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Verso un “consumo critico” della salute

Troppo “informato” sui propri rischi, il paziente si trasforma in “impaziente consumatore”: cosa può fare un’agenzia governativa o un’azienda sanitaria per minimizzare questo… rischio?

Per evitare i rischi di consumismo sanitario, un’agenzia governativa o un’azienda sanitaria deve soprattutto puntare a creare, o ri-creare secondo alcuni, una relazione di fiducia con il cittadino.
L’eccesso di abbinamento tra problemi reali di salute collettiva e problemi di controllo dei costi e della spesa ha infatti finito per creare, come cortocircuito, nella testa dei cittadini una mancanza di fiducia. Naturalmente, c’è anche il difficile capitolo degli strumenti adeguati per comunicare bene sul quale c’è molto da fare. Ma a monte – ripeto – ci deve essere uno sforzo attivo di riconquista di una fiducia nel sistema che il paziente e il cittadino faticano ad avere. Il Sistema sanitario pubblico dovrebbe dare esempi concreti per dimostrare che non si occupa solo dell’eccesso di cura, ma anche delle situazioni nelle quali non offre a tutti le prestazioni che si sanno essere efficaci e appropriate. Da questo punto di vista non si può dire che il Servizio sanitario pubblico sia esente da legittimi sospetti.

I "soliti sospetti" di interessi che potrebbero rivelarsi in conflitto con la tutela della salute della collettività?

Indubbiamente la gran parte delle volte che ci si muove sul terreno della qualità e dell’appropriatezza, la spinta è quella di limitare l’eccesso, e assai raramente, invece, il difetto. La buona sanità dovrebbe contenere la quantità dell’offerta nelle situazioni in cui il troppo non serve e, allo stesso tempo, non dovrebbe dare meno di ciò che serve realmente. Capita raramente di sentire amministratori che si preoccupano del possibile “sottoutilizzo” di prestazioni efficaci. Credo che il cittadino percepisca questo e, di conseguenza, anche di fronte ad un giusto invito a non abusare, sospetti un non completo disinteresse da parte dell’istituzione.

Conquistare credibilità, guadagnarsi la fiducia… Esistono altri elementi critici negli obiettivi che le istituzioni si pongono?

C’è sicuramente una difficoltà di comunicazione che è legata, credo, anche ad una difficoltà del sistema a definire i propri obiettivi. Oggi i servizi sanitari sono scarsamente capaci di governare le innovazioni tecnologiche e le continue promesse che la ricerca scientifica sbatte in prima pagina, ma che poi, alla prova dei fatti, si rivelano vane. Ci vorrebbe forse maggiore coraggio nel governare l’innovazione dimostrando che viene fatto a tutela del cittadino e non per privarlo di qualcosa che gli può essere di beneficio. Insomma, anche l’informazione è una tecnologia e come tale va maneggiata con cura e usata da persone competenti. Strategie di comunicazione più efficaci dovrebbero essere utilizzate su un terreno di intervento comunitario, coinvolgendo attivamente anche le rappresentanze dei cittadini e delle organizzazioni sociali, cercando di recuperare una dimensione generale di fiducia.

In che modo?

Realizzando magari qualche "campagna-modello" che contrasti l’idea comune dell’intervento dell’autorità sanitaria come principalmente rivolto al controllo dell’eccesso di consumi. Si potrebbero individuare situazioni in cui la parola d’ordine della battaglia sia diversa: “se si fa meglio o, per certi versi, si fa di più, si può anche avere un beneficio maggiore”. Ma tornando al piano della comunicazione, un problema è oggi dato dallo scarso coinvolgimento dell’utente: si tratta solo di scegliere un linguaggio semplice, e di sforzarsi anche di capire i dubbi e le aspettative che i pazienti possono avere rispetto all’utilità o meno di un trattamento, includendo il punto di vista di chi ha esperienza di quella malattia. Se parliamo di problemi legati alle specifiche malattie, il vero esperto è chi vi è passato e tenere conto di questa esperienza può essere molto importante: è il paziente che più di altri può individuare i problemi e le aspettative.

Fumo, sovrappeso, abitudini alimentari: si sottolineano i rischi individuali e si finisce con il trascurare l’esposizione della comunità a rischi collettivi; anche durante la recente campagna elettorale, in pochi ne hanno parlato: si è smarrita una dimensione “politica” della salute?

Quella di perdere la dimensione collettiva e politica dei problemi di salute e basarsi essenzialmente sulla dimensione individuale è, infatti, una tendenza in atto da molto tempo; le ragioni sono diverse. Un fattore che ha contribuito è sicuramente la spettacolarizzazione della scienza: oggi è altamente scientifico e innovativo solo ciò che è tecnologico, per cui è molto più facile esaltare la scoperta del gene, stimolando grandi fantasie sulle implicazioni pratiche che questo potrà avere in futuro, piuttosto che parlare di come la salute collettiva potrebbe migliorare in modo significativo con piccoli cambiamenti nella organizzazione delle cure, nel migliorare la loro tempestività, nel garantire una maggiore continuità assistenziale e integrazione tra specialisti e medici di medicina generale, ecc. Si preferisce la dimensione spettacolare piuttosto che i messaggi semplici, secondo la formula "progresso è uguale tecnologia uguale qualcosa che colpisce l’immaginario dell’individuo". In questo senso, i progressi a livello di collettività impressionano poco, non scaldano il cuore.

E sono molto più difficili da realizzare…

C’è, infatti, anche una seconda ragione di questo smarrimento, forse più delicata. Affrontare i nodi politici alti della sanità significa toccare argomenti scomodi quali i problemi dei diritti, della partecipazione e dei conflitti di interesse a tutti i livelli (quelli che hanno gli operatori, ma che ha anche chi amministra la sanità); significa inoltre mettere in discussione il modello vigente di ricerca scientifica di tipo terapeutico-riparativo. Questi sono nodi importanti che potrebbero spiegare come mai anche nelle elezioni amministrative si sia parlato pochissimo di sanità. Certo, in parte questo dipende dalla mancanza di idee chiare su come intervenire su questi temi. Sicuramente non bastano parole d’ordine generiche. Bisognerebbe, infatti, cambiare i rapporti di forza culturali tra cittadini, pazienti e medici, ma è un grosso problema. Chi ha voglia oggi di combattere questa battaglia, che significa mettersi contro anche una parte importante della classe medica? Chi ha voglia di parlare dei problemi quotidiani dei conflitti di interesse, e non solo di quelli di Berlusconi, che riguardano tutti i professionisti della sanità?

La ricerca di un’alternativa efficace alla comunicazione di oggi sui temi della salute può sembrare una lotta contro i mulini a vento e si rischia di diventare scomodi?

Si, perché oggi andare contro i fenomeni della spettacolarizzazione televisiva (alla Mirabella per fare un esempio) vuole dire essere impopolari. Intraprendere una battaglia perché ci siano davvero dei diritti di informazione reali per i pazienti, vuole dire farsi nemici una larga parte dei professionisti della salute. Un’altra battaglia dovrebbe essere intrapresa affinché le Facoltà di Medicina comincino a parlare agli studenti-futuri medici dei problemi della sanità moderna, delle criticità del sistema, e non solo di una medicina come “scienza esatta compartimentalizzata” che oggi non è più proponibile. Ma è più facile rifugiarsi in una dimensione individuale, da cui la fede nella tecnologia e nel miraggio del paradigma dello sviluppo scientifico spontaneo. Si tratta di un modello che dà meno fastidio, che mira a una medicina tendenzialmente riparativa e diagnostica che cura sempre più presto, anche se indiscutibilmente “crea” delle malattie.

Con la controindicazione di una emergente medicalizzazione della società?

Il problema della medicalizzazione in realtà ha una dimensione sia individuale sia collettiva; anche a livello di campagne di screening, infatti, si assiste a un fenomeno simile che non riguarda però solo l’individuo ma il gruppo. Ne ho avuto la prova in un recente incontro dove si è discusso dell’incertezza in medicina, al quale ha partecipato anche Giorgio Bert. Malgrado le sollecitazioni a parlare della dimensione collettiva dell’incertezza, quasi subito la discussione si è spostata sul problema dell’incertezza individuale nel rapporto medico/paziente: sul comunicare o non comunicare la verità. In effetti, è molto più facile ricondurre tutto alla dimensione individuale dove “il problema” diventa il dramma del medico non attrezzato a comunicare con il paziente individuale, senza scomodare invece i meccanismi collettivi che sul piano della ricerca, della informazione e della formazione, determinano la dimensione collettiva dell’incertezza.

Una dimensione collettiva dell’incertezza in medicina che non ammetterebbe semplificazioni e forse contribuirebbe a sfatare il mito secondo cui è altamente scientifico e innovativo solo ciò che è tecnologico…

Ridefinire il concetto dell’incertezza in medicina significa abbandonare l’idea che la medicina sia una scienza esatta e significa farlo nell’epoca in cui si sostiene addirittura che non saranno necessari più nemmeno gli studi clinici controllati, perché saremo in grado di sviluppare farmaci “intelligenti” e tecniche diagnostiche miracolose.

A questo proposito, si cita spesso il caso dello screening mammografico come esempio di informazione incompleta o distorta…

In quel caso il problema dell’informazione incompleta è emerso solo come riflessione a posteriori. Nel furore della polemica, l’analisi dei dati della metanalisi ha finito per concentrarsi su aspetti talmente tecnici che le persone non esperte non erano assolutamente in grado di seguire, dimostrando che, se si vuole spaccare il capello in quattro, si può mettere in discussione qualunque ricerca. In questa maniera si è arrivati alla diatriba su quanti studi si devono considerare (come devono essere combinati? esiste la significatività statistica o meno? ecc.) e si è persa di vista la questione centrale: comunque la si volesse vedere, il beneficio dello screening in termini di popolazione (e ancor più per le singole donne) era, in realtà, assai modesto.

Cosa ha insegnato il confronto successivo alla metanalisi di Ole Olsen e Peter Goetszche?

Ha fatto scoprire la necessità di riflettere, retrospettivamente, sulla informazione incompleta o parziale. Perché per molto tempo è stato enfatizzato il beneficio, sebbene dall’analisi dei dati sia emerso che, nella migliore delle ipotesi, questo poteva essere concordemente considerato limitato? Come mai nei depliant che invitavano le donne alla mammografia di screening si diceva che così facendo ognuna di esse avrebbe potuto ridurre circa del 30 per cento il rischio di morire di tumore al seno? Ma cosa voleva dire il 30 per cento? Non era forse ben noto a tutti che esprimere l’impatto di un intervento usando la statistica “rischio relativo” è un modo garantito per indurre a sovrastimare il reale beneficio, sia collettivo sia individuale, di un intervento?

Ovvero…

Quel 30 per cento significava la possibilità di diagnosticare, probabilmente, 1 o 2 casi in più ogni 1.000 donne sottoposte a screening ed era equivalente a dire – usando un’altra molto meno entusiasmante statistica – che la “riduzione del rischio assoluto” era forse dell’1-2 per cento. Ma l’1-2 per cento colpisce molto meno del 30 per cento. Insomma, nel caso specifico della controversia sulla revisione di Goetszche e Olsen ci si è addentrati talmente nella tecnicità del problema che si è perso di vista l’aspetto principale: un beneficio comunque limitato, anche nelle migliori stime e condizioni di applicazione. Solo quando ci si è meno azzuffati sulla stretta interpretazione numerica abbiamo iniziato a renderci conto che negli ultimi 10-20 anni erano stati molto enfatizzati i benefici e non si erano mai, o molto limitatamente, discussi i potenziali effetti collaterali di carattere psicologico, medico, e gli interventi potenzialmente non necessari. Non si era fornito un quadro completo di informazione, non dicendo che i programmi di screening sono qualcosa di molto più complesso della semplice offerta dell’esame mammografico, dove bisogna prevedere tutta una catena di interventi, di follow up dei casi positivi e di controlli di qualità su chi legge gli esami. Solo in condizioni ottimali si ottiene, eventualmente, un beneficio.

Eppure, non si trattava di una metanalisi “doc", sottoposta a tutte le regole dell’Evidence based medicine (EBM)?

Sì, in realtà lo screening mammografico è l’unico esempio di screening che è stato per anni sottoposto a sperimentazioni controllate, salvo poi ritrovarsi a distanza di 20 anni a interrogarsi sull’utilità di questa ricerca. Apparentemente, nel caso dello screening mammografico si è fatto ciò che l’EBM predica che si faccia. C’è stato un editoriale di Steven Goodman, sugli Annals of Internal Medicine, che ha, infatti, indicato il caso della controversia sulla mammografia come un momento di grave crisi dell’EBM, sottolineando come dopo questo episodio sarà più difficile insistere sulla necessità di una valutazione rigorosa degli interventi. Divenendo cioè d’obbligo chiedersi perché ricerche durate oltre 20 anni, che hanno coinvolto circa un milione di donne in tutto il mondo, vengono alla fine scoperti essere tutt’altro che ineccepibili e continuano a causare aspri contrasti tra esperti e grandi incertezze tra le donne.

A questo proposito è tutto un “fiorire” di raccomandazioni sia in medicina preventiva sia in clinica: cosa si sta facendo per educare gli operatori sanitari a distinguere tra i diversi gradi delle prove di efficacia e inefficacia?

È un’amara riflessione. Non è semplice dire come si fa a dare il giusto peso e il giusto valore ai risultati delle diverse ricerche. Se volessimo fare un bilancio critico di questi primi 10, 15 anni di EBM, tra le cose da sottolineare vi è sicuramente il fatto che all’inizio, forse perché fa parte dell’entusiasmo giovanile, anche l’EBM ha enfatizzato molto il dovere per il singolo operatore di acquisire gli strumenti di valutazione critica delle informazioni che riceveva. Un obiettivo difficile in un’epoca in cui la quantità di pubblicazioni prodotte continua a crescere e rispetto al quale è inevitabile pensare di dover fare affidamento su qualcosa di pre-digerito, come ad esempio le revisioni sistematiche. Oggi la vera sfida è capire qual è il livello di pre-digestione dell’informazione che si può proporre all’operatore senza per questo farlo sentire esautorato della sua capacità critica. Il medico mal sopporta che qualcuno gli spieghi come interpretare una informazione. Credo in questo senso che le revisioni sistematiche – assai più che le linee-guida – possano essere una soluzione efficace: qualcuno legge per te, filtra per te e ti propone una modalità sintetica di informazione. Ma, soprattutto, non cerca di dirti che cosa devi necessariamente fare, o non fare, alla luce di quella informazione.

Anche se poi spesso si tende a fornire delle prescrizioni. Anche nel caso dello screening per la mammografia ci furono indicazioni forti da parte degli autori?

La differenza tra sintesi delle informazioni (revisioni sistematiche) e sintesi più prescrizione sull’uso (linee-guida) è talora molto sottile e in questo senso anche le revisioni Cochrane talvolta finiscono per essere molto prescrittive, anche se non dovrebbero.
Tornando all’esempio della mammografia, una delle cose che aveva fatto arrabbiare molti nella controversia era che gli autori non si erano solo fermati ad un’analisi, ma avevano detto: guai agli amministratori che continueranno a finanziare i programmi di screening. Come se la decisione clinica, ma ancor più quella politica, potesse essere determinata solo da un certo modo di vedere le richieste scientifiche, lasciando intravedere il problema della presunzione dei ricercatori i quali considerano le informazioni da loro prodotte quale unico elemento che debba guidare le scelte.

In che modo si potrebbe arrivare alla scelta in modo consapevole?

Il primo livello è quello di educare a riflettere attentamente sui benefici. Bisognerebbe agire a cominciare dall’Università, per proseguire nella formazione continua e anche nella ricerca. Sempre nel dibattito sul tema dell’incertezza in medicina che ho citato in precedenza, oltre a Giorgio Bert, ha partecipato il cardiologo Shweiger, che ha spostato la riflessione su come la metodologia dei grandi trial di popolazione abbia fatto sì che oggi, di fronte ad uno studio di 50, 60, 100 mila pazienti, anche benefici molto piccoli diventino statisticamente significativi. Si fa fatica poi a riportare un beneficio molto piccolo, misurato su grandi casistiche, a un risultato sostanziale (clinicamente rilevante) sul paziente individuale.

La difficoltà in questo caso è di trasferire i dati ottenuti da studi su ampie popolazioni al problema clinico del singolo?

È un percorso assai difficile. Anche se ciò che conta nell’educare a vari livelli l’operatore a ciò che realmente è rilevante è un criterio di trasparenza. A questo proposito, nel numero del BMJ del 19 giugno 2004 c’è un articolo intitolato "Grading quality of evidence and strength of recommendations" . È stato preparato da un gruppo di lavoro internazionale che propone un nuovo sistema di classificazione – denominato GRADE – per dare un’idea della qualità dei benefici e della forza delle raccomandazioni. È un importante contributo metodologico che si inserisce nel dibattito in corso sulle linee-guida e le revisioni sistematiche. È da tempo che molti erano insoddisfatti del fatto che, per esprimere un beneficio terapeutico reale, lo si facesse solo attraverso una valutazione della qualità metodologica. L’approccio proposto con il GRADE tenta di colmare questa insoddisfazione proponendo di tenere conto anche della rilevanza di un effetto, della trasferibilità di un risultato, dell’applicabilità su popolazioni più ampie. Il GRADE offre un riferimento concettuale e pratico utile per classificare la qualità delle prove scientifiche e per tradurre queste prove scientifiche in raccomandazioni. Certo, data la sua analiticità è un sistema ancora molto complesso e che andrà migliorato e forse snellito, ma credo davvero sia un passo avanti alle classificazioni troppo semplicistiche usate oggi da molti esperti di EBM.

E se i problemi complessi non potessero essere trattati semplicemente?

Una certa schematicità nella promozione dell’EBM ha portato a pensare che i problemi della comunicazione e della valutazione del beneficio siano semplici, ma i problemi non sono semplici per definizione. Un elemento che può aiutare è la trasparenza. Quando si redigono delle linee-guida è necessario essere trasparenti su tutti i passaggi e sulla metodologia seguita. Quando si realizza una revisione sistematica ci si deve preoccupare che il lettore, se vuole, possa ripercorrere esattamente il percorso fatto dagli autori.

La trasparenza potrebbe favorire il recupero di una relazione fiduciaria tra clinici, ricercatori e istituzioni?

Parafrasando un commento di Ilvo Diamanti di qualche giorno fa sulla Repubblica, in cui, parlando delle elezioni e dei risultati di Berlusconi, sosteneva che fosse finito l’irreality show, potremmo dire che anche in medicina deve finire l’irreality show.
Nel caso della politica italiana temo che si tratti di una visione un po’ ottimistica perché di irreality show ne vedremo ancora tanti. In medicina, è necessario da una parte comunicare con la massima trasparenza, dall’altra non pensare che tutto sia semplice ma accettare la complessità. La trasparenza, tra l’altro, permette anche l’essenziale esercizio del dissenso.

Al medico dovrebbero essere offerti gli strumenti per una lettura critica dei risultati della ricerca così come al paziente quelli necessari per una “partecipazione” informata alle scelte di salute?

Nel caso del medico, credo si debba richiedere che il dissenso, quando esiste, sia “informato”. Perché oggi praticare una medicina in maniera coscienziosa deve prevedere la possibilità di prendere anche decisioni in dissenso con gli orientamenti prevalenti, però nella piena consapevolezza delle basi su cui poggia la propria scelta. In questo senso credo che le revisioni sistematiche e la didattica della medicina dovrebbero fondarsi sull’idea che l’incertezza non è un limite ma realtà; fare ricerca significa controllare e ridurre l’incertezza, non eliminarla. Prendere decisioni significa acquisire le migliori informazioni scientifiche assumendosi però le proprie responsabilità.

 

23 giugno 2004

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