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Statine: curare il colesterolo o il paziente?

Le nuove linee guida dell’American College Cardiology e dell’American Heart Association (ACC/AHA) sulla gestione del colesterolo in prevenzione cardiovascolare sono oggetto di discussione. Come considera il messaggio di fondo che gli autori delle linee guida vogliono dare cioè che “non si deve curare il colesterolo ma il paziente”?

È un messaggio senz’altro condivisibile ma banale fino a essere lapalissiano. I medici moderni sanno bene, infatti, cosa significa un approccio olistico al paziente, la cui salute è il fine ultimo e fondamentale delle nostre cure. Non sembra però corretto, allora, usare quest’affermazione in modo da sostenere implicitamente che le altre linee guida, e in particolare quelle europee sulle dislipidemie del 2011 e sulla prevenzione cardiovascolare del 2012, non prendono in considerazione i pazienti ma piuttosto la loro colesterolemia LDL. Questa contrapposizione in realtà semplicemente non sussiste, perché anche le nostre linee guida della Società Europea di Cardiologia e della Società Europea dell’Aterosclerosi (ESC/EAS) partono dai pazienti, che vengono suddivisi sulla base delle loro caratteristiche cliniche nei gruppi a rischio molto alto, alto, moderato e basso. Anche secondo le linee guida europee è solo dopo che si è provveduto a una adeguata stratificazione del rischio che si interviene con la terapia farmacologica, fondamentalmente quella con statine; l’uso dei target in fondo è un modo pratico per sottolineare che quanto più elevato è il rischio, tanto più intensivo deve essere il trattamento, come ci ha ormai bene insegnato la cardiologia preventiva. Con questi presupposti, non appare quindi giusto inquadrare le linee guida europee come fondate sulla colesterolemia e non sul paziente.

Le nuove raccomandazioni statunitensi si discostano dalle precedenti perché non si concentrano su specifici target di colesterolo LDL ma sulla definizione dei gruppi per cui la riduzione dell’LDL si è dimostrata più vantaggiosa. Neil J. Stone, presidente della task force delle linee guida ACC/AHA ha commentato che “La nuova linea guida si basa sulle evidenze della migliore qualità scientifica per concentrare il trattamento dell’ipercolesterolemia su coloro che possono beneficiarne di più”. Condividete questo approccio?

Premesso che è innegabile che l’obiettivo della terapia con statine deve essere ridurre il rischio di infarto e ictus e non il colesterolo, seguendo le raccomandazioni statunitensi, in linea di massima, le statine non si dovranno prescrivere solo sulla base dei valori di colesterolemia, che a loro volta non sono considerate come target del trattamento (strategia “fire & forget“). Le linee guida ACC/AHA giustificano quest’orientamento sulla scorta dei risultati dei trial e quindi della medicina basata sulle evidenze. L’approccio di limitare le attuali conoscenze sulla prevenzione cardiovascolare solo ai criteri usati nei RCT appare però semplicistico e limita la potenzialità degli interventi di prevenzione cardiovascolare. È inoltre contraddittorio restringere le indicazioni alle popolazioni incluse nei trial, in quanto le linee guida ACC/AHA comprendono anche come indicazione al trattamento i pazienti con rischio a 10 anni > 7,5% derivato da un nuovo calcolatore di rischio creato ad hoc, mentre in effetti nessun trial con statine ha usato tale calcolatore di predizione del rischio cardiovascolare globale come criterio di inclusione, per cui basare la prescrizione su questo dato diventa comunque difficile in un sistema basato sulle evidenze. D’altro canto, i target terapeutici sono ampiamente usati in diversi setting clinici, si pensi ad esempio al trattamento dell’ipertensione arteriosa e del diabete mellito, e rimangono uno strumento importante nella pratica clinica, aiutando la comunicazione medico-paziente e ottimizzando l’aderenza ai trattamenti. Inoltre, dovendo essere la riduzione del rischio individualizzata, target specifici possono maggiormente aiutare in tal senso. In questo contesto, non a caso un’altra importante società medico scientifica statunitense, l’American Academy of Family Physicians, non ha dato l’endorsment alle linee guida ACC/AHA.

In cosa si differenziano concettualmente le linee guida europee sulla gestione del colesterolo da quelle americane?

Ambedue le linee guida enfatizzano l’importanza della stratificazione del rischio e della riduzione della colesterolemia LDL nella prevenzione cardiovascolare, sia primaria sia secondaria, intesa nella sua accezione più ampia e cioè prevenzione di tutti gli eventi aterotrombotici, ivi incluso l’ictus. Entrambe, infine, riconoscono che un trattamento più intensivo è superiore a uno meno intensivo in molte categorie di pazienti. La principale differenza tra le due linee guida sta nell’approccio alla riduzione della colesterolemia.

L’approccio al trattamento dei gruppi a rischio nelle linee guida statunitensi è spesso identificato come scelta opzionale all’uso di statine ad alta o moderata intensità, scelta che è spesso lasciata all’arbitrario giudizio clinico del medico. Nel documento statunitense sono identificate quattro categorie di pazienti che possono beneficiare del trattamento con statine.

  1. Il primo gruppo comprende pazienti con una malattia cardiovascolare aterosclerotica (che corrispondono ai pazienti a rischio molto alto delle linee guida europee). In questi pazienti è indicato un trattamento con statine ad alta intensità se di età inferiore o uguale a 75 anni, o a moderata intensità se > a 75 anni. Nei pazienti considerati non candidati a una terapia con statine ad alta intensità si raccomandano le statine a moderata intensità.
  2. Il secondo gruppo è quello di pazienti con una colesterolemia LDL superiore a 190 mg/dl (valore tanto elevato da essere presente nella pratica clinica solo nei pazienti con dislipidemie familiari o in importanti ipercolesterolemie poligeniche, e quindi considerati ad alto rischio dalle linee guida europee). Anche in questi pazienti è indicato un trattamento con statine ad alta intensità (ma se non si considerano candidati a questo si consigliano le statine a moderata intensità).
  3. Diabetici di età tra 40 e 75 anni con LDL superiore a 70 mg/dl (che nelle linee guida europee, a seconda della concomitanza di altri fattori di rischio, sono considerati pazienti a rischio alto o molto alto); sono indicate statine ad alta intensità se il rischio è alto (>7,5%) , a moderata intensità se è basso.
  4. Tutti i soggetti tra 40 e 75 anni con un rischio cardiovascolare a 10 anni superiore al 7,5%, che corrisponde a un rischio di circa il 5% con la stima italiana. Se il rischio è > 7,5% è indicata una terapia con statine a moderata-alta intensità (evidenza Ia), se è 5-7,5% solo a moderata intensità e con valutazione del singolo caso (evidenza IIaB).

Per fare un paragone con le linee guida europee, i soggetti con rischio compreso tra 1 e 5% SCORE (corrispondenti al 3-20% CUORE) sono a rischio moderato.Le linee guida europee raccomandano invece il trattamento farmacologico quando il rischio è molto alto, in pratica in prevenzione secondaria, se il colesterolo LDL supera i 70 mg/dl e quando il rischio è alto, in pratica dislipidemie familiari e rischio CUORE ≥ 20%. Inoltre, lo raccomandano eventualmente nel rischio moderato in caso di mancata risposta alle modifiche dello stile di vita) se il colesterolo LDL supera i 100 mg/dl.

I valori di colesterolemia non sono più determinanti?

Non esattamente. Nel monitoraggio della terapia con statine, infatti, le linee guida ACC/AHA suggeriscono che una riduzione del 50% della colesterolemia LDL durante trattamento con statine ad alta efficacia possa essere usato come misura dell’aderenza; nei pazienti ad alto rischio può essere motivo di incrementare la dose o considerare terapie di associazione, secondo giudizio clinico. Anche nelle linee guida europee una riduzione del 50% è suggerita come terapia opzionale nei pazienti a rischio molto alto se non raggiunge il target di 70 mg/dl di colesterolo LDL.

Questo cambiamento oltreoceano che è stato definito “rivoluzionario” è destinato ad arrivare anche in Europa?

Pur riconoscendo la mancanza di evidenze sul beneficio del raggiungimento dei target, l’approccio europeo, oltre a considerare categorie di pazienti esclusi dalle guida americane (ad esempio quelli con insufficienza renale o gli anziani), appare meno arbitrario e più schematico, quindi maggiormente adatto ad essere applicato nella pratica clinica. In conclusione, riteniamo che le linee guida europee 2012 – estesamente accettate ed adottate in Europa – devono essere considerate più adeguate per i pazienti europei.

Inoltre con le linee guida ACC/AHA viene proposto un nuovo modello (Pool cohorts equations) per la stima del rischio cardiovascolare globale…

Sì ma è una regola aurea della prevenzione cardiovascolare che la popolazione su cui il modello è derivata sia il più simile possibile ai pazienti in esame dal clinico. Pertanto in Italia raccomandiamo la stima del rischio cardiovascolare secondo il Progetto CUORE. Non possiamo non ricordare infatti che il Progetto CUORE, nato nel 1998, finanziato con fondi pubblici, pari all’1% del fondo sanitario nazionale, nonché gestito da un’istituzione nazionale di assoluto rilievo, l’Istituto Superiore di Sanità, col coinvolgimento di numerose organizzazioni scientifiche, inclusa l’ANMCO è il miglior strumento disponibile per la popolazione italiana. Da un punto di vista tecnico, la carta CUORE presenta una capacità predittiva sostanzialmente analoga a quella del progetto SCORE, avendo però il vantaggio di predire la morbilità cardio-cerebrovascolare complessiva, mentre la carta SCORE consente solo la stima del rischio di eventi cardiovascolari fatali. Nel suo complesso il Progetto CUORE rappresenta un’esperienza di straordinario rilievo e un patrimonio della comunità scientifica italiana. Non ci sembra comprensibile, come cittadini, ancor prima che come medici, accantonare uno strumento tanto importante e prodotto con preziose risorse pubbliche nel contesto critico della tutela dell’appropriatezza delle prescrizioni terapeutiche.

Un fenomeno emergente che ha importanti ricadute sulla salute pubblica e sui costi dell’assistenza sanitaria è quello della sovradiagnosi e del sovratrattamento. Come leggere le nuove linee-guida prodotte da due importanti società scientifiche statunitensi all’interno di questo fenomeno? È possibile trovare il punto oltre il quale il beneficio di un trattamento farmacologico con statine è così basso e il rischio di sovradiagnosi è alto?

Di fronte alla preoccupazione per l’uso inappropriato delle procedure e per contrastare l’idea che la salute si possa assicurare con un sempre crescente numero di prestazioni, negli Stati Uniti è stato proposto un approccio innovativo in grado di sollecitare un dialogo proficuo e una vera alleanza tra medici e pazienti, il progetto Choosing Wisely, che ha indicato le prestazioni a maggior rischio d’inappropriatezza. Il neonato movimento Slow Medicine si è fatto carico in Italia di questa iniziativa, proponendosi di coordinare un intervento analogo a quello statunitense, Fare di più non significa fare meglio, tra le società scientifiche italiane, tra cui la nostra associazione dei cardiologi ospedalieri (ANMCO) che ha aderito con entusiasmo. Nella stessa maniera, il tema dell’appropriatezza delle terapie farmacologiche sta assumendo una sempre maggiore valenza non solo economica ma principalmente clinica. L’impatto della strategia ACC/AHA deve essere quindi considerato nella prospettiva del grandissimo numero di soggetti che saranno eleggibili per un trattamento a vita in prevenzione primaria dall’età di 40 anni in poi. Si stima che se queste linee guida verranno seguite più di 45 milioni di americani di media età senza malattie cardiovascolari saranno presi in considerazione per una terapia con statine (33.090.000 con rischio ≥7,5% e 12.766.000 con rischio tra 5,0 e 7,4 %), cioè circa uno su tre adulti, e che di conseguenza potrebbero raddoppiare le prescrizioni di statine. Con questi numeri sia i costi economici sia i potenziali effetti collaterali non possono essere trascurati.

Dunque c’è un alto rischio di sovratrattamento con statine…

Come afferma Paul Ridker in un suo editorale sul Lancet: “the new risk prediction algorithm could put many primary prevention patients on statin therapy where there is little trial evidence, while potentially denying statin therapy to other patients despite trial evidence of efficacy”. Lo stessoRidker ha calcolato il rischio di eventi aterotrombotici a 10 anni con l’uso del nuovo algoritmo comparandolo con I tassi annuali effettivi osservati in tre grandi coorti di prevenzione primaria (il Women’s Health Study, il Physicians’ Health Study e il Women’s Health Initiative Observational Study), riscontrando che il nuovo algoritmo sovrastima sistematicamente il rischio dal 75 al 150%, raddoppiandolo quindi rispetto al reale. È possibile, nella fattispecie, che le coorti esaminate nel nuovo algoritmo siano meno contemporanee e quindi non prenderebbero in considerazione il trend secolare di miglioramento delle condizioni di salute in generale e dei pattern di stile di vita dell’ultimo quarto di secolo. Sulla base di questi dati, è possibile che il 40–50% dei 33 milioni di americani candidati alla terapia con statine non abbia in effetti un rischio superiore alla soglia del 7,5% suggerita per il trattamento. Viceversa, le linee guida europee sembrano a nostro avviso discriminare meglio i pazienti a rischio realmente basso in cui il trattamento non è appropriato. In Italia è disponibile gratuitamente ed online il sistema a punteggio del Progetto CUORE.

4 dicembre 2013

Bibliografia

2013 ACC/AHA Guideline on the Treatment of Blood Cholesterol to Reduce Atherosclerotic Cardiovascular Risk in Adults. A Report of the American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. J Am Coll Cardiol. 2013; doi:10.1016/j.jacc.2013.11.002

Ridker P, Cook NR. Statins: new American guidelines for prevention of cardiovascular disease. The Lancet 2013; 382: 1762-5.

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