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Tra salute, equità, politica e storia

 
Oggi è nelle pieghe delle disuguaglianze che esiste ancora una quota considerevole di malattia, sofferenza e morte. Una delle sfide importanti della medicina resta garantire equità nella distribuzione della salute. Tra gli obiettivi della commissione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sui determinanti sociali della salute (Commission on Social Determinants of Health) vi è quello di convincere i governanti che le politiche che mettono in atto hanno sempre un impatto sulla salute della popolazione. Quali sono i metodi e gli strumenti utilizzati?

La Commissione opera in raccordo con le attività dell’Oms, la quale può influire molto sull’atteggiamento di tutti i governi, e tende anche a svolgere un’attività diretta nei confronti dei governi dei paesi in cui si svolgono le riunioni. Finora sono state quattro: la prima nel marzo del 2005 in Cile è stata presieduta dal presidente Lagos; la seconda al Cairo in Egitto; la terza in India e la quarta in Iran, nel gennaio scorso. La prossima riunione è prevista a giugno in Kenya, la successiva in Brasile… L’obiettivo della presenza della Commissione in questi paesi è fare in modo che i governi prendano impegni di continuità nell’affrontare le cause sociali delle malattie, cercando di costruire esperienze durature che possano essere di esempio altrove. Tuttavia non ci sono solo i governi come interlocutori: è stato avviato un lavoro insieme alla società civile e alle organizzazioni spontanee e volontarie che sono numerosissime nel mondo. Un esempio tra queste è il People’s Health Movement che ha prodotto "An alternative world health report" uscito da poco, fatto in associazione con altri gruppi similari.
Sta nascendo dunque una importante rete associativa di supporto alle attività della Commissione sui determinanti sociali della salute.

Una rete sul territorio?

Sì, che stimola, aggiorna e svolge indagini ed esperienze. Il lavoro della Commissione consiste in diverse attività: la ricerca, lo stimolo e il tentativo di costruire un’attività permanente che determini una svolta negli orientamenti per la salute. In altre parole si tratta di partire dall’idea che la medicina e le cure sono solo una delle componenti che creano salute, ma che gran parte di essa dipende dalle condizioni di vita. Questo spiega perché e dove c’è una condizione di scarsa equità e di differenze evitabili.

Ci sono dei contro-esempi. Paesi in cui le condizioni socio-economiche non sono ottimali ma la salute è buona, Cuba è uno di questi…

Non solo Cuba. Sono molti i paesi i quali dimostrano che non esiste un rapporto univoco tra la ricchezza di un paese, misurata sul prodotto interno lordo, e le loro condizioni di salute. Ci sono paesi ricchi che hanno condizioni critiche di salute e di accesso all’assistenza sanitaria, come gli Stati Uniti di America, dove ci sono 45 milioni di persone senza assistenza. E ci sono per contro molti paesi che hanno acquisito un livello di salute relativamente alto, malgrado ci sia un reddito pro capite basso. Un esempio di grande interesse in questo senso è lo Sri Lanka, dove i progressi sono dovuti soprattutto all’istruzione pubblica generalizzata e alla partecipazione delle donne all’istruzione, un fattore fortissimo che porta salute soprattutto per l’infanzia. Poi c’è lo Stato del Kerala in India che è uno stato relativamente povero in cui c’è un livello di salute e di alfabetizzazione altissimo. Poi il Costarica e altri. Si tratta di paesi in cui c’è un impegno pubblico e una partecipazione popolare, e questo rende migliori e meno disuguali le condizioni di salute.

Impegno pubblico, partecipazione popolare, solidarietà: sono elementi che fanno la differenza?

Sì. Un’esperienza diretta delle differenze che possono esserci tra una situazione e l’altra l’ho constatata nel 1952 con la mia tesi di laurea a Roma sulle differenze di mortalità nei vari rioni, quartieri e sobborghi della città in base al reddito, al lavoro e all’abitazione. È stato preso in esame il periodo dal 1936 al 1950. Ne sono emerse differenze molti grandi. La cosa che mi ha colpito di più è che durante la guerra le disuguaglianze sono cresciute, a causa delle condizioni di disagio della popolazione e a causa dell’afflusso di centinaia di migliaia di persone a Roma da tutta Italia, un po’ dovuto alla povertà, un po’ alla speranza che Roma, dichiarata Città Aperta, non fosse bombardata.
Dopo qualche anno ho scoperto che per lo stesso periodo era stato fatto uno studio analogo a Londra, dal quale risultava un quadro opposto: nel periodo della guerra le differenze sociali si erano attenuate. Questo perché mentre a Roma non c’era nessuna assistenza sociale, alimentare, igienica per la popolazione povera, a Londra c’era il latte per tutti i bambini; inoltre le madri, i malati e gli anziani avevano diritto ad un’alimentazione maggiore; c’era un controllo continuo sulla salute attraverso vaccinazioni; infine c’era una forte solidarietà organizzata tra i cittadini. Dunque nonostante i bombardamenti si sono create delle condizioni di maggiore equità.

La condizione di guerra in quel caso rendeva tutti uguali…

A Londra la guerra livellava la popolazione, mentre a Roma questo non accadeva. C’era il tesseramento degli alimentari ma parallelamente nasceva un fiorente mercato nero degli alimenti; poi c’erano le zone delle borgate periferiche, dove mancavano l’acqua potabile e i servizi igienici.

Tornando ad oggi, quali sono i risultati del lavoro di ricerca della Commissione?

La Commissione ha cominciato a lavorare nel marzo del 2005, e ha come termine la primavera del 2008, quando dovrà presentare un rapporto e segnalare come si può proseguire il lavoro. La Commissione poi si scioglierà, ma dovrà fornire indicazioni su come continuare e come espandere questo impegno.
Essa lavora su diversi piani. Un piano di conoscenza, attraverso otto "knowledge networks" che hanno la base in otto diversi paesi presso le istituzioni scientifiche e che esaminano i vari aspetti, la misura e l’entità delle disuguaglianze (non facili da individuare visto l’alto numero di variabili da tenere presenti). Poi su un altro piano si procede a promuovere azioni per temi, che sono: i primi anni di vita (mortalità infantile e salute riproduttiva); l’emarginazione e l’esclusione che costituiscono un grave handicap; le condizioni di lavoro, che includono anche quelle di non lavoro, cioè la disoccupazione; le abitazioni e l’assetto urbano (le sacche di povertà che ci sono all’interno delle città o nelle periferie); le questioni di genere (le discriminazioni contro le donne che sono particolarmente drammatiche nei paesi asiatici dove si praticano ancora oggi l’infanticidio, l’aborto selettivo, etc.); poi tra i fattori sociali c’è l’ambiente, l’acqua, l’istruzione, gli stili di vita.

Che non possono solo essere visti come una responsabilità personale?

Infatti, sono fortemente condizionati. Non si può dire fate dello sport dove la popolazione è molto debole, oppure dove gli impegni dettati dalla quotidianità non permettono questi lussi. Il fumo non è solo una scelta individuale, ma vi è una fortissima influenza che viene dalla pubblicità indirizzata, oggi, verso i paesi emergenti.

Ci sono politiche virtuose, politiche "sane", che facilitano la salute pubblica, e ci sono politiche che portano conseguenze dannose alla salute. In che modo è possibile programmare interventi di politica economica per garantire politiche "sane"?

La politica può fare il peggio e il meglio di tutto ciò che è possibile. Se si guarda agli esempi del passato si possono individuare i due estremi di quello che può fare la politica in ciò che è accaduto in Europa, all’inizio del 1942, in Germania e in Inghilterra.
La Germania, con il nazismo, ha proseguito e aggravato la tendenza a ritenere che la politica dovesse fare quel che fa la medicina, la medicina più radicale: "quando una parte del corpo è malata, la si deve asportare". E ha operato sull’idea che questa stessa regola andasse applicata alla società: se c’è una parte dei cittadini che è bacata, dannosa, e che può compromettere l’equilibrio di tutti, questi si devono mettere nell’impossibilità di nuocere. E ci furono perciò sterilizzazioni di massa degli handicappati e dei veri o presunti malati di mente. Si decise poi che questi cittadini di secondo ordine dovessero essere uccisi. E nel gennaio del 1942 si riunirono a Wansee, i massimi dirigenti del nazismo e decisero per la soluzione finale cioè l’eliminazione totale degli ebrei. Questo è il peggior esempio di ciò che può fare la politica.

Cosa accadeva di contro a Londra?

Nello stesso periodo, nell’aprile del 1942 nella Londra tormentata dai bombardamenti, William Beveridge presentò il progetto dello Stato Sociale. Cioè l’idea che lo stato deve intervenire per garantire e promuovere la salute e la vita di tutti, indipendentemente dal censo, dall’istruzione, dalla razza e da qualsiasi caratteristica estrinseca; inoltre deve provvedere all’interesse dei cittadini attraverso il sistema delle pensioni e il servizio sanitario universale. Un atteggiamento che ha aperto una fase nuova nella vita della gente, che ha promosso la vita e la salute e ha determinato, in tutte le nazioni che poi hanno seguito questa strada, un livello maggiore di equità tra i cittadini.

Tra i due estremi ci sono un’infinità di possibilità intermedie…

Ed è su queste che si è lavorato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, con molte differenziazioni nei vari decenni. Subito dopo la guerra il risveglio dei popoli coloniali e l’aspirazione alla giustizia sociale hanno determinato un accesso molto più ampio alle cure e un’intensificazione delle iniziative di prevenzione. Negli ultimi decenni del Novecento, invece, è prevalsa l’idea neoliberale che l’assistenza sanitaria fosse un freno e un ostacolo per la crescita economica e che i servizi sanitari dovessero passare dallo stato alle assicurazioni private. E questo ha determinato maggiori ingiustizie.

Quali sono le evidenze oggi disponibili sull’inefficacia dell’approccio neoliberale?
Tutte le ricerche sull’equità nel mondo testimoniano che queste scelte, e anche il clima culturale, l’ideologia dominante, portano ad un maggiore dislivello tra paesi e all’interno dei singoli paesi. Oggi questa consapevolezza si è molto diffusa. Una conferma di ciò si è avuta nella conferenza solenne delle Nazioni Unite nell’anno 2000, in cui si lanciarono i "World Developements Goals": obiettivi mondiali di sviluppo, che in buona parte costituiscono obiettivi di salute come la mortalità infantile, la salute riproduttiva, la lotta contro le malattie infettive. Purtroppo però non si stanno realizzando in misura sufficiente.

Il passaggio di consegne delle evidenze ai politici è un passaggio delicato. Quali sono gli strumenti che possono essere messi a loro disposizione per valutare l’impatto delle loro scelte in modo da perseguire politiche eque?

Le ragioni di queste difficoltà possono essere molte. Una è la tendenza dei politici a lavorare sul breve termine: sembra molto più efficace costruire un grande ospedale o fare una campagna su una determinata malattia, e prevale molto spesso l’idea che la salute si difenda e si promuova con la biomedicina e l’alta tecnologia. Anche nei paesi poveri c’è stata la tendenza a creare grandi ospedali nelle grandi città, destinati comunque alle elit urbane, trascurando l’attività di base nel territorio e quelli che sono i determinanti sociali delle malattie.

Da una parte l’eccesso di screening e di medicalizzazione, dall’altra la mancanza di prevenzione e l’impossibilità di accedere alle cure. Un divario grande. La medicina di base dovrebbe avere un ruolo di primo piano nel colmare questo gap, mentre spesso demanda allo specialista privato, per chi può permetterselo, o a lunghissime liste di attesa, per chi non può permetterselo. Cosa ne pensa?

Il ruolo della medicina di base negli ultimi 60 anni è stato molto mutevole: ci sono state diverse politiche dell’Oms e dei singoli stati. Subito dopo la guerra fino agli anni 60 c’è stata un’enfasi notevole sulle attività mediche, sull’uso di nuovi prodotti (sulfamidici e antibiotici) e di nuovi metodi di prevenzione (il vaccino antipolio ne è un esempio). Si è creata l’impressione che quella fosse l’unica strada da seguire e non si è data sufficiente attenzione alla creazione di strutture di base permanenti per la prevenzione e le cure, cioè a un sistema che si definisce sanità pubblica. Poi negli anni 70 c’è stata una svolta culturale che ha portato nel 1978 alla conferenza di Alma Ata, nella quale è stata lanciata con grande impatto la linea della "Primary Health Care" che comprende l’accesso alla cure essenziali e include una serie di fattori sociali sui quali intervenire. Una linea che purtroppo è stata presto sostituita da un’ondata neoliberista, quindi dal primato delle tecnologie avanzate e delle cure ospedaliere, e dalla differenziazione delle cure in base al censo (chi poteva e chi non poteva partecipare ad un’assicurazione privata). Oggi in questa sinusoide di scelte sta prendendo piede di nuovo l’idea dell’assistenza di base e della prevenzione primaria, intesa come intervento sulle cause e creazione di sistemi di sanità pubblica, integrati con attività in favore della salute proprie di altri sistemi, come quello economico, il sistema dell’istruzione…

Vede, dunque, una tendenza positiva?

Percepisco un’ondata nuova positiva, ma percepisco anche le resistenze che ci sono e gli ostacoli, come le guerre, il terrorismo, la negazione del fatto che le ingiustizie sono dannose per tutti. Nonostante ciò sono abbastanza fiducioso in tutte le spinte, i movimenti, le conoscenze, le reazioni emotive di fronte alle iniquità e le attività dei governi che cominciano ad interessarsi a queste esigenze.

Nel network in cui opera la commissione compare il Brasile. Un paese interessante che ha avuto il coraggio di alcune scelte politiche piuttosto radicali, in contro-tendenza. Qual è la sua percezione della situazione brasiliana?

Il Brasile ha conosciuto un’esperienza molto positiva nella creazione di un servizio sanitario pubblico, il Sistema Único de Saúde, cosiddetto SUS, che ha un’impronta egualitaria, ma il Brasile al tempo stesso è il Paese che conosce uno squilibrio tra ricchezza e povertà tra i più alti del mondo. C’è però da trent’anni a questa parte un forte movimento "sanitarista" che comprende le amministrazioni locali, i sindacati, molti operatori della salute che hanno una rete associativa forte, creano esperienze ed esercitano una pressione sul governo. Conosco il Brasile da quando la dittatura militare non era ancora crollata, ma cominciava ad avere delle crepe che consentivano qualche libertà. Mi sono recato lì molte volte all’anno per dare una mano alla trasformazione in atto della sanità e del rapporto tra lavoro e salute. Tre anni fa ho partecipato ad un congresso nazionale presso l’Università di Brasilia che vedeva riunite le forze che formano questa sorta di "partito sanitarista", che è interpartitico. C’erano 15.000 partecipanti per 140 sessioni di studio, uno scambio di esperienze, uno slancio strepitoso. Quest’anno parteciperò alla successiva conferenza che si terrà dal 2 al 24 agosto. Poi, dal 4 settembre, presso l’Istituto superiore di sanità brasiliano, cioè la Fondazione Armando Cruz, si svolgerà la riunione successiva della commissione.

 

19 aprile 2006

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