Il tema dell’equilibrio delicato tra informazione e interessi commerciali in ambito sanitario è ormai entrato a buon diritto nel poco invidiabile pantheon dei luoghi comuni. Di quei temi cioè dei quali non si discute cercando di comprenderne ogni aspetto, guardando le cose in prospettiva, approfondendo, rispettando le professionalità altrui. Ma viceversa esercitandosi perlopiù in pregiudizi, banalità, affermazioni miopi o corporativismi. Troppe volte nell’ambito di convegni, seminari, workshop è riecheggiata la litania del giornalista pigro che non ha voglia di approfondire, del giornalista che prima di scrivere un articolo dovrebbe consultare la letteratura scientifica, del giornalista a caccia di scoop a tutti i costi, del giornalista ignorante, del giornalista – chissà – probabilmente anche corrotto dalle aziende. Time out, per favore. Parliamo di informazione e Sanità: ma vogliamo provare ad andare un po’ più a fondo?
Al centro della triangolazione tra aziende farmaceutiche, ricercatori medici e mass media il paziente/cittadino troppo spesso si ritrova indifeso, illuso, truffato. Questo è un dato di fatto incontrovertibile, dal quale è obbligatorio partire per ogni riflessione ulteriore. Ma di chi è esattamente la colpa? Come funziona questo terribile ingranaggio?
I ricercatori – che amano cullarsi nell’illusione di essere al peggio cattivi comunicatori – a volte sembrano non rendersi conto che in un sistema capitalistico l’informazione è gestita da gruppi editoriali che hanno come scopo il profitto e come parametro di giudizio il numero di utenti, e che questo vale persino per il servizio pubblico radiotelevisivo. Se una trasmissione non fa abbastanza ascolti, viene soppressa; se un giornale non vende o non raccoglie abbastanza pubblicità, inizia a tagliare sui costi del personale ed eventualmente chiude i battenti, e lo stesso vale per le testate Internet.
Questo – rimanendo a noi – significa che un giornalista quando si appresta a scrivere una notizia di argomento sanitario ha il dovere di soddisfare le seguenti condizioni:
- cercare di comprendere quanto più possibile l’argomento che ci si appresta a presentare, di cui verosimilmente non è esperto;
- verificare la fonte della notizia, accertandosi della sua autorevolezza (è sufficiente la pubblicazione su una rivista scientifica o bisogna basarsi sull’impact factor della testata in questione? O addirittura si pretende che il povero giornalista operi una revisione degli studi pubblicati confutando questo o quello?);
- cercare di esporre l’argomento nella forma più adatta ai lettori verso cui è diretto;
- cercare di elaborare un testo e un titolo che siano più accattivanti possibile, perché con quell’articolo il giornalista deve competere con altri colleghi che stanno preparando articoli simili e conquistare una fetta di pubblico più vasta della loro, e/o una maggiore autorevolezza verso il pubblico;
- cercare di mediare con eventuali conflitti d’interesse del suo editore senza derogare in nessun caso alla sua deontologia professionale;
- cercare di fornire al pubblico “sensibile” (per esempio ai pazienti affetti da una data patologia) informazioni il più possibile veritiere, equilibrate e soprattutto utili.
Inutile dire che nelle relazioni di cattedratici e intellettuali che si ascoltano sovente durante i convegni, seminari, workshop di cui sopra, il punto 4 (che è invece assolutamente centrale nella quotidianità professionale dei giornalisti) non viene mai preso in considerazione. E figuriamoci se si può comprendere – orrore! – che i tempi e i modi della comunicazione giornalistica non permettono di approfondire, ponderare e temporeggiare nel dare una notizia come molti pretenderebbero. Anzi – doppio orrore! – non è raro persino che una testata giornalistica, pur consapevole della scarsa autorevolezza della fonte di una notizia, decida di diffonderla comunque perché la ritiene capace di catalizzare l’attenzione del pubblico.
Ma se il nostro scopo deve essere comporre una frattura – filosofica prima che pratica – così profonda, campa cavallo. Il nodo essenziale è invece secondo me un altro, per fortuna. Le aziende farmaceutiche, che sanno muoversi in modo molto aggressivo ed efficace nella giungla della competizione commerciale, hanno capito che i mass media hanno un bisogno continuo di notizie, spunti, materiale – e hanno, al tempo stesso, poco tempo per elaborarlo. E quindi bombardano le redazioni di comunicati stampa sempre più sofisticati, ben costruiti, con ricche bibliografie in appendice, proponendo appetibili interviste a medici affermati già bell’e pronte. I giornalisti più esperti riescono a districarsi tra proclami trionfalistici e dati statistici roboanti, gli altri pubblicano acriticamente tutto e amen (a questo riguardo è utile citare una recentissima ricerca pubblicata dalla rivista PLoS Medicine nella quale un panel di esperti ha sancito che i giornalisti specializzati solo in Salute che lavorano per una singola testata committente scrivono notizie di qualità nettamente migliore rispetto agli altri, [1] ).
Come risolvere il problema dell’invasione dei comunicati stampa tendenziosi? Tre umili proposte pratiche, invece che fumose argomentazioni da convegno, seminario, workshop:
- regolamentare severamente il settore delle agenzie di comunicazione in ambito sanitario;
- implementare un servizio di comunicazione degno di questo nome in ogni struttura sanitaria, istituto di ricerca, ente accademico;
- diffondere tra i medici una cultura di collaborazione e disponibilità verso i media che consenta di accedere alla loro opinione più facilmente ai giornalisti anche alle prime armi.
9 marzo 2011
In primo piano
Tutta colpa dei giornalisti, di chi se no?
Il tema dell’equilibrio delicato tra informazione e interessi commerciali in ambito sanitario è ormai entrato a buon diritto nel poco invidiabile pantheon dei luoghi comuni. Di quei temi cioè dei quali non si discute cercando di comprenderne ogni aspetto, guardando le cose in prospettiva, approfondendo, rispettando le professionalità altrui. Ma viceversa esercitandosi perlopiù in pregiudizi, banalità, affermazioni miopi o corporativismi. Troppe volte nell’ambito di convegni, seminari, workshop è riecheggiata la litania del giornalista pigro che non ha voglia di approfondire, del giornalista che prima di scrivere un articolo dovrebbe consultare la letteratura scientifica, del giornalista a caccia di scoop a tutti i costi, del giornalista ignorante, del giornalista – chissà – probabilmente anche corrotto dalle aziende. Time out, per favore. Parliamo di informazione e Sanità: ma vogliamo provare ad andare un po’ più a fondo?
Al centro della triangolazione tra aziende farmaceutiche, ricercatori medici e mass media il paziente/cittadino troppo spesso si ritrova indifeso, illuso, truffato. Questo è un dato di fatto incontrovertibile, dal quale è obbligatorio partire per ogni riflessione ulteriore. Ma di chi è esattamente la colpa? Come funziona questo terribile ingranaggio?
I ricercatori – che amano cullarsi nell’illusione di essere al peggio cattivi comunicatori – a volte sembrano non rendersi conto che in un sistema capitalistico l’informazione è gestita da gruppi editoriali che hanno come scopo il profitto e come parametro di giudizio il numero di utenti, e che questo vale persino per il servizio pubblico radiotelevisivo. Se una trasmissione non fa abbastanza ascolti, viene soppressa; se un giornale non vende o non raccoglie abbastanza pubblicità, inizia a tagliare sui costi del personale ed eventualmente chiude i battenti, e lo stesso vale per le testate Internet.
Questo – rimanendo a noi – significa che un giornalista quando si appresta a scrivere una notizia di argomento sanitario ha il dovere di soddisfare le seguenti condizioni:
Inutile dire che nelle relazioni di cattedratici e intellettuali che si ascoltano sovente durante i convegni, seminari, workshop di cui sopra, il punto 4 (che è invece assolutamente centrale nella quotidianità professionale dei giornalisti) non viene mai preso in considerazione. E figuriamoci se si può comprendere – orrore! – che i tempi e i modi della comunicazione giornalistica non permettono di approfondire, ponderare e temporeggiare nel dare una notizia come molti pretenderebbero. Anzi – doppio orrore! – non è raro persino che una testata giornalistica, pur consapevole della scarsa autorevolezza della fonte di una notizia, decida di diffonderla comunque perché la ritiene capace di catalizzare l’attenzione del pubblico.
Ma se il nostro scopo deve essere comporre una frattura – filosofica prima che pratica – così profonda, campa cavallo. Il nodo essenziale è invece secondo me un altro, per fortuna. Le aziende farmaceutiche, che sanno muoversi in modo molto aggressivo ed efficace nella giungla della competizione commerciale, hanno capito che i mass media hanno un bisogno continuo di notizie, spunti, materiale – e hanno, al tempo stesso, poco tempo per elaborarlo. E quindi bombardano le redazioni di comunicati stampa sempre più sofisticati, ben costruiti, con ricche bibliografie in appendice, proponendo appetibili interviste a medici affermati già bell’e pronte. I giornalisti più esperti riescono a districarsi tra proclami trionfalistici e dati statistici roboanti, gli altri pubblicano acriticamente tutto e amen (a questo riguardo è utile citare una recentissima ricerca pubblicata dalla rivista PLoS Medicine nella quale un panel di esperti ha sancito che i giornalisti specializzati solo in Salute che lavorano per una singola testata committente scrivono notizie di qualità nettamente migliore rispetto agli altri, [1] ).
Come risolvere il problema dell’invasione dei comunicati stampa tendenziosi? Tre umili proposte pratiche, invece che fumose argomentazioni da convegno, seminario, workshop:
Bibliografia