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Tu, e il nuovo anno

Racconto di Maurizio de Giovanni, pubblicato su Il Mattino, 2 gennaio 2013.
Ti vedo, sai? Ti vedo.

Ti vedo cominciare le tue giornate. Quella vecchia abitudine di accendere subito la lampada sul comodino, appena sveglia, per uscire da quello stato intermedio tra sonno e veglia, sempre un attimo prima dell’ora che hai puntato sulla sveglia, che perciò non suona mai.

Dal tempo che la luce rimane accesa, da quei lunghi minuti tra l’alba e il giorno, senza che tu ti muova capisco dove sei andata col cuore, mentre la mente costruisce la coscienza di te stessa e il ricordo di chi sei e quando sei. Il momento in cui una vecchia vita creata da un sogno viene smantellata, pezzo dopo pezzo, da una realtà tutt’altro che gradita, per usare un eufemismo. Lo capisco dal sospiro che vedo, il lenzuolo che si alza e poi si abbassa lentamente.

E ti vedo alzarti stancamente, come se faticassi a trovare un buon motivo per lasciare il tuo letto solitario, nel quale peraltro hai stentato a trovare il sonno, rigirandoti nella memoria di un altro tempo per ore, fino a quando la notte è diventata padrona silenziosa della strada. A volte rimani seduta, i gomiti sulle ginocchia e le mani in faccia, chiusa in un pianto senza lacrime, la schiena curva, ferma sull’orlo di quell’ora sospesa.

Vai in bagno, trascinando i piedi. Ricordo l’incanto del tuo alzarti leggera, elastica e vaporosa, come se danzassi. Ricordo il sorriso, ospite fisso del tuo viso. Ricordo gli occhi mai bassi, sempre col retrogusto d’ironia nello sguardo. Ricordo la tua voce calda, vibrante delle mille emozioni che portavi in petto. Ricordo. Non ha dolore, il mio ricordo. Il dolore se ne va, come la passione. Sopravvivono la tenerezza e la malinconia. Si perdono le tinte forti e rimangono quelle tenui, come se il cuore si scolorasse, un vecchio disegno esposto al sole spietato dell’estate.

Ti immagino sotto la doccia, ferma, il getto caldo che ti porta definitivamente fuori dai sogni, confusi tra pensieri e ricordi. Il tuo bel corpo che si rifiuta di invecchiare come l’anima percorso da mille rivoli d’acqua, mentre emerge dall’incoscienza della notte. E poi lo specchio che ti rimanda un’immagine sconosciuta, le rughe come ferite senza gloria e senza riconoscenza che non hai più voglia di nascondere.

È adesso che ti viene in mente che oggi è l’ultimo giorno dell’anno. Sotto la luce forte e bianca di sei lampadine, al rumore del primo petardo in strada, mentre lo stomaco si sveglia come se le tue emozioni fossero ancora vive, il pensiero ti sorride sghembo come un pagliaccio incapace di far ridere. L’ultimo giorno dell’anno. Pensi che sarà facile augurarsi di meglio, per l’anno nuovo. Molto facile.

Ora sei uscita. Ti vedo andare al lavoro. Hai preso l’abitudine delle cuffiette e degli occhiali neri, anche quando il sole è pallido e incerto come stamattina. Porti anche i guanti, eppure non fa freddo. Difendi i sensi, udito, vista e tatto, come se volessi tenere fuori ogni distrazione. Potessi farlo, sorriderei di questa tua istintiva ingenuità: come se fosse possibile chiudere fuori il mondo e l’universo intero, come se fosse possibile coltivare i pensieri come fiori in serra, al riparo dal vento e dalla pioggia.

Anche rinchiusa in te stessa non riesci a sembrare uguale alle migliaia di altre persone, in strada, nella metropolitana. Hai sempre avuto una magia speciale, nel modo di muoverti. Attiri gli sguardi, che ti scivolano addosso senza sfiorarti.

Mentre ti vedo entrare veloce in ufficio penso che l’amore è un luogo, non un quando come siamo abituati a credere. Diciamo: sono innamorato. Amo. Quando ero innamorato. E invece amare è un posto, una stanza in cui cambiano le leggi della fisica, dove il sopra diventa sotto e il dentro fuori. Una stanza che può diventare una prigione solitaria e disperata, peggio della morte.

Peggio della morte.

Da lontano intravedo i tuoi sorrisi tirati. Si festeggia la fine, si festeggia l’inizio. Un panettone, un pandoro, un tappo che salta, liquido giallo e bollicine in orribili bicchieri di carta. Tanti auguri. Tra gente che magari si scannerebbe, coi toni solenni e plastificati di un addio che durerà meno di due giorni. Tanti auguri.

Ti guardano tutti, di sfuggita, gli occhi fintamente ammantati di una tristezza di circostanza. Le labbra strette in un sorriso che vorrebbe essere un farti coraggio. Ti alzi di scatto e te ne vai, per non dare la soddisfazione di una lacrima che non riesci a nascondere.
Sei di nuovo in strada, ancora occhiali, guanti e cuffiette per riparare il tuo dolore. Guardandoti capisco che il dolore sta diventando un’armatura che potrebbe essere un carcere. Sono contento di quello che ho chiesto e ottenuto per te; giusto in tempo. Tra poco, una settimana, un mese, il tuo dolore sarebbe diventato inespugnabile, la tua anima ne sarebbe morta per inedia e asfissia. Giusto in tempo.

Scendi le scale della metro, mentre attorno a te la gente si sorride, si saluta, si augura un anno che, per la maggior parte delle persone, sarà uguale a ogni altro anno. Ricordo il nostro ultimo capodanno, occhi negli occhi, sorriso nel sorriso. Ricordo la magia di noi due, sospesa in un silenzio solo nostro, mentre attorno c’era il solito inutile finimondo.

Non ricordo il dolore; eppure era tanto, era forte. L’ultimo spasmo trionfante della malattia che vinceva, che finalmente aveva la meglio sul mio corpo martoriato. La memoria della sofferenza è stata cancellata, con la morte. Ecco, forse è questa la pietà estrema di chi ci vuole transitoriamente in vita: annullare il ricordo del dolore. Io rivedo ogni scintilla nel tuo sguardo, amore mio, e nulla della microscopica bestia che divorava le mie viscere dall’interno.

Ti guardo mentre ti siedi in un altro posto, infastidita da un vecchio che occupa il sedile singolo che di solito è il tuo. Lo vedo entrare, puntualissimo nell’attimo previsto, reggendo il giornale, il telefono, la borsa e l’impermeabile in precario equilibrio, cercando un posto libero che è quello affianco a te. Gli cadrà la borsa sul tuo piede e tu lo guarderai con livore, tra quarantadue secondi. Ti chiederà scusa, e scoppierà a ridere. La risata ti contagerà, e riderai anche tu. Un buon inizio, tutto sommato.

Ti guardo sospirare, spero per l’ultima volta. E ti lascio andare, senza dolore e senza nostalgia.

Buon anno, amore mio.


Il racconto è stato letto all’incontro Storie di cancro nel cinema e nella letteratura che si è tenuto a Napoli il 20 gennaio 2013 e con l’occasione gentilmente offerto dall’autore ai nostri lettori.

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