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Anatomia patologica: valore e utilità del secondo parere

Da quando è entrato in scena l’uso del secondo parere in anatomia patologica?

Durante i 35 anni in cui ho lavorato negli Stati Uniti, e soprattutto a partire dai primi anni ‘90, la richiesta di una seconda opinione sui reperti istologici o citologici è andata continuamente crescendo. L’incremento si è verificato soprattutto in campo oncologico, un settore in cui all’anatomo-patologo spetta sia di definire se il tessuto sospetto è di natura benigna o maligna sia di determinare le caratteristiche istopatologiche della lesione che possono essere determinanti ai fini della prognosi e della cura. Si tratta di compiti delicati: il ricorso al secondo parere può essere in alcune circostanze di grande utilità.

Tradizionalmente il referto dell’anatomo-patologo viene considerato in oncologia come il giudizio diagnostico definitivo, quello che permette di stabilire con certezza se una lesione è o no ‘maligna’. L’abitudine a richiedere con più frequenza un secondo parere significa che questa convinzione è sbagliata?

No, anche attualmente lo studio al microscopio dei reperti tissutali è quello che conclude l’iter diagnostico in caso di sospetto tumore maligno. Non solo, anche la stadiazione del tumore e la definizione della sua aggressività, e di conseguenza la prognosi e la scelta della terapia, vengono in gran parte determinati dalle caratteristiche morfologiche del tessuto indagato e dalla loro interpretazione. Ma ciò di cui non sempre l’opinione pubblica e gli stessi medici si rendono conto è il fatto che il referto dell’anatomo-patologo non è sempre una questione di bianco e nero, ma di sfumature. In questi casi ciò che conta di più sono l’esperienza e le capacità individuali dello specialista. In più di una circostanza, dunque, la diagnosi anatomo-patologica si affida più al patrimonio di conoscenza e alle abilità professionali dell’esperto che a segnali misurabili e incontrovertibili.

Quando si verificano situazioni come quelle cui lei ha accennato?

Questo avviene prima di tutto quando ci si imbatte in una lesione rara, della quale il singolo anatomo-patologo ha una conoscenza diretta scarsa o nulla. In questi casi lo specialista non riconosce la lesione semplicemente per mancanza di esperienza specifica. Ma un’incertezza analoga, bench causata da motivi diversi, può comparire nell’esame di lesioni frequenti e già note quando queste sono al limite tra la benignità e la malignità. Tipiche da questo punto di vista sono alcune lesioni della mammella. Nella classificazione convenzionale più frequentemente adottata, la lesione definita come iperplasia atipica può essere interpretata spesso sia come l’estrema manifestazione di una iperplasia, in pratica un tumore benigno, sia come l’inizio di un carcinoma in situ. Si può anche dire che nelle situazioni ‘grigie’ o borderline (oltre che nel tessuto mammario sono abbastanza frequenti nei tumori della cute, come i melanomi, della tiroide e in quelli femminili) i parametri morfologici non sempre sono facilmente riconoscibili e quindi utilizzabili per stabilire la natura del tessuto esaminato. In questi casi la valutazione anatomo-patologica è problematica.

Quante volte una diversa interpretazione dei vetrini può portare a differenze importanti anche nella gestione della malattia?

Nella gran parte dei casi le discrepanze che si registrano tra i diversi referti patologici non sono significative sotto il profilo clinico. Così avviene, per esempio, quando si mette a confronto una diagnosi di carcinoma polmonare a grandi cellule e una diagnosi di carcinoma polmonare a cellule squamose: i due tipi istologici sono diversi, ma prognosi e terapia restano sostanzialmente identiche. Ma a volte una discrepanza diagnostica può portare a prognosi e a decisioni terapeutiche molto diverse tra loro. In uno studio condotto nel 1999 al Johns Hopkins Hospitals di Baltimora su oltre 6000 casi di tumore sottoposti a un secondo parere, la percentuale media di discrepanze ‘clinicamente significativa’ oscillava complessivamente tra il 2 e il 3% del totale. Per certi tipi di cancro (quelli della cute, del sistema nervoso centrale e dell’apparato riproduttivo femminile) lo studio ha rilevato una percentuale di discrepanze ancora più alto, tra il 6 e il 9%”.

Quali differenze si riscontrano tra i comportamenti ‘made in USA’ e quanto avviene, invece, in Italia?

La prima differenza è quella relativa alla frequenza con cui si ricorre alla seconda opinione: in tutti i campi della medicina, e non soltanto in anatomia patologica, questo metodo di indagine è più diffuso negli Stati Uniti che in Europa. Alla sua espansione oltreoceano hanno contribuito senza dubbio anche motivi di ordine assicurativo e legale: tuttavia non è da qui che viene la spinta principale. Va notato piuttosto che negli Stati Uniti 90 volte su 100 è l’anatomo-patologo a chiedere al collega di dare il suo parere su un reperto di difficile interpretazione: da noi la domanda proviene più spesso dal paziente o dai familiari. Questo aspetto della questione meriterebbe di essere approfondito. Alcuni specialisti italiani, infatti, tendono a sentirsi sminuiti dal fatto di domandare l’opinione di un collega. Al contrario, se la possibilità di rapportarsi a competenze professionali di riferimento fosse interpretata come una occasione di qualificazione e crescita professionale, questo atteggiamento contribuirebbe ad espandere anche da noi la richiesta del secondo parere.

Per favorire anche in Italia l’abitudine alla richiesta del secondo parere, quali sono, secondo la sua esperienza, le linee di azione auspicabili?

Agli anatomo-patologi andrebbe ribadito che è praticamente impossibile per ognuno di loro conoscere tutte le variabili morfologiche che si riscontrano nei tessuti tumorali e la loro corretta interpretazione. Vanno aiutati a capire che chiedere aiuto a un collega più esperto non è altro che un segno di professionalità. Da parte loro, i clinici e i malati devono considerare la seconda opinione come una procedura che, utilizzata con buon senso e competenza, aumenta le probabilità di diagnosi accurate, di cure appropriate e di controlli efficaci. Infine l’organizzazione sanitaria dovrebbe prevedere tra i capitoli di spesa dei singoli ospedali anche una voce dedicata al secondo parere. Attualmente ben pochi dei budget ospedalieri nazionali considerano questa eventualità. Di conseguenza l’unico modo in Italia per ottenere una seconda opinione è che il paziente la paghi direttamente: ma questa prassi è fortemente limitativa.

Intervista tratta da Informazioni INT,
anno 10, numero 3, settembre 2003,
Il Pensiero Scientifico Editore

Commento

  1. Flavio 22 Luglio 2019 at 17:27 Rispondi

    A distanza di quasi 20 anni dalla pubblicazione dell’articolo, quante sono oggi le richieste di secondo parere in Italia, e la percentuale di seconda diagnosi diversa dalla prima, specialmente per casi di tumore al seno?

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