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Verso una medicina informatizzata

L’informatica al servizio della medicina: una moda o una naturale evoluzione regolata dai tempi dello sviluppo tecnologico?

Non fosse altro che per i risparmi ottenibili da una gestione automatizzata di alcuni dati sanitari, l’informatica medica è sicuramente un’evoluzione naturale e necessaria. Sotto opportune condizioni, permette di migliorare la qualità dei servizi sanitari come rilevato anche dall’Institute of Medicine statunitense secondo il quale le tecnologie informatiche dovrebbero avere un ruolo centrale nella riprogettazione del sistema sanitario. Una delle condizione fondamentali è la formazione del personale addetto all’utilizzo dei sistemi informatici che dovrebbe essere in grado di utilizzare in modo naturale ed efficiente questi strumenti esattamente come quelli già di uso comune.

Sistemi automatizzati al servizio di una scienza empirica quale la medicina. È possibile?

Si è possibile. E la recente intervista di Va’ Pensiero a Enrico Coiera ne illustra bene i metodi e i modi per la realizzazione. La medicina è empirica ma la tendenza attuale verso la medicina basata sulle evidenze ne esalta gli aspetti scientifici, grazie alla definizione di protocolli e linee-guida che codificano il comportamento più appropriato in una determinata situazione clinica. Se il protocollo è descrivibile in modo formale, allora è possibile tradurlo in un sistema automatizzato che supporti le decisioni dell’operatore sanitario in condizioni critiche o di stress. A questo proposito, ai miei studenti della Facoltà di Medicina e Chirurgia porto come esempio il sistema dimostrativo del progetto Prodigy: una base di conoscenza sviluppata e mantenuta dal National Health Service (NHS) inglese per i sistemi destinati ai medici di Medicina generale, in grado di supportarne le decisioni diagnostiche e terapeutiche, e di fornire informazioni personalizzate per il paziente. Elemento interessante in questo caso è la base di conoscenza fornita agli sviluppatori di sistemi informativi, che possono così dotare i loro prodotti di un ausilio decisionale scientificamente certificato e sempre aggiornato.

Il quale ambito medico diviene importante un supporto decisionale?

Se penso alla mia esperienza più diretta, determinata dalla collaborazione con i patologi del Policlinico Universitario di Udine, un supporto alla decisione può diventare interessante quando il medico esprime giudizi di tipo quantitativo su base empirica. Per essere più chiaro, in patologia la valutazione di marcatori immunoistochimici viene data sotto forma di percentuale di tessuto positivo e intensità della positività – due numeri che il patologo ricava osservando alcuni campi di un campione istologico. Convenzionalmente si ritiene che i valori così misurati siano obiettivi anche se inizia ad esserci qualche dubbio sulla riproducibilità interosservatore delle valutazioni. Una versione software di tali misurazioni diventerebbe quindi molto interessante, tuttavia non facile da realizzare a causa della variabilità delle condizioni che caratterizzano i campioni. Questa difficoltà potrebbe essere superata con la recentissima tecnica dei tissue microarrays, dove centinaia di campioni vengono sezionati, colorati e trattati uniformemente.

Quali i campi della medicina che più di altri potranno beneficiare dell’informatizzazione?

Se la domanda si riferisce all’informatizzazione in senso generale, e pensando soprattutto alla situazione italiana, come utente del sistema sanitario risponderei la gestione elettronica dei dati del paziente tramite cartelle cliniche elettroniche intercomunicanti che evitano di dover trasportare con sé la massa di referti e documenti tra ambulatori, reparti, uffici ticket e farmacie. Da informatico mi rendo conto che se teoricamente è banale, in pratica significa parlare di sistematizzazione delle procedure di raccolta dei dati, di standard per la loro codifica, trasmissione e scambio tra i diversi sottosistemi di ambulatori, reparti ecc. Sebbene alcuni standard esistano, lo sforzo necessario al loro utilizzo sistematico non è indifferente. Una soluzione che vedo con interesse è quella della cartella clinica elettronica personale che sia gestita direttamente dall’utente stesso e non più non dai vari enti sanitari. In questo modo l’utente diventerebbe finalmente padrone dei suoi dati, mettendoli a disposizione di chi si prende cura di lui. Tuttavia anche questo approccio presenta dei problemi, sia di tipo legale sia di consapevolezza (anche tecnica) del valore dei dati gestiti da parte del paziente.

Quali i vostri progetti per la messa a punto di sistemi di telemedicina per il secondo parere?

Con il professor Beltrami dell’Università di Udine, mi occupo di telepatologia ormai da dieci anni, e ne ho attraversato le varie fasi tecniche cercando di contribuire soprattutto con valutazioni dell’affidabilità diagnostica dei vari metodi proposti (in collaborazione con l’Istituto di Anatomia patologica dell’Ospedale di Trento). In Anatomia patologica, la telemedicina riveste principalmente due ruoli: per la diagnosi intraoperatoria (e quindi di tipo primario) che ha carattere di urgenza essendo effettuata durante l’operazione chirurgica al fine di dare indicazioni al chirurgo riguardo la natura della patologia, e per il secondo parere sempre più utilizzato dal patologo per ottenere supporto nella diagnosi di patologie rare o borderline. Il meccanismo più semplice è costituito dalla telepatologia store-and-forward: immagini selezionate dal patologo mittente vengono spedite allo specialista, per esempio tramite posta elettronica. Nel 1995 abbiamo pubblicato il nostro primo, incoraggiante studio di questo tipo nel campo della patologia gastrointestinale, seguito poi da altri per la dermatopatologia, la citologia mammaria e la diagnostica intraoperatoria.
La telepatologia store-and-forward è utile principalmente per il secondo parere, e su di essa si basano i due principali centri di consulenza specifici, quello dell’AFIP (Armed Forces Institute of Pathology) di Washington e quello dell’UICC (Union Internationale contre le Cancer). Comunque sono state sollevate critiche sulla necessità di preselezione dei campi che, se effettuata senza esperienza, potrebbe influenzare la diagnosi del patologo consulente.

E nel caso telepatologia intraoperatoria?

Per la telepatologia intraoperatoria è necessario uno strumento che lavori in tempo reale. Si parla quindi di telepatologia robotizzata basata sull’utilizzo di un microscopio robotizzato guidabile a distanza, le cui immagini sono fruibili in tempo reale sotto forma di immagini sia statiche quando acquisite di volta in volta su comando dell’osservatore remoto, sia dinamiche grazie a sistemi di tipo videoconferenza. In quest’ultimo caso, è necessario prestare attenzione alla risoluzione delle immagini, che in base agli standard è più bassa del necessario (352×288 in sistemi H320). Abbiamo di recente concluso un progetto di questo genere con l’Ospedale di Tolmezzo, situato in montagna e senza una sua Anatomia Patologica, nonostante sia presente attività chirurgica.
Una tecnica molto recente che si presta, tra le varie applicazioni, al secondo parere, è quella del cosiddetto vetrino digitale: non poche immagini selezionate, ma l’intero vetrino (o comunque sue larghe porzioni) acquisito automaticamente tramite un microscopio robotizzato e memorizzato in modo che sia reso accessibile a distanza, trasferibile, duplicabile (esempi).
Anche di questa tecnica stiamo valutando le prestazioni diagnostiche, ma l’obiettivo principale sarà, più che il secondo parere, il controllo di qualità nello screening citologico cervico-vaginale.

Lei ha coordinato un workshop sull’open source in medicina al VI congresso internazionale MEDNET2001. Quali i requisiti minimi? Come importare l’open source in medicina?

All’epoca avevo deciso di coordinare un piccolo workshop sull’open source in medicina poiché in Italia c’erano un paio di esperienze interessanti in corso: una ditta nei pressi di Udine (Conecta) partecipava al primo progetto a finanziamento europeo riguardo l’argomento (EU-Spirit), e a Padova era stato sviluppato il sistema open source Raynux per la radiologia. Dare dei requisiti minimi per l’open source in medicina è difficile. Se parliamo di software di uso generale, Linux è sempre più utilizzato sui server mentre è di difficile applicazione sui computer degli utenti finali non perché più ostico da usare: il problema è che i programmi abitualmente usati necessitano di Windows (come Office), e lo scambio di dati con essi è artificialmente difficoltoso perché i formati sono proprietari. Se si pensa alla quantità di virus che gira su Windows e all’influsso che hanno sul lavoro del personale sanitario, già questo basterebbe per orientarsi verso Linux anche sulla scrivania. Per quel che riguarda il software specificamente sanitario, esistono ormai numerosi progetti anche molto sofisticati; non ho idea però di quanti utenti esistano realmente per ciascuno di questi progetti (se non nell’ambito della ricerca).

Perché portare l’open source in medicina?

In medicina una ragione per l’utilizzo di software open source è per sapere cosa fa esattamente un programma. Ad esempio, nel caso in cui memorizziamo immagini in una cartella clinica, è bene sapere se vengono compresse, come, e se l’algoritmo è implementato correttamente. Questo principio è ben noto per la sicurezza, che non trae vantaggi dalla riservatezza dell’implementazione (nonostante possa sembrare ragionevole il contrario). In molti Stati ormai quest’ultimo aspetto viene affrontato in modo esplicito, tanto che Microsoft ha stretto diversi accordi per rendere visibili su richiesta (e sotto controllo, ovviamente) i sorgenti di Windows a vari governi. In Italia il ministro Stanca ha introdotto il concetto di open source nei piani di innovazione del Governo (preceduto però da un disegno di legge del senatore Cortiana dei Verdi), soprattutto per quel che riguarda la pubblica amministrazione (sanità inclusa).

Da dove vengono principalmente i finanziamenti? Industrie informatiche o organi ministeriali? E da chi la richiesta?

Io collaboro con un settore relativamente povero della medicina: l’Anatomia patologica. I finanziamenti per la telemedicina sono quindi pochi, e prevalentemente pubblici (Ministero della salute, Università e Regione), anche se abbiamo compiuto delle ricerche in collaborazione con Olympus, che si occupa di microscopia e dispositivi biomedici anche di tipo informatico.

La telemedicina è di destra o di sinistra?

Più che porre la questione in questi termini – che rendono la risposta oziosa – è utile invece considerare la telemedicina nell’ottica politica della globalizzazione. Già nel 1996, alla conferenza internazionale di Telemedicina di Londra (all’epoca quasi unica nel settore), era stato posto il problema di come utilizzare la telemedicina nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Infatti, se utilizzata per fornire una consulenza occidentale ai paesi poveri, si rischia di trasformare la classe medica locale in mera intermediaria capace di autogestire il minimo necessario, passando ai colleghi occidentali più evoluti ogni quesito sanitario importante. Questo problema diventa maggiormente evidente quando il secondo parere è fornito come extra per chi se lo può permettere economicamente (visto che la telemedicina serve anche ad estendere il mercato della sanità).
La soluzione auspicata all’epoca era quella di accompagnare ogni progetto di telemedicina con formazione ed aggiornamento per il personale locale, al fine di renderlo progressivamente sempre più autonomo (la qual cosa è però in contrasto con gli interessi economici che muovono certe forme di telemedicina). Aggiungerei che ciò si può ottenere rafforzando il naturale contenuto formativo di ogni consulenza, se effettuata come dialogo e non come semplice prescrizione.

Quale l’impatto dell’informatica nel rapporto medico paziente? E quale il suo peso per le casse dello stato?

Mi riallaccio ad una risposta precedente: l’informatica, per il paziente anziano o svantaggiato, potrebbe apparire come qualcosa di astruso e difficile, ma se si concretizza in minori spostamenti, minori ripetizioni di dati già forniti, minore carta da trasportare, allora il vantaggio diventa evidente e comprensibile. Il costo dell’informatizzazione è di tipo infrastrutturale e dà vantaggi sul medio-lungo termine, ma necessita di investimenti iniziali notevoli, che sono uno scoglio difficile da superare in un momento in cui pare che tagliare le tasse sia la soluzione di ogni problema.

E per quanto riguarda l’open source?

L’open source non è automaticamente un metodo per risparmiare. Tagliati i costi di licenza, devono essere valutati l’investimento per riaddestrare il personale che, complice la formazione informatica secondo il modello dell’ECDL, è ormai diventato più un esperto di Windows e Office che abile utente di calcolatori. Il modello open source prevede, inoltre, dei costi relativi non più alla licenza ma all’assistenza e manutenzione. Alla lunga però l’open source permette di risparmiare quando si tratta di cambiare fornitore o manutentore dei sistemi; mentre al momento si tende a rimanere bloccati con un unico fornitore, anche se inefficiente o esoso, perché è impossibile utilizzare lo stesso sistema con altro manutentore oppure passare ad un nuovo sistema trasferendo i dati in modo indolore.

Se lei fosse un medico, cosa chiederebbe o esigerebbe dall’informatica medica?

È quello che cerco di immaginarmi in continuazione. Probabilmente un supporto efficiente e "invisibile" all’attività quotidiana, ben integrato nel flusso di lavoro.

 

14 aprile 2004

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