiene una stima di 3 decessi evitati per tumore mammella.
Negli studi caso controllo osservazionali, tra cui quello italiano pubblicato nello studio “Impatto dello screening mammografico”, la riduzione di mortalità per le donne che seguono il protocollo di screening è stata stimata del 45%, che nel caso specifico corrisponde a 4 decessi evitati per tumore della mammella.
Questa riduzione non ha senso compararla con il numero di donne invitate (a tutti è noto che, per fortuna, la larga parte non hanno un tumore e nella maggioranza partecipano proprio per essere rassicurate), bensî con quante donne su 1000 sarebbero decedute in assenza di screening (circa 10).
Un numero di vite salvate almeno da considerare con attenzione. In uno scenario di 20 anni, che è quello più convincente, vi sarebbero – secondo i dati italiani – 9 donne salvate grazie all’essersi sottoposte allo screening, a confronto con 19 decessi attesi per tumore della mammella in assenza di partecipazione allo screening. Un impatto da considerare almeno con attenzione.
La stima della sovradiagnosi. Domenighetti stima che tra 12 e 25 donne (ogni 1000 donne sottoposte a screening per 10 anni) avranno una diagnosi di cancro in situ o invasivo, che non sarebbe emerso clinicamente in assenza di screening. La stima di sovradiagnosi che sta alla base di questo calcolo è inverosimile: qualcosa tra il 65% ed il 240% di sovradiagnosi!!
Ma che i numeri proposti non hanno nessun senso si capisce in un modo molto più semplice: basti pensare che in assenza di screening, in un gruppo di 1000 donne 50-54enni seguite per un periodo di 10 anni, sono attesi circa 20 tumori della mammella (rischio cumulativo del 2%).
In una situazione in cui le 1000 donne effettuano regolarmente il test di screening per 10 anni (con un tasso di identificazione di tumori allo screening del 6 per mille al primo test e del 4 per mille ai test successivi ed 1 cancro di intervallo ogni 1000 donne screenate, parametri usuali nei programmi discreening) sono attesi circa 27 casi di cancro. Per cui, senza neppur tenere in considerazione l’inevitabile aumento di incidenza legato all’anticipazione diagnostica, si dimostra che le stime proposte da Domenighetti di 12-25 cancri sovradiagnosticati non solo non sono credibili, ma addirittura fuori da ogni contesto realistico.
Le stime prodotte sulla base del programma di Firenze, il più antico in Italia e che quindi consente valutazioni su serie temporali adeguate, indicano come probabili valori inferiori al 10% e concordano con le valutazioni di altri sui risultati dei trial randomizzati. Lo studio dell’impatto dello screening mammografico, un grande studio osservazionale che sta portando un contributo valutativo importante su come cambia l’epidemiologia dei tumori in Italia, ha prodotto un lavoro preliminare, pubblicato su Breast Cancer Research, con una stima del 4,5%.
Sulla base dei dati pubblicati dallo studio randomizzato di Malmo, la stima è del 10%, con un numero atteso di 4 casi sovradiagnosticati, quando 1000 donne sottoposte a screening sono seguite per venti anni, l’usuale finestra temporale utilizzata per valutare lo screening. Circa 0,5 casi sovradiagnosticati per ogni morte per tumore della mammella risparmiata.
Sono stime che sicuramente meritano di essere discusse e che possono essere criticate, ma comunque ben lontane da quelle offerte da Goschtze e Domenighetti.
In conclusione, la realtà presentata da Domenighetti si basa solo sulle asserzioni di un gruppo e la sua forza principale è dovuta al fatto che il British Medical Journal, per ragioni di difficile comprensione, appoggia questa linea offrendo ampia e auterovole audience a posizioni che rifiutano il confronto scientifico e si avvalgono soprattutto della potenza dei media. Questo discredito sulla mammografia colpisce principalmente i programmi di sanità pubblica (naturalmente in primo luogo quello inglese) che sono invece, a mio parere, un esempio unico della possibilità di governance di una tecnologia secondo principi di valutazione e di qualità. In tutto si deve migliorare, ma l’attacco di Gotschze, nelle forme subdole che assume nel testo di Domenighetti, mette in realtà in discussione la validità di un approccio di screening dimostrato efficace. Si abbia il coraggio di dirlo, ma anche di argomentarlo nella discussione scientifica non solo con articoli che hanno il favore dei media. Oggi sta cambiando l’epidemiologia del tumore della mammella (si vedano le curve di mortalità inglesi) e valuti chiunque se non ci sia l’indicazione per migliorare, piuttosto che fare arretrare quanto finora fatto.
Le stime di impatto dello screening mammografico sono a cura di Donella Puliti, Epidemiologa dell’ISPO, Firenze.
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Screening mammografico: se lo conosci, lo fai
L’informazione per una scelta consapevole
In questo contesto di mancanza assoluta di governance dell’offerta tecnologica, particolarmente acuta – anche se non esclusiva – in questo settore della prevenzione, è veramente peculiare che si torni a parlare sempre e solo di mammografia di screening.
La mammografia è la tecnologia di diagnosi precoce che ha sicuramente avuto lo sviluppo più virtuoso in accordo ai canoni della evidence based medicine; dagli studi clinici controllati degli anni settanta-ottanta, alle metanalisi e conferenze di consenso che ne hanno sancito l’efficacia nel ridurre la mortalità, alla fine degli anni ottanta, fino al diffondersi del suo utilizzo nella pratica clinica a fini di diagnosi precoce. Ma soprattutto, l’avvio dei programmi di screening di sanità pubblica negli anni ottanta in Gran Bretagna e Svezia con invito attivo della popolazione, ha portato in Europa, nell’ambito di innovativi programmi di sanità pubblica, al coinvolgimento in questa iniziativa di quasi sessanta milioni di donne nella fascia di età compresa tra 50 e 69 anni. Programmi di screening con caratteristiche molto simili e che utilizzano e confrontano indicatori e misure di qualità standardizzate, rese disponibili pubblicamente ormai da decenni.
Voglio premettere la mia posizione. Io ritengo che l’evidenza scientifica che ha sorretto l’introduzione dello screening mammografico sia più che sufficiente, che essa è stata ottenuta con studi di popolazione per molti aspetti condotti in maniera ammirabile, considerando l’esigenza di grandi numeri di donne da coinvolgere e che tali studi sono iniziati prima della diffusione dei computer.
Nel 2000 sul Lancet, in maniera aggressiva e arrogante, Gotschtze, da allora sostanzialmente identificato come esponente del gruppo Cochrane, ha condotto un duro attacco alla dimostrazione di efficacia della mammografia di screening, usando un metodo molto semplice, basato sul sollevare sospetti in larga parte non verificabili sulla conduzione degli studi e amplificando le implicazioni dei problemi esistenti in alcuni trial randomizzati.
La novità del suo risultato consegue alla decisione di scegliere solo gli studi da lui ritenuti di buona qualità e quindi, quali trial escludere dalla metanalisi? Il caso ha voluto (sic) che siano stati esclusi quelli che avevano più evidenti indicazioni di vantaggio per la mammografia.
Si è riaperta una querelle infinita. La discussione su pregi e difetti dei singoli trial randomizzati (8 studi) era già viva da anni e senza segreti per gli addetti ai lavori. Specialmente il trial canadese era stato oggetto di molte critiche e naturalmente, anche di molte difese e cosi gli studi di Tabar; la discussione ormai era considerata inconcludente, cioè ognuno restava sulle proprie posizioni e nel complesso era stato accettato il risultato delle metanalisi pubblicate alla fine degli anni ottanta, che erano alla base della nascita dei programmi di screening.
La principale novità, che ha reso la metanalisi di Gotschze un evento nuovo nella storia della discussione scientifica internazionale è stato il suo impatto mediatico; due grandi giornali, prima il Lancet e poi, più recentemente il British Medical Journal, hanno promosso e dato rilievo al punto di vista contrario allo screening, basato sull’esclusione dalla metanalisi di alcuni trial, in particolare quello più importante, lo studio delle due contee di Tabar, in sostanza, accusato di frode scientifica e senza che venisse presentata alcuna innovativa analisi dei dati.
L’attacco, per di più, solo marginalmente è stato contro la mammografia usata spontaneamente in clinica, ma si è concentrato soprattutto contro i programmi di screening che, specialmente in Gran Bretagna, ma poi in tutta Europa, hanno rappresentato la vera novità della diffusione dello screening mammografico: un’attività clinica di diagnosi precoce divenuta un luogo di incontro tra evidenza scientifica, sanità pubblica, monitoraggio della qualità a livello di popolazione.
A questa potenza di fuoco dei grandi media scientifici, si è aggiunta l’autorevolezza di alcuni clinici inglesi, in particolare Michel Baum, schierato contro lo screening e a favore di un aumento della spesa nel trattamento, sin dal primo rapporto Forrest del 1978 e la firma, seppure contrastata, della metanalisi da parte della Collaborazione Cochrane.
Non si sono modificate le valutazioni di molti autorevoli ricercatori e agenzie scientifiche e in sostanza, non è cambiata la politica della sanità pubblica sugli screening. Sono numerose le successive, autorevoli prese di posizione, come ben ricorda Antonio Ponti nell’intervento già pubblicato in questa discussione, tra cui quella della IARC e dell’US Preventive Task Force. Gotschze o altri del suo gruppo mantengono comunque la loro posizione, non accettano nessun sostanziale confronto e quindi, ormai non c’è discussione tra le diverse parti, come evidenziano chiaramente in una recente lettera Nicholas Wald e Stephen Duffy sul British Medical Journal.
Tutto ciò che viene prodotto da altri non viene neanche citato da Gotschtze e coll. (uso questa abbreviazione per semplificare un gruppo di autori che sostanzialmente sono coautori di tutte le pubblicazioni di questo tipo). I lavori che oggi sono sempre più numerosi e pubblicati da importanti riviste scientifiche sui risultati dei programmi di screening e che analizzano i risultati dei programmi stessi, in termini di riduzione della mortalità osservata e li discutono criticamente, come è usuale nella pratica scientifica, non vengono mai presi in considerazione o sono sostanzialmente respinti, negando credibilità a ciò che vien documentato.
Le affermazioni fatte da Goschtze e coll., come per esempio che esiste un aumento delle mastectomie nei programmi di screening, sono incrollabili, non si modificano qualsiasi lavoro venga pubblicato sui dati dei programmi di screening, n si entra nel merito del dibattito metodologico che è in corso, sulla difficile valutazione della sovradiagnosi nello screening (cioè il rapporto tra anticipazione diagnostica da un lato, casi che non sarebbero comparsi nel corso della vita di una donna dall’altro).
I pochi confronti possibili, come le lettere sui giornali scientifici, non sviluppano alcun reale confronto che scenda nel merito metodologico delle affermazioni fatte.
Si è affermato un modo di affrontare la questione della mammografia che è ideology-driven, cioè si vuole dimostrare quello che a priori si ritiene vero (la mammografia non riduce in maniera significativa la mortalità e comunque, a prezzi di effetti collaterali alti) e per far questo, tutti i lavori degli altri sono da scartare o sono in malafede, perché fatti da autori in conflitto di interesse. Soprattutto, in conflitto di interesse è considerato chi lavora da anni nella sanità pubblica e si occupa di valutare i programmi di screening.
È una storia molto interessante e da studiare ma, a mio parere, assai rischiosa per lo sviluppo del dibattito scientifico e pericolosa per gli aspetti legati alla comunicazione nei confronti delle donne interessate a conoscere il merito della questione. è paragonabile a quanto avvenuto in politica negli anni novanta: non parlo in particolare dell’Italia, ma soprattutto del modo anglosassone, ove si è assistito alla nascita di posizioni contrapposte, partigiane, dove anche chi immagina che sia necessario confrontarsi, non trova più il minimo di condivisione, che in scienza come in politica, è essenziale, per poter discutere sui dati e i risultati. L’ascolto si azzera.
La richiesta che viene fatta da Gianfranco Domenighetti di una impossibile neutralità, promuove, come purtroppo è avvenuto, l’incompetenza metodologica e nasconde la realtà che esistono tanti modi per essere parziali, tra cui la costruzione della propria fama e carriera col farsi paladini della informazione e della indipendenza, ma di fatto, basando la propria verità non sul rigore scientifico, ma sull’autorevolezza del mezzo mediatico che ti promuove.
Un perverso risultato, per cui del tanto lavoro che documenta successi e limiti dei programmi di screening fatto dai ricercatori in Europa e pubblicato su molte riviste scientifiche peer reviewed non parla nessuno, al di fuori degli addetti ai lavori; mentre un articolo sul British Medical Journal, metodologicamente indifendibile, diventa un evento mediatico, a cui gli altri possono solo reagire con interventi che rimangono di nicchia e, come è noto nella nostra società mediatica, mai sono in grado di superare l’impatto della fonte comunicativa primaria.
È la società dei media, la scienza vi è dentro fino al collo e c’è forse poco da fare.
È di certo sorprendente – e penso che una donna rimanga sorpresa – che la prima cosa proposta da G. Domenighetti sia che “è ragionevole rifiutare la mammografia”. È un modo assai paternalista di porre la questione. Ogni pratica in medicina viene proposta usando quel di più che è l’autorevolezza e la specificità interpretativa della fonte, il medico o il servizio pubblico. In tutti i campi della medicina moderna, c’è un movimento, che incontra resistenze ma anche grandi successi, per favorire le scelte consapevoli. Non esiste, io credo, alcun intervento medico che sia in assoluto irragionevole non accettare, neanche l’amputazione di una gamba, nel caso di gangrena diabetica.
Allora, cosa si vuole suggerire? Che l’informazione data sulla mammografia è solo propaganda? Se è così, lo si espliciti.
Chiunque lavora in questo campo riconosce i limiti e le difficoltà ma, nello stesso tempo, rivendica lo sforzo di produzione di dati e di lavoro sulla comunicazione che i gruppi che operano nei programmi di screening mammografico hanno fatto. Prima di tutto, di quale mammografia si parla? Perch Domenighetti non informa le donne che la mammografia è una metodica di screening che può essere offerta in tanti modi? In Italia, esistono i programmi di sanità pubblica e offrono il loro servizio a milioni di donne. Le modalità di invito, inclusa l’informazione, sono state molto studiate e verificate in questi programmi, anche con studi scientifici. Molto c’è da fare, molto è imperfetto, ma posso dire con sicurezza, per avere all’inizio della storia dei programmi di screening seguito da vicino e contribuito a studiare la riflessione sugli aspetti informativi e comunicativi, che è sempre stata contrastata la spinta alla compliance militarista e sempre si è dato ampio spazio alle incertezze e ai dubbi.
A Firenze, nel 1989, quando iniziò il primo programma “pilota”, lo slogan era “Una buona abitudine: un appuntamento con la salute” e metteva al centro l’importanza del controllo periodico, il prestare attenzione a se stesse e al proprio corpo (awareness) e ricordava i problemi dello screening (allora, si parlava soprattutto dei richiami – falsi positivi – e dei cancri di intervallo). Non ovunque le cose sono andate cosi, ma non si può dimenticare il lavoro fatto dalla Regione Emilia Romagna agli inizi degli anni novanta e le successive tante altre occasioni di confronto che ci sono state da allora.
La questione della sovradiagnosi si è posta al centro dell’attenzione nella letteratura scientifica negli anni seguenti- ben prima che la segnalasse Gotschtze- a seguito del diffondersi dello screening prostatico. Era un fenomeno ben noto da tempo, ma a Firenze, all’inizio degli anni anni duemila, il CSPO ebbe la sensibilità di organizzare, nel 2003, una valutazione internazionale a cui parteciparono i maggiori studiosi di tutto il mondo.
La vera cosa irragionevole è sottoporsi a una mammografia senza sapere – e una fonte informativa autorevole come Domenighetti non lo dice- che è necessario verificare se il centro mammografico segue protocolli condivisi da esperti e se è possibile avere accesso a una documentazione dei risultati e degli indicatori di qualità e di dose. Questo è ciò che i programmi di screening, rendendo i dati pubblici (Osservatorio Nazionale Screening), cercano di fare. Anche qui con i limiti di chi fa, rispetto alla bravura di chi predica. Dati che sono un essenziale benchmark per tutti coloro che lavorano negli screening, ma anche la base per l’informazione da dare alle donne.
Criticabili certo, ma da migliorare e da usare, non da ignorare, come per esempio accade nel depliant svizzero. Come si può fare informazione senza ricordare che è documentato in letteratura che lo screening non organizzato, per esempio negli Stati Uniti – e magari in Svizzera- ma anche in Italia, ha performance molto diverse, è meno attento al controllo dei possibili effetti negativi e presta scarsa attenzione al percorso diagnostico terapeutico delle donne in cui venga trovato un tumore?
L’esistenza di rischi legati allo screening non è una scoperta e di essi si trova notizia, sin nel volume di Alan Morrison, il testo in cui nel 1975 sono stati affrontati i problemi metodologici dello studio degli screening in oncologia. Il problema dei falsi positivi è stato sempre al centro della preoccupazione dei programmi di screening di sanità pubblica, che hanno sviluppato protocolli volti a minimizzare questi rischi, pur mantenendo il livello di sensibilità necessario ad ottenere i risultati voluti. Questo approccio è stato molte volte oggetto di critica da parte dei clinici e dei giornalisti, criticata la scelta dell’attenzione alla specificità a fronte della sensibilità, per la possibile conseguenza medico legale, oltre che per i rischi di tumore di intervallo.
Problemi documentati, studiati, analizzati in profondità – ricordo il recente documento sui cancri di intervallo del Ministero della Salute italiano- ma stupisce che non si prenda atto che non sono un problema specifico della mammografia, sono il problema dell’uso della tecnologia in diagnostica. Gianfranco Domenighetti dimentica di consigliare di chiedere verifiche, controlli di qualità, indicatori. Sono problemi su cui viene fatta, per quanto possibile, comunicazione e informazione pubblica, senza nessun tono trionfalistico, da parte di chi si occupa dei programmi di screening di sanità pubblica; purtroppo, le polemiche, come le impostano Gotschtze e Domenighetti, non favoriscono la diffusione di questo attento e continuo controllo della tecnologia medica come metodo di lavoro, anzi distruggono la credibilità di chi si muove in questa direzione.
Le misure. Comunicare quantitativamente i risultati e i danni, come sa chi legge la letteratura sull’argomento, è assai complicato. Nel parlare di screening, le logiche sono diverse da quelle con cui si comunicano i benefici di un trattamento (gli screening hanno caratteristiche di tipo quasi assicurativo, come ben spiegava Peter Sasieni in un suo articolo sul Lancet di qualche anno fa) e riuscire a costruire una comunicazione che faciliti la comprensione dell’informazione è difficile. È complesso mettere a confronto in una valutazione il sottoporsi a una mammografia con le probabilità di morire per tumore della mammella; penso che il problema si capisca al solo leggere questa frase.
Le formule di Domenighetti che ritengono cosi semplice quantificare il beneficio e i rischi dovrebbero almeno avere un qualche grado di umiltà e porsi il problema di cosa significhino questi numeri per una persona, in assenza di un preciso contesto interpretativo che nello specifico ha a che fare con il cancro della mammella.
Io sostengo che i dati riportati da Domenighetti siano sostanzialmente errati, accreditati da un solo gruppo di ricerca e non si confrontano, non solo con i lavori scientifici che hanno rivalutato gli studi clinici controllati, ma anche con i tanti studi osservazionali, basati sui programmi di screening, che oggi stanno dimostrando con sempre maggiore evidenza che lo screening è in grado di raggiungere i benefici voluti, con effetti negativi che possono essere contenuti.
Quali benefici? I calcoli del numero di vite salvate e di casi sovradiagnosticati di Gotzsche -e di conseguenza quelli di Domenighetti- si basano su assunzioni non esplicitamente dichiarate.
La riduzione della mortalità. Gotzsche assume una riduzione di mortalità per tumore della mammella nelle donne sottoposte a screening del 5% – 1 vita salvata ogni 2000 donne sottoposte a screening per 10 anni – e Domenighetti una riduzione di mortalità compresa tra il 5% (0,5 vite salvate ogni mille donne di 50 anni e più sottoposte a screening ogni 2 anni per 10 anni – seguite per quanto tempo ?) ed il 20% (2 vite salvate ogni mille donne sottoposte a screening per 10 anni). è evidente che assumere uno scenario di 10 anni non tiene conto dell’anticipazione diagnostica legata allo screening. Uno scenario di 20 anni, considerando una donna che si sottopone al primo screening tra i 50 e i 54 anni, sembrerebbe molto più comprensibile.
Applicando una riduzione di mortalità del 30%, come proposto da Wald nel dibattito seguito sul BMJ all’articolo di Gotschze (e in accordo con quanto stimato da diverse agenzie internazionali in base ai risultati dei trial), si ottiene una stima di 3 decessi evitati per tumore mammella.
Negli studi caso controllo osservazionali, tra cui quello italiano pubblicato nello studio “Impatto dello screening mammografico”, la riduzione di mortalità per le donne che seguono il protocollo di screening è stata stimata del 45%, che nel caso specifico corrisponde a 4 decessi evitati per tumore della mammella.
Questa riduzione non ha senso compararla con il numero di donne invitate (a tutti è noto che, per fortuna, la larga parte non hanno un tumore e nella maggioranza partecipano proprio per essere rassicurate), bensî con quante donne su 1000 sarebbero decedute in assenza di screening (circa 10).
Un numero di vite salvate almeno da considerare con attenzione. In uno scenario di 20 anni, che è quello più convincente, vi sarebbero – secondo i dati italiani – 9 donne salvate grazie all’essersi sottoposte allo screening, a confronto con 19 decessi attesi per tumore della mammella in assenza di partecipazione allo screening. Un impatto da considerare almeno con attenzione.
La stima della sovradiagnosi. Domenighetti stima che tra 12 e 25 donne (ogni 1000 donne sottoposte a screening per 10 anni) avranno una diagnosi di cancro in situ o invasivo, che non sarebbe emerso clinicamente in assenza di screening. La stima di sovradiagnosi che sta alla base di questo calcolo è inverosimile: qualcosa tra il 65% ed il 240% di sovradiagnosi!!
Ma che i numeri proposti non hanno nessun senso si capisce in un modo molto più semplice: basti pensare che in assenza di screening, in un gruppo di 1000 donne 50-54enni seguite per un periodo di 10 anni, sono attesi circa 20 tumori della mammella (rischio cumulativo del 2%).
In una situazione in cui le 1000 donne effettuano regolarmente il test di screening per 10 anni (con un tasso di identificazione di tumori allo screening del 6 per mille al primo test e del 4 per mille ai test successivi ed 1 cancro di intervallo ogni 1000 donne screenate, parametri usuali nei programmi discreening) sono attesi circa 27 casi di cancro. Per cui, senza neppur tenere in considerazione l’inevitabile aumento di incidenza legato all’anticipazione diagnostica, si dimostra che le stime proposte da Domenighetti di 12-25 cancri sovradiagnosticati non solo non sono credibili, ma addirittura fuori da ogni contesto realistico.
Le stime prodotte sulla base del programma di Firenze, il più antico in Italia e che quindi consente valutazioni su serie temporali adeguate, indicano come probabili valori inferiori al 10% e concordano con le valutazioni di altri sui risultati dei trial randomizzati. Lo studio dell’impatto dello screening mammografico, un grande studio osservazionale che sta portando un contributo valutativo importante su come cambia l’epidemiologia dei tumori in Italia, ha prodotto un lavoro preliminare, pubblicato su Breast Cancer Research, con una stima del 4,5%.
Sulla base dei dati pubblicati dallo studio randomizzato di Malmo, la stima è del 10%, con un numero atteso di 4 casi sovradiagnosticati, quando 1000 donne sottoposte a screening sono seguite per venti anni, l’usuale finestra temporale utilizzata per valutare lo screening. Circa 0,5 casi sovradiagnosticati per ogni morte per tumore della mammella risparmiata.
Sono stime che sicuramente meritano di essere discusse e che possono essere criticate, ma comunque ben lontane da quelle offerte da Goschtze e Domenighetti.
In conclusione, la realtà presentata da Domenighetti si basa solo sulle asserzioni di un gruppo e la sua forza principale è dovuta al fatto che il British Medical Journal, per ragioni di difficile comprensione, appoggia questa linea offrendo ampia e auterovole audience a posizioni che rifiutano il confronto scientifico e si avvalgono soprattutto della potenza dei media. Questo discredito sulla mammografia colpisce principalmente i programmi di sanità pubblica (naturalmente in primo luogo quello inglese) che sono invece, a mio parere, un esempio unico della possibilità di governance di una tecnologia secondo principi di valutazione e di qualità. In tutto si deve migliorare, ma l’attacco di Gotschze, nelle forme subdole che assume nel testo di Domenighetti, mette in realtà in discussione la validità di un approccio di screening dimostrato efficace. Si abbia il coraggio di dirlo, ma anche di argomentarlo nella discussione scientifica non solo con articoli che hanno il favore dei media. Oggi sta cambiando l’epidemiologia del tumore della mammella (si vedano le curve di mortalità inglesi) e valuti chiunque se non ci sia l’indicazione per migliorare, piuttosto che fare arretrare quanto finora fatto.
Le stime di impatto dello screening mammografico sono a cura di Donella Puliti, Epidemiologa dell’ISPO, Firenze.
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