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ECM: sarebbe bello se…

Gli operatori sanitari sono interessati all’ECM perché è per loro un problema o perché l’educazione permanente è (o è tornata ed essere) un’esigenza sentita?

Per gli operatori della salute la formazione continua è di certo un’esigenza sentita, ma anche una questione legata ai crediti formativi, che sono diventati un forte incentivo. L’ECM si è spesso trasformata in una sorta di caccia ai crediti più che rispondere a una vera aspirazione a migliorare la propria competenza professionale… La limitata vocazione alla formazione viene confermata anche dagli stessi professionisti della Salute della Regione Veneto nell’analisi dei loro bisogni formativi, espressi attraverso un apposito questionario, preparato dalla Commissione ECM regionale. Ad esempio, i risultati dell’ultima parte del questionario indicano che tutte le categorie professionali aspirano a una formazione “comoda” (meglio se vicino a casa o coincidente con il luogo di lavoro, possibilmente all’interno dei turni di lavoro) da mettere accanto alla loro attività professionale. Dalle risposte si trae l’impressione che la formazione non rappresenti un’aspirazione primaria, bensì – nei casi migliori – un’utile necessità del presente da soddisfare con i minori disagi possibili…

In che modo i risultati della vostra indagine sui fabbisogni formativi dei professionisti della salute potranno orientare l’offerta formativa?

La rilevazione dei fabbisogni dell’utenza orienterà certamente l’offerta formativa. Tuttavia, mi preme sottolineare che queste informazioni sono utili ma non esaustive, n totalmente veritiere, perché rappresentano solo una faccia della medaglia: ci aiutano a riconoscere parte dei loro bisogni, ma rivelano anche parecchie contraddizioni. Per esempio, abbiamo riscontrato che tra le competenze considerate più importanti all’interno del proprio lavoro gli intervistati di tutte le professioni sanitarie hanno segnalato – accanto alle competenze specifiche della propria professione – le capacità relazionali. In modo singolare, l’esigenza di migliorare questa capacità viene vissuta in buona parte con fini utilitaristici – capire e farsi capire dagli utenti e dagli altri operatori sanitari, per interpretare e risolvere i problemi da affrontare minimizzando i rischi – e non emerge, invece, il fine essenziale della relazione in sanità, che è una relazione d’aiuto al paziente o, comunque, alla persona sofferente. Un’impressione che sembra avvalorata dall’attenzione relativamente scarsa prestata alle competenze di counselling che invece rappresentano un’oggettiva necessità degli operatori sanitari, soprattutto nell’educazione alla salute. Un’altra contraddizione che abbiamo visualizzato riguarda le modalità di formazione; gli intervistati mostrano una considerazione marginale per la formazione a distanza (FAD), probabilmente imputabile a più fattori: da un lato la scarsa conoscenza della metodologia e la familiarità piuttosto limitata con gli strumenti informatici, dall’altro l’offerta finora piuttosto circoscritta e la qualità didattica e pedagogica spesso discutibile di molti dei corsi FAD disponibili.

La FAD potrebbe essere un modo per superare il problema della distanza e quindi per rispondere all’esigenza dell’utente di non spostarsi dal luogo di residenza e di lavoro…

Potrebbe esserlo per un buona parte della formazione di natura teorico-cognitiva, che è la sola compatibile con la metodologia della FAD, ma la sua preparazione presenta numerose criticità non trascurabili perché richiede competenze che sul mercato non sono molto diffuse.

Competenze informatiche o pedagogiche?

Una competenza informatica limitata incide negativamente soprattutto sul fruitore, che – come è dimostrato anche dalla nostra indagine – usa abbastanza diffusamente il computer, ma a livelli operativi medio-bassi: in genere per funzioni di videoscrittura, per la posta elettronica e in qualche misura per la navigazione in Internet. Per chi prepara i prodotti per la FAD il problema non è tanto di natura informatica, quanto pedagogica: come costruire prodotti veramente capaci di formare, mettendo in gioco le potenzialità effettive di un discente adulto che non accetta di essere in posizione passiva e di memorizzare delle pillole di conoscenza ma, giustamente, pretende di essere attore protagonista della propria educazione, interagendo con lo strumento di conoscenza e anche con i suoi contenuti.

È un handicap metodologico solo italiano?

No, la FAD è difficile per tutti. Altri paesi la praticano da molto più tempo e, quindi, hanno acquisito una maggiore esperienza soprattutto per quanto riguarda la valutazione dell’apprendimento conseguito, la quale gioca un ruolo importante nel condizionare la formazione continua, come del resto qualsiasi tipo di formazione. All’estero sono molto più esperti soprattutto nell’applicazione dei metodi oggettivi di verifica dell’apprendimento. Una delle pecche del programma ECM italiano s’individua proprio nelle modalità concrete di valutazione che vengono effettuate alla conclusione di ogni corso ECM: quasi sempre le verifiche consistono nella compilazione di questionari che sondano la memorizzazione delle conoscenze offerte dal corso. E invece, trattandosi di formazione professionale, la verifica del grado di apprendimento dovrebbe valutare le competenze più che le nozioni, cioè la capacità dei discenti di applicare nella propria professione quanto i corsi ECM possono offrire. Purtroppo nel nostro Paese ancora scarseggiano, anche se stanno crescendo le competenze valutative capaci di produrre test oggettivi che verifichino, soprattutto, la capacità di risolvere problemi professionali reali.

Quindi l’ECM dovrebbe continuare ad insegnare un mestiere…

Per tutte le figure professionali – medico, infermiere, fisioterapista, dirigente sanitario, cioè per qualsiasi professionista della salute – è fondamentale imparare a risolvere problemi. Per questo l’ECM dovrebbe insegnare a risolvere problemi e dovrebbe verificare l’acquisizione di questa abilità negli ambiti specifici; tuttavia questo salto di qualità non è ancora stato fatto nella maggioranza degli ambienti di formazione, e tanto meno nella FAD nella sua attuazione più rilevante, rappresentata dall’e-learning.

E l’Università non dovrebbe educare gli studenti di medicina alla necessità di una formazione continua?

Certo che dovrebbe, però ciò ancora non accade in modo evidente e sufficientemente diffuso. Non accade per diversi motivi, riconducibili alle modalità prevalenti della didattica universitaria, ancora legata alla tradizione dell’insegnamento ex cathedra, cioè fatto di lezioni accademiche, che spesso si limitano a una trasmissione sistematica di conoscenze teoriche già presenti nei libri di testo e, quindi, studiabili in modo autonomo dagli studenti, anzich insegnare a studiare e ad applicare quanto si è studiato mediante la trasmissione dell’esperienza viva del docente. Ancora in poche facoltà mediche italiane (mentre sono oramai numerose quelle straniere) si applica invece una didattica di tipo tutoriale: in questo approccio didattico molto stimolante, piccoli gruppi di studenti sotto la guida di un tutore apprendono in modo attivo ad affrontare e a risolvere problemi; durante il percorso di apprendimento gli studenti individuano nella discussione le proprie ignoranze e incompetenze e, motivati da queste, imparano a cercare nelle pubblicazioni scientifiche e a utilizzare le conoscenze mancanti, cioè ad apprendere per ricerca e per scoperta in un lavoro cooperativo che prepara anche al lavoro in quipe e alla valutazione tra pari. Tutto ciò rappresenta un presupposto metodologico fondamentale per la formazione permanente.

Bisognerebbe quindi cambiare il sistema didattico universitario…

Sì… Fino a quando all’esame viene chiesto di ripetere quanto il docente ha detto a lezione, l’allievo tenderà a considerare come dogma indiscutibile ogni insegnamento ex cathedra. Tutto questo non è certo un incentivo alla educazione continua: il neolaureato che esce dal corso di laurea con questa formazione, basata soprattutto sulla memorizzazione di nozioni apparentemente certe e immutabili e, con questa forma mentis, di fronte ai problemi professionali è colto dal panico e solo allora si accorge che c’è ancora molto da imparare e che questo processo durerà per tutta la vita; ma molto spesso non sa bene come fare… Infatti, ciò che purtroppo non viene insegnato nelle nostre facoltà è come si faccia a “imparare a imparare”, cioè il metodo con cui aggiornare le nostre conoscenze e competenze. Questa carenza dipende soprattutto dalla strutturazione per discipline dei corsi di laurea: in tale contesto didattico ogni docente ritiene che la propria disciplina debba essere privilegiata; nonostante si parli di “corsi integrati” non vi è una effettiva integrazione dei saperi; lo studente – che da sempre studia per l’esame – esaminato per singole discipline, appena superato un esame non si preoccupa di dimenticare ciò che ha memorizzato, anche per fare spazio alle nozioni dell’esame successivo. Tutto ciò non è certo un incentivo all’apprendimento duraturo e permanente…

Un quadro che lascia dell’amaro in bocca…

Sì, forse è vero, ma comunque ci sono segni promettenti di un’evoluzione positiva; dagli anni ottanta – quando sono nate – due istituzioni italiane stanno lavorando al cambiamento del sistema didattico delle facoltà mediche: la Conferenza Permanente dei Presidenti dei Corsi di Laurea in Medicina, una sorta di osservatorio permanente che lavora per arrivare a una didattica adeguata ai bisogni formativi della medicina, e da qualche tempo è affiancato in ciò da un analogo organismo per le altre professioni sanitarie; e la Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPeM), un’associazione scientifica culturale senza scopi di lucro che studia e supporta soprattutto con la competenza pedagogica la formazione dei Professionisti delle salute (medici e personale sanitario). Grazie a queste realtà qualcosa si sta muovendo: basti pensare che il Corso di laurea di medicina in poco meno di quindici anni è andato incontro a 4 riforme e ogni riforma ha apportato qualcosa di buono, qualche innovazione significativa, almeno nelle norme, anche se le abitudini personali sono dure a morire… Tuttavia siamo sulla strada del cambiamento…

Quali indicatori (gradimento da parte del discente, appropriatezza degli interventi sanitari, ecc.) sarebbero più appropriati per valutare l’efficacia dei progetti educazionali?

Credo che serva un bouquet di indicatori perché non può esistere un unico indicatore con valore assoluto. L’indicatore più efficace e significativo sarebbe infatti il miglioramento dello stato di salute della popolazione per una maggiore appropriatezza dell’esercizio della medicina da parte di tutti gli operatori sanitari, a tutti i livelli come conseguenza dell’efficacia formativa. Ma questo è molto difficile da analizzare e da oggettivare. Di fatto è necessario integrare i risultati di più indicatori differenti. Sicuramente l’indice di gradimento, di chi ha seguito un corso di formazione, è importante perché non si può andare contro corrente (oltre tutto si apprendono molto meglio le cose che ci piacciono rispetto a quelle che non ci piacciono e quindi la formazione non può essere imposta); ma non basta, perché la cosiddetta customer satisfaction è un indice rilevante per il costruttore e il venditore di lavatrici o di automobili, ma lo è molto meno per chi produce e offre formazione, perché in fondo la soddisfazione dello studente medio dipende dalla facilità con cui supera un esame molto più che non dalla gratificazione per le cose apprese. E allora l’indicatore essenziale dell’efficacia educativa è la verifica corretta dell’apprendimento effettivo, ma, come già sottolineato, deve venire valutato ciò che il discente è diventato capace di compiere grazie all’evento formativo e non solo le nuove nozioni memorizzate.

E la diminuzione dei costi della Sanità rientra nel bouquet degli indicatori?

Questo dovrebbe essere un effetto collaterale positivo della formazione continua ma non è l’elemento fondamentale perché il rapporto costi/benefici misura l’efficienza più che l’efficacia; certamente è una buona cosa se a parità di costi il risultato è migliore, ma non basta; purtroppo l’attuale tendenza prevalente è quella del risparmio a oltranza, e questo alla fine incide sull’efficacia. Insomma un medico che ha imparato a usare bene i farmaci curerà meglio i suoi pazienti forse anche facendo spendere meno denari; ma paradossalmente potrebbe far spendere ancor meno… uccidendo i propri pazienti; e quindi non basta spendere poco, perché ciò che conta è spendere bene!

Nella definizione degli obiettivi formativi andrebbero integrati gli obiettivi decisi centralmente con quelli espressi dagli operatori?

Certamente sì, perché gli obiettivi espressi centralmente sono obiettivi generali per lo più incontestabili, ma essi vanno poi declinati in funzione delle esigenze specifiche, cioè rispondendo ai bisogni reali di formazione. Questi bisogni sono almeno di due tipi: quelli percepiti dai formandi, che però hanno dei limiti perché esprimono dei bisogni soggettivi, di cui bisogna peraltro tenere conto, se non altro per ragioni di compliance; e quelli oggettivi, che non sempre giungono alla soglia di coscienza dell’interessato. È allora indispensabile l’opera di organismi che sappiano completare e fare sintesi delle necessità effettive di formazione. Questi organismi possono in buona parte coincidere con le aziende sanitarie (ASL, centri di cura, ecc.), che sono le sole istituzioni capaci di valutare sul campo di quali figure professionali necessitano, di quali competenze e di quali operatività; inoltre sono in grado di rilevare gli effettivi bisogni formativi dei propri dipendenti in relazione alle risorse disponibili e all’offerta di servizi richiesti dal proprio bacino di utenza. Pertanto possono e dovrebbero rientrare nell’interesse e nelle incombenze delle aziende sanitarie la individuazione e la proposta degli obiettivi specifici per la formazione continua nel proprio ambito d’intervento; d’altra parte le stesse aziende dovrebbero essere anche affidabili nella verifica della formazione impartita perché sono in grado di constatarne direttamente le conseguenze e hanno tutto l’interesse a che il loro sforzo formativo risulti efficace.

È forse quello che si sta verificando nella messa a punto degli obiettivi formativi del programma ECM nazionale, che sta ora passando dalla fase sperimentale a quella esecutiva?

Finora non è stato precisamente così, ma probabilmente una fase nuova si sta aprendo con le Commissioni regionali ECM. È mia opinioni personale – che non mi sembra essere condivisa nei luoghi dove vengono prese le decisioni – l’inopportunità che la scelta del tipo di formazione, la scelta dei contenuti, la confezione del prodotto formativo, la valutazione del successo dell’offerta formativa, l’attribuzione dei crediti, cioè tutta la catena delle operazioni necessarie all’allestimento degli eventi formativi, ricadano sotto la responsabilità di coordinamento esercitatata da un unico attore, denominato correntemente provider, perché all’interno di questo sistema è facile che insorgano conflitti d’interesse…

Vale a dire?

Ad esempio, oggi vengono molto valorizzate come provider le società scientifiche; ma ogni società scientifica, per ragioni assolutamente legittime, tende a fidelizzare i propri iscritti, se non altro per aumentarne il numero, e i propri corsi di formazione diventano un strumento di fidelizzazione. Una società non potrà correre il rischio di deludere i propri iscritti sottoponendoli a scelte formative troppo impegnative, o poco remunerate in termini di crediti; purtroppo, questo implica un abbassamento del livello qualitativo e quindi dell’efficacia dell’offerta formativa, che tenderà a essere facile e vantaggiosa come acquisizione di crediti… ma quanto veramente formativa?

Quale sarebbe una soluzione ideale?

Il provider dovrebbe essere uno degli attori, con la funzione principale di distributore dell’offerta formativa, mentre la società scientifica dovrebbe avere il compito di scegliere e proporre i contenuti adeguati ai bisogni effettivi della propria popolazione; ma poi, con pari dignità, dovrebbero offrire le loro competenze sia gli esperti pedagogici per rendere il corso formativo didatticamente più efficace, sia gli esperti in tecniche della comunicazione al fine di garantire la trasmissione gradevole della conoscenza attraverso l’uso appropriato degli strumenti comunicativi, che per lo più attengono all’ambito informatico multimediale.

Il programma nazionale ECM prevede corsi a costo zero per l’operatore; se fossero a pagamento il formando non sarebbe forse più motivato?

Potrebbe essere una buona soluzione purch sia ben equilibrata. Comunque non è vero che l’ECM sia gratuita per tutti: il provider deve pagare al Ministero una somma in relazione alla quantità di crediti acquisiti dalla commissione nazionale ECM (i 130.000 eventi finora accreditati hanno portato nelle casse del Ministero del Tesoro oltre 10 milioni di euro all’anno). Gli organizzatori di eventi formativi debbono allora recuperare queste e le altre spese per l’organizzazione degli eventi: una modalità tipica per i corsi residenziali – quali congressi, workshop e giornate di discussione – oltre che dalle quote di partecipazione è data dal ricorso a sponsor, il che però ci riporta al rischio dei conflitti d’interesse, perché è difficile oggi incontrare mecenati; ne consegue, pertanto, che qualche messaggio commerciale più o meno occulto deve pur passare…

Chi dovrebbe farsi carico dei corsi di formazione?

La formazione costa e dovrebbe essere pagata in parte dall’azienda sanitaria che ha il proprio tornaconto nel formare appropriatamente il proprio personale e in parte dal Sistema Sanitario Nazionale che anche attraverso la formazione deve garantire la salute della popolazione italiana. Tuttavia, anche il formando dovrebbe pagare una certa quota della formazione, perché questa è elemento fondante della sua crescita e, quindi, anche della sua immagine professionale; inoltre, è fattore essenziale della sua educazione globale, e non solo della sua istruzione e addestramento…

Ha messo l’accento sulla parola educazione…

Certamente perché educazione, dal latino educere, significa tirare fuori il meglio di ciò che già è presente nelle persone. Qui dovremmo – ma non possiamo farlo – aprire un discorso pedagogico sull’ars maieutica, il metodo educativo di Socrate, che usava fare domande senza dare risposte. Socrate aiutava gli allievi a cercare e ad articolare le risposte in modo autonomo assumendone pienamente la responsabilità. Potremmo dire con altre parole che aiutava a trafficare i propri talenti, sia pure con l’aiuto di un maieuta saggio, come dovrebbe essere con lo strumento del dialogo ogni Maestro degno di questo nome.

19 gennaio 2005

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