Quanto della tua esperienza di scrittura con i ragazzi emerge quando ti rivolgi loro attraverso le tue storie?
Scrivere per ragazzi mi impone una dominante di carattere narrativo che è legata alla storia e alla sua coerenza. Una ricerca finalizzata principalmente a uno stile linguistico non avrebbe senso, anche se – certo – lo stile di scrittura è una caratteristica che un autore cerca di definire. Però, prima di tutto c’è da creare un mondo narrativo.
Scrivere per bambini e ragazzi non significa, comunque, imitare le loro modalità di linguaggio e di espressione e, dunque, non cerco mai di scrivere come scriverebbero i bambini né penso che scrivere per un lettore giovane o giovanissimo significhi automaticamente semplificare il linguaggio.
Il grande vantaggio è che so a chi mi sto rivolgendo, anche se mi diverto a lanciare il sasso un po’ più avanti e mi piace a volte “complicare” la situazione.
C’è una cosa poi che mi ha aiutato nello scrivere per i bambini: la certezza che qualunque difficoltà di tipo linguistico, qualunque singolarità, viene accolta dai ragazzi come una sfida.
Ad esempio?
Nella trilogia di Merlino (il terzo romanzo sarà in libreria a Natale) uso un linguaggio di forte connotazione “retorica” perché l’ambiente linguistico in cui si muovono i miei personaggi è fatto di termini oggi in parte desueti e per lo più poco praticati da bambini e ragazzi; mi prendo la libertà di usare la punteggiatura senza rispettarne i canoni consueti perché punti, virgole e altro sono elementi necessari a dar ritmo alla storia, all’incalzare degli eventi, alle descrizioni, alle emozioni e, spesso, l’uso della punteggiatura deve essere disobbediente alle regole per essere “obbediente” alla narrazione. Agli occhi degli insegnanti questa scelta è vista frequentemente come una anomalia negativa, mentre i ragazzi che leggono i libri apprezzano l’utilizzo di una punteggiatura che non è dipendente dalle regole codificate.
Tuttavia sarebbe un errore scrivere come scriverebbero i bambini, pensando che per loro questa possa essere la dimensione più azzeccata: i ragazzi-lettori sono gli interlocutori ma questo deve condizionare la scrittura di un autore solo in funzione della narrazione. Un adulto che imitasse le espressioni e lo stile di scrittura di un bambino risulterebbe irrimediabilmente finto.
“Scrivere con i bambini” invece sembra significare, per la scuola, mettere da parte la penna rossa per recuperare il piacere dell’invenzione e superare le diffidenze del bambino nello scrivere…
In parte sì, ma la cosa essenziale è non essere ideologici neanche in questo. Si tratta, infatti, di un’esperienza che deve tenere conto comunque della presenza di una struttura scolastica che ha l’obiettivo di istruire. Un insegnante ha la prerogativa di utilizzare tutte le strategie e gli strumenti disponibili per ottenere alla fine del quinquennio di scuola primaria la padronanza della lingua scritta e parlata a un livello standard: senza errori di ortografia, o per lo meno con una quantità modesta di errori.
Detto questo, anche all’interno delle strategie didattiche della scuola ci possono essere delle zone franche. Se la scuola lavora sull’ortografia e il lessico con strumenti classici, come schedari e manuali, può permettersi anche di lavorare su altre caratteristiche dei ragazzi, come l’espressività e la capacità di narrare il loro mondo immaginario attraverso la scrittura, senza porsi come obiettivo primario quello di intervenire sulla componente ortografica e lessicale.
Manualistica da una parte e scrittura creativa dall’altra, dunque?
Nei bambini, soprattutto nella fascia di età che va dai sei ai dieci anni, c’è una tale voglia di esplorazione e di invenzione nel rapporto con il linguaggio che questo diventa non solo un ponte per la conoscenza del mondo ma anche un modo per farsi conoscere. Esplorazione, divertimento, rincorsa delle parole sono caratteristiche che subirebbero una continua censura se le si guardasse con il misuratore della scuola. In questo modo si impedirebbe ai ragazzi di arrivare a quello che uno scrittore, scrivendo come gli pare, rivendica come risorsa di identità e di stile narrativo. Un esempio è Gabriel García Márquez che si è inventato un modo di raccontare, fino ad arrivare a scrivere un libro in cui la punteggiatura obbediva alle regole dell’autore, a volte “vagando”, a volte scomparendo del tutto.
Dunque da un lato vi è l’adulto che avendo alle spalle una struttura lessicale, grammaticale, ortografica consolidata si può permettere di destrutturarla; dall’altro vi è il bambino che sta imparando e che lo fa “in toto”, senza distinguere tra regole grammaticali ed espressività. Sbaglieremmo se offrissimo ai bambini solo uno studio organico di strutture linguistiche, grammaticali, narrative. Sbaglieremmo anche se non lo aiutassimo ad organizzare il sapere secondo classificazioni e catalogazioni. Però, l’errore educativo da evitare è offrirgli uno studio della lingua, scritta e orale, che sia privato della possibilità di arricchirsi ed esprimersi attraverso l’immaginazione, l’invenzione e la fantasia.
Didattica e creatività sono due percorsi che possono procedere insieme, senza intralciarsi né mortificarsi sia negli obiettivi sia nei risultati.
Non serve porre in conflitto errore e correzione nella storia, ma “bisogna rispettare il patto di creatività – comincia il racconto, inizia il viaggio, si aprono mondi…” , come si sostiene nel libro “Scrivere con i bambini”…
È necessario offrire ai ragazzi una zona franca in cui mentre si scrive o si inventa non è presente una supervisione censoria che mette un voto, si elimina il problema della misurazione delle “abilità acquisite” e si prende, come codice condiviso, la struttura di una storia, la creazione dei personaggi, la coerenza tra le vicende, i comportamenti dei protagonisti e così via. Questo significa creare uno spazio di libertà espressiva per il bambino e per l’adulto che, lavorando con lui, scopre e segue un fluire di espressione, una costruzione del linguaggio, un modo di interpretare e organizzare il mondo che altrimenti non avrebbe modo di conoscere. Questo non significa, per la scuola, metter da parte l’obbligo di essere anche un luogo di istruzione e di educazione.
Il rapporto con il raccontare inizia con un forte senso della storia che predomina ed esiste anche nei più piccoli. Quando è che il bambino si pone la questione dell’ortografia e del lessico?
Vi è una fase molto precoce in cui i bambini inventano la scrittura: prendono la matita e imitano l’adulto che scrive, fanno dei segni. La cosa stupefacente è che se gli si chiede cosa hanno scritto sono in grado di dirtelo: vanno a capo, indicano segni di punteggiatura e identificano parole. Cosa significa questo? Che stanno facendo riferimento ad un modello di scrittura che in quella fase è in una dimensione di immaginazione e invenzione, in cui interviene anche la capacità di narrare una storia. Si tratta di una dimensione che poi i bambini abbandonano perché capiscono che esiste una struttura – alfabeto, punteggiatura, etc. – che è organizzata su regole condivise e quel linguaggio comune a tutti gli interessa. Però, anche quando hanno imparato le prime partiture alfabetiche, l’investimento narrativo dei bambini resta dominante e va salvaguardato.
I bambini, a scuola, se liberati dal peso di essere valutati, scrivono moltissimo e felicemente. Spesso, soprattutto con i più piccoli, ci si trova di fronte a chilometri di parole che descrivono fatti, incontri, dialoghi, in cui è difficile orientarsi, per l’abbondante assenza di punteggiatura e di ortografia corretta. Capita, così, che di tanta ricchezza narrativa un adulto non possa godere perché, francamente, illeggibile. Capita anche nella esperienza di scrittura che coordino all’Istituto Parco di Veio. Allora, se l’obiettivo dei bambini è farsi leggere, godere del piacere del lettore nello scoprire le novità e le sorprese del tuo testo, i bambini sono disposti a rimettere le mani sul loro scritto e a faticarci parecchio, per ottenere un testo piacevole, leggibile, in cui si riconoscano come autori ma che consenta anche al lettore di godersi la storia. I bambini, allora, chiedono aiuto per esprimersi al meglio e con chiarezza. Ed è allora che punteggiatura e arricchimento lessicale consolidano il loro significato.
È uno scambio che funziona in una dimensione di creatività complice, in cui si crea un patto tra bambino e adulto: l’uno mette la storia, l’altro lo aiuta a utilizzare gli strumenti che possono aiutare ad arricchire e costruire meglio quella storia.
Proprio in quest’ottica di scambio, l’ultimo progetto di scrittura con i bambini ha arricchito “i grandi” di una scoperta: i bambini usano magistralmente il dialogo così ostico agli adulti. In che modo? Come mai?
Un adulto che insegna ha due sovrastrutture con le quali fare i conti: essere adulto e essere insegnante. È cresciuto imparando un modello di espressività e comunicazione scritta, soprattutto quella narrativa, che si rifà ai canoni del grande romanzo ottocentesco. Dunque, tra le priorità della scrittura e le caratteristiche del bello scrivere, contempla il saper fare delle belle descrizioni, usare molti aggettivi, saper usare bene delle coordinate. Il narrare attraverso i dialoghi è poco considerato, forse perché molto legato al cinema, alla televisione. La scrittura si trova a sottostare ad un modello di catalogazione codificato, funzionante, consolidato, però un po’ retrodatato, che segnala anche un fatto grave, che riguarda gli insegnanti e un po’ tutti gli adulti italiani: si legge pochissimo e di letteratura contemporanea ancora meno. Manca, nell’acquisizione di un insegnante, l’idea che ci possa essere una modalità di scrittura dei bambini (e non solo la loro), che disobbedisca ad un canone dato per scontato.
Senza tener conto che il panorama culturale di riferimento per i bambini di oggi è completamente diverso?
I ragazzi sono cresciuti con televisione, computer, fumetti, cartoni animati… dunque la loro modalità espressiva è fatta di flash, puzzle, pezzi isolati che si mettono insieme con coerenza. A questo si aggiunge che, per i bambini, la capacità di esprimersi attraverso le parole è una conquista. Il racconto di un bambino di sei anni somiglia infatti ad una striscia di un fumetto, è fatto di pezzi isolati: si mettono insieme delle categorie temporali frutto di uno sforzo di ricomposizione linguistica e concettuale che è comunque gravoso. Spesso raccontano in un quadro singolo una lunga sequenza, mettendoci dentro tanti elementi. Il modo di parlare di un bambino è netto e vi è la tendenza a raccontare una vicenda o un fatto esclusivamente attraverso il dialogo. Si tratta però di un patrimonio importante, una modalità narrativa che anche grandi scrittori contemporanei utilizzano. Basta pensare agli autori americani, inglesi o irlandesi dell’ultima generazione – Dave Eggers o Roddy Doyle – che scrivono intere pagine di dialogo; che raccontano attraverso il dialogo. Per i bambini questo viene naturale, anche se gli insegnanti considerano spesso questo aspetto come il segnale di una povertà linguistica da arricchire. Nel nostro caso abbiamo lavorato e insistito tantissimo proprio perché il dialogo apparisse per quello che era: una modalità narrativa con una sua completezza, una sua dignità e una sua forza. Che se ben fatto non ha bisogno di alcun arricchimento né di aggettivi, né di avverbi, né di coordinate. È una modalità di narrazione.
Per arrivare a questo siamo passati attraverso varie letture, abbiamo fatto un incontro con un autore radiofonico e televisivo che ha spiegato, testi e registrazioni alla mano, che cosa significhi raccontare attraverso il dialogo, quindi attraverso una sceneggiatura.

Avete intrapreso un percorso che autorizzasse le insegnanti a rompere certi codici?
Anche le insegnanti hanno scoperto il piacere di riuscire a raccontare con una o due pagine di dialogo. Portare quest’esperienza nelle classi è stato molto facile e ai bambini non è stato necessario spiegare nulla. Nel libro che è uscito quest’anno, una storia di fantascienza che si chiama “Il tesoro dei Mille Mondi” (Fazi Editore), ci sono molte parti risolte con il dialogo, per scelta consapevole e felicità di scrittura.
La cornice di riferimento didattica in uso è fondamentale, ma una volta consolidata ci si può anche permettere di romperla per aprirla a nuove possibilità.
Che sembrano arricchire ragazzi e insegnanti?
Si arricchisce la scuola di vivacità e voglia di scoperta che fortunatamente hanno contaminato anche le insegnanti che hanno così imparato a prendersi la libertà di inserire tra le letture professionali anche i romanzi.
Sempre a proposito di schemi consolidati, la letteratura nordica ha dato un importante contributo nell’alleggerire il fardello pedagogico che ha caratterizzato la letteratura per bambini in Italia. Cosa ne pensa?
Credo che gli autori scandinavi e anche anglosassoni, e in Italia Gianni Rodari, ci abbiano reso un grosso servigio. In Italia c’era e c’è ancora la tendenza ad esser molto prescrittivi, ma i bambini si annoiano dei messaggi didascalici e pedagogici. La letteratura scandinava e anglosassone ci hanno liberato dal problema del bene e del male, ci hanno affrancato dal problema del “messaggio”.
In Italia, Rodari stesso ha fatto un percorso molto interessante. Se il primissimo Rodari è ancora pedagogico, si preoccupa di spiegarti il mondo, di darti modelli positivi, un messaggio, poi per fortuna nella sua naturale evoluzione di autore e di scrittore si è liberato di questi vincoli e ha scritto le filastrocche, novelle fatte a macchina, la filastrocca di Pinocchio, infischiandosene del messaggio.
Si tratta di un passaggio essenziale per chi scrive per ragazzi. La narrativa, infatti, deve fare in modo che si entri nel mondo parallelo che si nasconde dietro lo specchio. È perfetta la metafora costruita da Lewis Carroll, Alice che va al di là dello specchio accede a un mondo parallelo, dove tutto può accadere. Anche con i libri bisogna fare in modo che i bambini possano passare al di là dello specchio.
Non c’è il bisogno di esplicitare nessun messaggio?
Credo che oggi porsi questo problema sia abbastanza fine a se stesso, un non–problema. Inevitabilmente, ogni autore scrive mettendo nelle storie i suoi valori, i suoi riferimenti, la sua morale. Nel mio romanzo “La scelta” (Sinnos Editrice) ho raccontato la storia di un quattordicenne che vive in un quartiere palermitano, che fa spaccio di droga e poi si trova coinvolto in un omicidio. È ovvio che, per me, questa vicenda ha un senso, un significato: la possibilità, per un quattordicenne, anche nella condizione più dura e ostile, di cambiare la propria vita e il proprio futuro. Il messaggio c’è, ma nello scrivere la storia non mi sono posta questo problema, avevo altre priorità: connotare il protagonista, creare un mondo narrativo in cui gesti, incontri, fatti fossero coerenti con le psicologie e con gli ambienti, scrivere in modo da mantenere ritmo e non appesantire la lettura.
Se a monte mi fossi detta: questa è la storia edificante di un ragazzo che potrebbe essere un delinquente invece diventa un collaboratore della polizia e si sceglie un’altra vita… beh, non avrei neppure cominciato oppure avrei scritto una vicenda didascalica, che non sarebbe piaciuta nemmeno a me.
6 settembre 2006
Laureata in Pedagogia, Luisa Mattia è insegnante, giornalista pubblicista e scrittrice. Scrive romanzi per ragazzi ed è coautrice dei testi per la trasmissione televisiva "Melevisione" (Rai 3). Ha ideato e coordina, in collaborazione con le insegnanti dell’Istituto Comprensivo “Parco di Veio”, il progetto “Edizioni dei bambini” che ha portato alla pubblicazione (con Fazi Editore) di 14 libri di narrativa scritti e illustrati dai bambini stessi. Il lavoro di quest’anno è un romanzo di fantascienza, intitolato "Il tesoro dei Mille Mondi". Per La Meridiana ha scritto (in collaborazione con Janna Carioli), “Scrivere con i bambini, percorsi di scrittura creativa per la scuola” . |
In primo piano
Scrivere con i giovani, scordando la penna rossa
Scrivere per ragazzi mi impone una dominante di carattere narrativo che è legata alla storia e alla sua coerenza. Una ricerca finalizzata principalmente a uno stile linguistico non avrebbe senso, anche se – certo – lo stile di scrittura è una caratteristica che un autore cerca di definire. Però, prima di tutto c’è da creare un mondo narrativo.
Scrivere per bambini e ragazzi non significa, comunque, imitare le loro modalità di linguaggio e di espressione e, dunque, non cerco mai di scrivere come scriverebbero i bambini né penso che scrivere per un lettore giovane o giovanissimo significhi automaticamente semplificare il linguaggio.
Il grande vantaggio è che so a chi mi sto rivolgendo, anche se mi diverto a lanciare il sasso un po’ più avanti e mi piace a volte “complicare” la situazione.
C’è una cosa poi che mi ha aiutato nello scrivere per i bambini: la certezza che qualunque difficoltà di tipo linguistico, qualunque singolarità, viene accolta dai ragazzi come una sfida.
Ad esempio?
Nella trilogia di Merlino (il terzo romanzo sarà in libreria a Natale) uso un linguaggio di forte connotazione “retorica” perché l’ambiente linguistico in cui si muovono i miei personaggi è fatto di termini oggi in parte desueti e per lo più poco praticati da bambini e ragazzi; mi prendo la libertà di usare la punteggiatura senza rispettarne i canoni consueti perché punti, virgole e altro sono elementi necessari a dar ritmo alla storia, all’incalzare degli eventi, alle descrizioni, alle emozioni e, spesso, l’uso della punteggiatura deve essere disobbediente alle regole per essere “obbediente” alla narrazione. Agli occhi degli insegnanti questa scelta è vista frequentemente come una anomalia negativa, mentre i ragazzi che leggono i libri apprezzano l’utilizzo di una punteggiatura che non è dipendente dalle regole codificate.
Tuttavia sarebbe un errore scrivere come scriverebbero i bambini, pensando che per loro questa possa essere la dimensione più azzeccata: i ragazzi-lettori sono gli interlocutori ma questo deve condizionare la scrittura di un autore solo in funzione della narrazione. Un adulto che imitasse le espressioni e lo stile di scrittura di un bambino risulterebbe irrimediabilmente finto.
“Scrivere con i bambini” invece sembra significare, per la scuola, mettere da parte la penna rossa per recuperare il piacere dell’invenzione e superare le diffidenze del bambino nello scrivere…
In parte sì, ma la cosa essenziale è non essere ideologici neanche in questo. Si tratta, infatti, di un’esperienza che deve tenere conto comunque della presenza di una struttura scolastica che ha l’obiettivo di istruire. Un insegnante ha la prerogativa di utilizzare tutte le strategie e gli strumenti disponibili per ottenere alla fine del quinquennio di scuola primaria la padronanza della lingua scritta e parlata a un livello standard: senza errori di ortografia, o per lo meno con una quantità modesta di errori.
Detto questo, anche all’interno delle strategie didattiche della scuola ci possono essere delle zone franche. Se la scuola lavora sull’ortografia e il lessico con strumenti classici, come schedari e manuali, può permettersi anche di lavorare su altre caratteristiche dei ragazzi, come l’espressività e la capacità di narrare il loro mondo immaginario attraverso la scrittura, senza porsi come obiettivo primario quello di intervenire sulla componente ortografica e lessicale.
Manualistica da una parte e scrittura creativa dall’altra, dunque?
Nei bambini, soprattutto nella fascia di età che va dai sei ai dieci anni, c’è una tale voglia di esplorazione e di invenzione nel rapporto con il linguaggio che questo diventa non solo un ponte per la conoscenza del mondo ma anche un modo per farsi conoscere. Esplorazione, divertimento, rincorsa delle parole sono caratteristiche che subirebbero una continua censura se le si guardasse con il misuratore della scuola. In questo modo si impedirebbe ai ragazzi di arrivare a quello che uno scrittore, scrivendo come gli pare, rivendica come risorsa di identità e di stile narrativo. Un esempio è Gabriel García Márquez che si è inventato un modo di raccontare, fino ad arrivare a scrivere un libro in cui la punteggiatura obbediva alle regole dell’autore, a volte “vagando”, a volte scomparendo del tutto.
Dunque da un lato vi è l’adulto che avendo alle spalle una struttura lessicale, grammaticale, ortografica consolidata si può permettere di destrutturarla; dall’altro vi è il bambino che sta imparando e che lo fa “in toto”, senza distinguere tra regole grammaticali ed espressività. Sbaglieremmo se offrissimo ai bambini solo uno studio organico di strutture linguistiche, grammaticali, narrative. Sbaglieremmo anche se non lo aiutassimo ad organizzare il sapere secondo classificazioni e catalogazioni. Però, l’errore educativo da evitare è offrirgli uno studio della lingua, scritta e orale, che sia privato della possibilità di arricchirsi ed esprimersi attraverso l’immaginazione, l’invenzione e la fantasia.
Didattica e creatività sono due percorsi che possono procedere insieme, senza intralciarsi né mortificarsi sia negli obiettivi sia nei risultati.
È necessario offrire ai ragazzi una zona franca in cui mentre si scrive o si inventa non è presente una supervisione censoria che mette un voto, si elimina il problema della misurazione delle “abilità acquisite” e si prende, come codice condiviso, la struttura di una storia, la creazione dei personaggi, la coerenza tra le vicende, i comportamenti dei protagonisti e così via. Questo significa creare uno spazio di libertà espressiva per il bambino e per l’adulto che, lavorando con lui, scopre e segue un fluire di espressione, una costruzione del linguaggio, un modo di interpretare e organizzare il mondo che altrimenti non avrebbe modo di conoscere. Questo non significa, per la scuola, metter da parte l’obbligo di essere anche un luogo di istruzione e di educazione.
Il rapporto con il raccontare inizia con un forte senso della storia che predomina ed esiste anche nei più piccoli. Quando è che il bambino si pone la questione dell’ortografia e del lessico?
Vi è una fase molto precoce in cui i bambini inventano la scrittura: prendono la matita e imitano l’adulto che scrive, fanno dei segni. La cosa stupefacente è che se gli si chiede cosa hanno scritto sono in grado di dirtelo: vanno a capo, indicano segni di punteggiatura e identificano parole. Cosa significa questo? Che stanno facendo riferimento ad un modello di scrittura che in quella fase è in una dimensione di immaginazione e invenzione, in cui interviene anche la capacità di narrare una storia. Si tratta di una dimensione che poi i bambini abbandonano perché capiscono che esiste una struttura – alfabeto, punteggiatura, etc. – che è organizzata su regole condivise e quel linguaggio comune a tutti gli interessa. Però, anche quando hanno imparato le prime partiture alfabetiche, l’investimento narrativo dei bambini resta dominante e va salvaguardato.
I bambini, a scuola, se liberati dal peso di essere valutati, scrivono moltissimo e felicemente. Spesso, soprattutto con i più piccoli, ci si trova di fronte a chilometri di parole che descrivono fatti, incontri, dialoghi, in cui è difficile orientarsi, per l’abbondante assenza di punteggiatura e di ortografia corretta. Capita, così, che di tanta ricchezza narrativa un adulto non possa godere perché, francamente, illeggibile. Capita anche nella esperienza di scrittura che coordino all’Istituto Parco di Veio. Allora, se l’obiettivo dei bambini è farsi leggere, godere del piacere del lettore nello scoprire le novità e le sorprese del tuo testo, i bambini sono disposti a rimettere le mani sul loro scritto e a faticarci parecchio, per ottenere un testo piacevole, leggibile, in cui si riconoscano come autori ma che consenta anche al lettore di godersi la storia. I bambini, allora, chiedono aiuto per esprimersi al meglio e con chiarezza. Ed è allora che punteggiatura e arricchimento lessicale consolidano il loro significato.
È uno scambio che funziona in una dimensione di creatività complice, in cui si crea un patto tra bambino e adulto: l’uno mette la storia, l’altro lo aiuta a utilizzare gli strumenti che possono aiutare ad arricchire e costruire meglio quella storia.
Proprio in quest’ottica di scambio, l’ultimo progetto di scrittura con i bambini ha arricchito “i grandi” di una scoperta: i bambini usano magistralmente il dialogo così ostico agli adulti. In che modo? Come mai?
Un adulto che insegna ha due sovrastrutture con le quali fare i conti: essere adulto e essere insegnante. È cresciuto imparando un modello di espressività e comunicazione scritta, soprattutto quella narrativa, che si rifà ai canoni del grande romanzo ottocentesco. Dunque, tra le priorità della scrittura e le caratteristiche del bello scrivere, contempla il saper fare delle belle descrizioni, usare molti aggettivi, saper usare bene delle coordinate. Il narrare attraverso i dialoghi è poco considerato, forse perché molto legato al cinema, alla televisione. La scrittura si trova a sottostare ad un modello di catalogazione codificato, funzionante, consolidato, però un po’ retrodatato, che segnala anche un fatto grave, che riguarda gli insegnanti e un po’ tutti gli adulti italiani: si legge pochissimo e di letteratura contemporanea ancora meno. Manca, nell’acquisizione di un insegnante, l’idea che ci possa essere una modalità di scrittura dei bambini (e non solo la loro), che disobbedisca ad un canone dato per scontato.
Senza tener conto che il panorama culturale di riferimento per i bambini di oggi è completamente diverso?
I ragazzi sono cresciuti con televisione, computer, fumetti, cartoni animati… dunque la loro modalità espressiva è fatta di flash, puzzle, pezzi isolati che si mettono insieme con coerenza. A questo si aggiunge che, per i bambini, la capacità di esprimersi attraverso le parole è una conquista. Il racconto di un bambino di sei anni somiglia infatti ad una striscia di un fumetto, è fatto di pezzi isolati: si mettono insieme delle categorie temporali frutto di uno sforzo di ricomposizione linguistica e concettuale che è comunque gravoso. Spesso raccontano in un quadro singolo una lunga sequenza, mettendoci dentro tanti elementi. Il modo di parlare di un bambino è netto e vi è la tendenza a raccontare una vicenda o un fatto esclusivamente attraverso il dialogo. Si tratta però di un patrimonio importante, una modalità narrativa che anche grandi scrittori contemporanei utilizzano. Basta pensare agli autori americani, inglesi o irlandesi dell’ultima generazione – Dave Eggers o Roddy Doyle – che scrivono intere pagine di dialogo; che raccontano attraverso il dialogo. Per i bambini questo viene naturale, anche se gli insegnanti considerano spesso questo aspetto come il segnale di una povertà linguistica da arricchire. Nel nostro caso abbiamo lavorato e insistito tantissimo proprio perché il dialogo apparisse per quello che era: una modalità narrativa con una sua completezza, una sua dignità e una sua forza. Che se ben fatto non ha bisogno di alcun arricchimento né di aggettivi, né di avverbi, né di coordinate. È una modalità di narrazione.
Per arrivare a questo siamo passati attraverso varie letture, abbiamo fatto un incontro con un autore radiofonico e televisivo che ha spiegato, testi e registrazioni alla mano, che cosa significhi raccontare attraverso il dialogo, quindi attraverso una sceneggiatura.
Avete intrapreso un percorso che autorizzasse le insegnanti a rompere certi codici?
Anche le insegnanti hanno scoperto il piacere di riuscire a raccontare con una o due pagine di dialogo. Portare quest’esperienza nelle classi è stato molto facile e ai bambini non è stato necessario spiegare nulla. Nel libro che è uscito quest’anno, una storia di fantascienza che si chiama “Il tesoro dei Mille Mondi” (Fazi Editore), ci sono molte parti risolte con il dialogo, per scelta consapevole e felicità di scrittura.
La cornice di riferimento didattica in uso è fondamentale, ma una volta consolidata ci si può anche permettere di romperla per aprirla a nuove possibilità.
Che sembrano arricchire ragazzi e insegnanti?
Si arricchisce la scuola di vivacità e voglia di scoperta che fortunatamente hanno contaminato anche le insegnanti che hanno così imparato a prendersi la libertà di inserire tra le letture professionali anche i romanzi.
Sempre a proposito di schemi consolidati, la letteratura nordica ha dato un importante contributo nell’alleggerire il fardello pedagogico che ha caratterizzato la letteratura per bambini in Italia. Cosa ne pensa?
Credo che gli autori scandinavi e anche anglosassoni, e in Italia Gianni Rodari, ci abbiano reso un grosso servigio. In Italia c’era e c’è ancora la tendenza ad esser molto prescrittivi, ma i bambini si annoiano dei messaggi didascalici e pedagogici. La letteratura scandinava e anglosassone ci hanno liberato dal problema del bene e del male, ci hanno affrancato dal problema del “messaggio”.
In Italia, Rodari stesso ha fatto un percorso molto interessante. Se il primissimo Rodari è ancora pedagogico, si preoccupa di spiegarti il mondo, di darti modelli positivi, un messaggio, poi per fortuna nella sua naturale evoluzione di autore e di scrittore si è liberato di questi vincoli e ha scritto le filastrocche, novelle fatte a macchina, la filastrocca di Pinocchio, infischiandosene del messaggio.
Si tratta di un passaggio essenziale per chi scrive per ragazzi. La narrativa, infatti, deve fare in modo che si entri nel mondo parallelo che si nasconde dietro lo specchio. È perfetta la metafora costruita da Lewis Carroll, Alice che va al di là dello specchio accede a un mondo parallelo, dove tutto può accadere. Anche con i libri bisogna fare in modo che i bambini possano passare al di là dello specchio.
Credo che oggi porsi questo problema sia abbastanza fine a se stesso, un non–problema. Inevitabilmente, ogni autore scrive mettendo nelle storie i suoi valori, i suoi riferimenti, la sua morale. Nel mio romanzo “La scelta” (Sinnos Editrice) ho raccontato la storia di un quattordicenne che vive in un quartiere palermitano, che fa spaccio di droga e poi si trova coinvolto in un omicidio. È ovvio che, per me, questa vicenda ha un senso, un significato: la possibilità, per un quattordicenne, anche nella condizione più dura e ostile, di cambiare la propria vita e il proprio futuro. Il messaggio c’è, ma nello scrivere la storia non mi sono posta questo problema, avevo altre priorità: connotare il protagonista, creare un mondo narrativo in cui gesti, incontri, fatti fossero coerenti con le psicologie e con gli ambienti, scrivere in modo da mantenere ritmo e non appesantire la lettura.
Se a monte mi fossi detta: questa è la storia edificante di un ragazzo che potrebbe essere un delinquente invece diventa un collaboratore della polizia e si sceglie un’altra vita… beh, non avrei neppure cominciato oppure avrei scritto una vicenda didascalica, che non sarebbe piaciuta nemmeno a me.