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Dalla “monnezza” campana a Radio Vaticana

Una filosofa, Fiorella Battaglia, un epidemiologo, Fabrizio Bianchi e un’esperta in comunicazione, Liliana Cori, sono gli autori di Ambiente e salute: una relazione a rischio. Come è nata l’idea di questo libro?

Volevamo tentare la strada delle contaminazione interdisciplinare nella convinzione che la riflessione etico-politica possa guadagnare in concretezza attraverso un confronto ravvicinato con l’esperienza – reso possibile dai problemi sollevati dall’epidemiologia – e che l’epidemiologia possa a sua volta guadagnare in lucidità teorica rispetto ai propri presupposti ed in consapevolezza in merito all’uso dei suoi risultati empirici. Nella nostra esperienza collaborativa, l’epidemiologo ha fornito il sostrato empirico ed epistemologico, la filosofa ha dato profondità ai collegamenti con l’etica e l’esperta in comunicazione ha reso fruibile il contenuto per i portatori di interessi: se ci siamo riusciti deciderà il lettore.

Perché, come dichiarate nel titolo, la relazione tra ambiente e salute è una relazione a rischio?

Perché secondo noi l’impatto della relazione tra ambiente e salute non è compreso fino in fondo dall’opinione pubblica ed è sottovalutato anche da una parte della comunità scientifica. Le ragioni sono tante, sia di tipo scientifico che extra-scientifico, e noi abbiamo cercato di analizzarle: dalla insufficienza degli approcci scientifici, ai conflitti di interesse. Il rischio di non comprendere ed affrontare adeguatamente il triangolo ambiente-rischio-salute è quello di non capire le connessioni profonde con l’etica del nostro agire, in primo luogo per quanto riguarda le disuguaglianze e la disequità. Non a caso, uno dei fili conduttori del libro è quello della diversità delle persone di fronte alle sollecitazioni ambientali, per diversa suscettibilità biologica e diversa vulnerabilità di esposizione, come è il caso dei bambini, degli anziani, dei soggetti più deboli di salute.

Il libro ripercorre il caso della “monnezza” in Campania e quello delle radiazioni di Radio Vaticana, i casi di Marghera e di Priolo, il caso di Pesticide Action Network. Qual è il filo conduttore?

Il filo conduttore è dato da alcuni problemi scientifici, etici e di comunicazione. Innanzitutto il posto che occupa l’osservatore/ricercatore, che è parte esso stesso del contesto di osservazione e quindi, non può studiare un fenomeno assumendo uno sguardo esterno (sopra il mondo). Poi, il modo di valutare e usare i risultati degli studi, che spesso risponde ad una logica deduttiva–popperiana, secondo la quale uno studio negativo è in grado di falsificare conoscenze sedimentate da serie di studi positivi, mentre è nostra convinzione che i risultati degli studi debbano concorrere all’accumulazione equilibrata delle conoscenze. In terzo luogo, l’approccio deterministico o eccessivamente riduzionista mostra i suoi limiti quando utilizzato in situazioni complesse, che caratterizzano la relazione tra fattori di rischio multipli e malattie ad eziologia multifattoriale.

In altre parole?

Si apre l’orizzonte ad un paradigma scientifico più evoluto, più adeguato alla complessità del nostro tempo (da alcuni autori definito “scienza post–normale”). Dall’approccio deterministico sufficiente per studiare la causa delle malattie infettive, si è passati ad un modello probabilistico per indagare le cause delle malattie cronico degenerative: non si può isolare una sola causa, molti inquinanti sono legati tra loro e possono avere effetti di tipo diverso su persone diverse. Infine, nei casi studio è emersa una sofferenza sul piano etico: buone pratiche per interpretare gli studi, comunicarne e condividerne i risultati, al fine di garantire la loro trasferibilità alla pratica, la loro comunicazione trasparente a tutti i portatori di interesse.

Nel senso che mancano le buone pratiche per interpretare i risultati degli studi e per condividerli?

Sì. Uno dei rischi principali che emerge dalla sintesi complessiva di tutti i casi studio è credere che l’assenza di evidenze di un rapporto tra causa ed effetto equivalga ad una evidenza dell’assenza di rischio. Attraverso l’esperienza empirica dei casi studio e le riflessioni teoriche abbiamo cercato di avvalorare la nozione che l’assenza di evidenza è dovuta alla scarsità di studi, all’insufficienza di qualità dei protocolli di indagine, a limiti di potenza statistica e di osservazione non pianificata o distorta, e che su questo piano si debba e si possa fare molto.

La qualità dell’ambiente ha un ruolo centrale sulla salute dell’uomo. Quali sono gli ostacoli nel passaggio dalla ricerca alla pratica, cioè dai risultati degli studi ai programmi di prevenzione e ai modelli di salute?

L’ostacolo principale si presenta nel momento di traferire i risultati in decisioni operative. Vanno attivati programmi di prevenzione quando si dispone di risultati solidi e poco incerti, oppure va applicato il principio di precauzione, nel caso che le conoscenze siano ancora incerte. Ma l’incertezza viene spesso gestita in modo strumentale, rimandando all’infinito le azioni e lo sviluppo di nuove ricerche, come se non si potesse convivere nella sfera pubblica con questa dimensione, con cui invece, le persone hanno normalmente a che fare nel quotidiano. L’incertezza che caratterizza la modernità non riesce ad essere gestita, oppure, viene usata per generare paura e reazioni emergenziali. Anche la scala dei problemi che si affrontano è importante: se i rischi globali come quelli del riscaldamento del pianeta riguardano intere popolazioni e decisioni a livello nazionale e mondiale, i rischi ambientali in circostanze di dimensione locale sono ancora più subdoli; innanzi tutto si dispiegano in tempi più o meno lunghi e riguardano in modo diverso gruppi più o meno esposti e vulnerabili. La comprensione di questo è fondamentale sia sul piano della conoscenza che su quello delle decisioni e noi riteniamo che la scienza possa dare su questo un forte contributo.

La difficoltà è anche nel linguaggio, nella comunicazione del rischio…

Certamente. Ma noi sappiamo che anche le cose più difficili e complesse possono essere spiegate – come insegnano molte ricerche – specialmente quando riguardano le condizioni materiali, il corpo stesso delle persone interessate, e noi pensiamo che la salute della comunità sia un ambito di importanza allo stesso livello di quella individuale: due facce della stessa medaglia.
Oggi, c’è uno squilibrio sul modo di presentare il rischio: un’impostazione che presenta il rischio come una dimensione esclusivamente privata spinge verso la colpevolizzazione, come se non esistesse una dimensione collettiva e sociale. L’evidente squilibrio a favore della prevenzione dei rischi individuali e della prevenzione personalizzata (l’obesità, il colesterolo, l’alimentazione, l’attività fisica, la suscettibilità genetica) e a sfavore della prevenzione collettiva, accentua la perdita di coesione sociale e l’indebolimento della difesa dei diritti umani fondamentali, come il diritto alla salute e a vivere in un ambiente salubre da lasciare alle generazioni future. In questo contesto si inquadra la sottovalutazione o sottostima dei rischi che spesso riguardano le comunità che vivono in aree inquinate.

Quali sono le comunicazioni possibili, in tema di ambiente e salute, per la costruzione di una società della partecipazione?

La partecipazione è contenuta nei principi delle legislazioni europee, soprattutto per le sfere come l’ambiente e la salute che fanno riferimento ad una gestione di livello locale e che sono possibili solo grazie alla volontà attiva di tutta la società. Non si tratta solo di applicare tecniche e sistemi di votazione, ma anche qui, di estendere le conoscenze e di renderle disponibili e comprensibili a tutti i cittadini.
Per quanto riguarda invece, l’etica della comunicazione si intende sia la necessità dell’informazione, che la possibilità per il cittadino di intervenire e scegliere tra le diverse opportunità in campo: è chiaro che non si tratta solo di mere scelte tecniche, ma di decisioni che comprendono le convinzioni, i valori e soprattutto l’idea di vita e di mondo delle persone.
Le comunicazioni possibili sono quelle che aprono strade e spazi di consapevolezza, di confronto, di dialogo sulla base del riconoscimento reciproco, del rispetto delle diverse scelte, delle opzioni ideali e delle conseguenze delle azioni intraprese.

Il libro è dedicato a tutti i bambini, le donne e gli uomini che, senza portarne responsabilità, sono stati e sono esposti agli effetti dell’inquinamento ambientale. A chi la responsabilità di questo rischio?

La responsabilità è di tanti: di chi ha inquinato e inquina, di chi non prende seriamente i risultati e non prende le decisioni, non attua le buone pratiche di etica pubblica. Per chi ha responsabilità di decisione, si usa il termine inglese di accountability per indicare il dovere di dare conto delle proprie scelte. Ma anche i ricercatori non possono ritenersi esenti da responsabilità: se stanno nel chiuso dei loro uffici e laboratori, devono essere consapevoli che in loro assenza c’è chi decide sulla base di altri dati o anche di nessun dato; il vuoto di comunicazione col mondo viene comunque riempito! Dunque, per dirla con Weber, etica della consapevolezza e della responsabilità per il ricercatore significa avere coscienza del proprio ruolo pubblico e della responsabilità del trasferire il proprio sapere.

 

13 maggio 2009

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